Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 14/07/2013, a pag. 1-15, l'articolo di Emanuela Audisio dal titolo " Se i muscoli fanno paura all'islam ", a pag. 15, l'articolo di Luciana Grosso dal titolo " Maria, la ragazza che si finse maschio per giocare a squash e sfidare i Taliban ", a pag. 28, l'articolo di Francesca Caferri dal titolo " Arabic graffiti. L’altra metà del muro ", a pag. 29, l'intervista di Anais Ginori a Tahar Ben Jelloun dal titolo " Sono le ragazze le più coraggiose ".
Ecco i pezzi:
Emanuela Audisio - " Se i muscoli fanno paura all'islam "
Non ti fanno mai veramente giocare con la scusa dell’Islam. Ti liberano per un attimo, poi devi tornare prigioniera. Inshallah. La primavera araba per lo sport femminile è uno sport ad ostacoli, spesso un miraggio. Perché anche i muscoli mettono paura, danno indipendenza come i libri e le matite. Le chiamano le campionesse di Allah. Servono per farle sfilare alle Olimpiadi, e mostrare che sotto l’hijab c’è tutto: non solo arretratezza, ma voglia di recuperare. Però dura un attimo, il tempo di un clic. La quotidianità è un’armatura medioevale che t’impedisce di misurarti. Tante donne per partecipare (anche alle prime maratone) si sono travestite da uomini, la stessa Ondina Valla, prima azzurra a vincere un oro olimpico, a Berlino nel ’36, negli 80 ostacoli, disse che meritava anche i Giochi di Los Angeles nel ’32, «ma non mi portarono perché il Vaticano fece sapere che non stava bene far viaggiare una ragazza in nave con degli uomini». Ci provano le ragazze a fare sport, ma spesso vengono fermate, anzi arrestate. Elham Ashgari, 32 anni, campionessa di nuoto iraniana, è costretta ad andare in acqua con una tuta da sommozzatrice che pesa 6 chili. Una zavorra. E nonostante l’hijab acquatico sia stata approvato dai giudici, quando nuota in mare, viene fermata dal motoscafo della polizia. «Si intuisce la forma del corpo femminile». Ma va? Allora la si investe, così impara. Hamdiya Ahmed lanciava il giavellotto con il velo, sotto lo sforzo gridava «Allah», e piangeva. Perché in un altro mondo le altre potevano fare sport. Ahmed a 28 anni nuotava, cavalcava, tirava bene la palla a canestro. Si allenava tre volte a settimana. Ma viveva in Iraq dove le campionesse non hanno storia. Dove lo sport non è sogno privato, ma incubo di stato. Ahmed nuotava bene? Facesse la bagnina in piscina: era lì che serviva. E così per vent’anni lei è stata a palazzo: a trafficare con gli asciugamani. Signore, serve niente? Signore, va tutto bene? Signore, Saddam Hussein. Ai dittatori piace mettere i campioni a servizio. Anche il calcio femminile islamico sta cercando di smarcarsi da un terzino feroce. Per ora siamo a un compromesso. La centravanti non avrà il velo, ma solo una cuffietta. Non è mica da questi particolari che si giudica una giocatrice. Provateci a fare un tiro al volo o un dribbling con il velo che s’impiglia sulla finta. E per di più con la tuta. Nel calcio maschile fino a poco tempo fa le donne non erano ammesse nemmeno come spettatrici, infatti ci andavano vestite da uomo. La prima partita all’aperto tra due squadre femminili in calzoncini e maglietta si è giocata nell’ottobre 2003, a Teheran, ma solo con pubblico di donne. L’Iran ha organizzato due Giochi femminili islamici, nella quarta edizione: 18 sport, 1300 atlete, 43 paesi. Gare solo per donne, pubblico inesistente, nessuna pubblicità. Niente foto in piscina o senza velo, e nell’equitazione niente amazzone, se insistevate vi facevano riprendere il cavallo. Una ragazza senegalese che si pavoneggiava prima della sfilata nelle sue scarpe dorate si beccò uno schiaffone dalla capodelegazione. Appena il velo scivolava via, c’era subito chi te lo faceva notare con un rimprovero. Nel nuoto permesso il costume intero, vista l’assenza di sguardi indiscreti, solo donne e niente foto, pena sequestro del rullino. Ma poco è meglio di niente. E lo sport almeno serve per fare un giro nella vita.
Luciana Grosso - " Maria, la ragazza che si finse maschio per giocare a squash e sfidare i Taliban "
Maria Toorpakai Wazir
A quattro anni, Maria Toorpakai Wazir decise che i suoi vestiti non le piacevano. Così li mise tutti in un mucchio e, chissà come, riuscì a bruciarli. Tutti. Il padre, al rientro a casa, trovò la stanza della sua bambina devastata ed esclamò: «Ma cos’è? È passato Gengis Kahn qui?». Da allora il nome del condottiero mongolo divenne il suo soprannome di bambina pestifera e, con il passare degli anni, lo pseudonimo maschile dietro al quale celare la sua identità di ragazza per diventare, nel cuore del Pakistan conservatore, una campionessa di squash. «Il mio primo sport — racconta ora che ha 23 anni e vive a Toronto, dove si allena lontana dalle minacce dei Taliban — fu il sollevamento pesi. Iniziai da bambina, prima dei dieci anni. Nella regione di Peshawar non c’era ovviamente una sezione femminile, anzi: per le ragazze Pashtun è considerato un grande disonore fare sport. Così, mio padre decise di tagliarmi i capelli, di comprarmi dei vestiti da maschio e tirò fuori il nomignolo che mi aveva affibbiato da bambina: Gengis Kahn. D’ora in poi mi sarei chiamata così». Con quel nome altisonante, la giovane Maria, a dodici anni, divenne la numero due del ranking juniores di sollevamento pesi. «La mia specialità mi piaceva, ma cercavo qualcos’altro. Un giorno, durante le vacanze, con mio fratello provai lo squash, uno sport che dalle mie parti è solo per le élite. Ne rimasi folgorata. Andai da mio padre e dissi: è questo che voglio fare d’ora in poi. Lui non fece una piega e con lo stesso stratagemma del nome finto e dei vestiti maschili mi iscrisse all’accademia di squash della PAF, la Pakistan Air Force». Il trucco escogitato da Maria e da suo padre, resse per un po’, consentendo a Maria di imparare, allenarsi e di battere quasi tutti i maschi (veri) che gareggiavano con lei. Una routine che le piaceva e che non dava fastidio a nessuno. «I guai — racconta — sono cominciati quando il direttore della scuola volle iscrivermi ai campionati juniores over 16 e chiese a mio padre il mio certificato di nascita che, semplicemente, non esisteva. Fummo costretti a dire la verità». La reazione del direttore della scuola fu sorprendente: «Non si arrabbiò, anzi, mi regalò persino una racchetta da squash autografata da Jonathon Power, il campione canadese. Disse che mi avrebbe permesso di continuare a frequentare la palestra e che mi avrebbe iscritto comunque ai campionati». Ma non tutti la pensavano allo stesso modo: i suoi compagni di allenamento, i suoi avversari presero a isolarla, a vessarla in ogni modo a non voler più giocare contro di lei: «Erano spietati, soprattutto quelli che, in passato, avevo battuto». Una discriminazione continua che, per quanto dolorosa, non la ferma. Nel 2007, dopo essere diventata professionista, riceve un premio speciale dalle mani del presidente Musharraf. «Con tutte quelle vittorie avevo dato nell’occhio e attirato l’attenzione dei Taliban. Iniziarono le minacce, mi scrivevano che se avessi continuato a giocare contro i maschi e per di più senza velo e in calzoncini, le conseguenze per la mia famiglia sarebbero state terribili. Ero terrorizzata. Presi ad allenarmi in un capannone abbandonato, di notte, da sola. Mio padre mi portava in giro su una vecchia macchina a cui cambiava la targa ogni giorno ». Uno stillicidio che non poteva continuare, tanto che Maria prese a scrivere a tutte le scuole di squash del mondo. «Nessuno rispose per anni, fino a quando non arrivò la mail dell’accademia di Toronto, quella di Jonathon Power, lo stesso il cui nome era inciso sulla mia racchetta. Pensai che fosse un segno, non esitai e partii subito». Oggi Maria è la giocatrice numero uno del ranking pachistano e la numero 54 di quello mondiale. Ma è così giovane da avere ancora molti progetti per il futuro. «Il più importante di tutti, però, è di poter tornare in Pakistan e cambiare, in meglio, il mio Paese».
Francesca Caferri - " Arabic graffiti. L’altra metà del muro "
«Essere donna nel mondo arabo è una battaglia: ma proprio per questo siamo guerriere così forti». Tawakkol Karman pronunciò queste parole con il suo consueto sorriso allegro, poi si sistemò il velo e ci salutammo. A Sana’a, capitale dello Yemen, in quei giorni di qualche anno fa la Primavera era ancora lontana, così come nel resto del mondo arabo. Poi arrivò il profumo dei gelsomini tunisini, si sparse in tutta la regione e Sana’a, come Tunisi, come il Cairo, come Manama e poi Tripoli e Damasco tremò. Tawakkol Karman era lì, in prima linea, a guidare la rivolta. Qualche mese dopo, per questo, le assegnarono il premio Nobel per la Pace. Dal palco di Oslo lei lo dedicò «a tutte quelle donne che la storia e la durezza dei regimi sotto cui vivono hanno reso invisibili».
A quasi due anni da quel discorso la lotta per i diritti delle donne nel mondo arabo va avanti, in qualche caso più aspra di prima, e le loro urla hanno trovato una nuova forma espressiva: i graffiti. Nel 2011, quando la regione si svegliò dal torpore che l’aveva avvolta per decenni, il mondo reagì
stupito di fronte alla presenza di tante donne in prima fila. Dalle piazze dove protestavano, marciavano, gridavano, le arabe risposero con indignazione. «Di cosa vi stupite se lottiamo per i nostri diritti da più di cento anni?», mi urlò al telefono una furiosa Nawal al Saadawi, madrina del femminismo egiziano. Nawal aveva ragione: se in quei mesi lei e le altre erano in piazza era perché negli anni, a fatica, si erano conquistate diritto di parola, posizioni nella sfera politica, sociale e professionale. Nei mesi successivi donne come Karman e al Saadawi ci hanno dimostrato quanto il ruolo femminile fosse fondamentale in quelle società in mutamento. Quando il vento delle Primavere cambiò, scesero in piazza di nuovo. In Tunisia per fermare un progetto di Costituzione che voleva cancellare il concetto di uguaglianza fra i sessi. In Egitto per dire no alle violenze contro le donne e a un governo che aveva scippato i valori della rivoluzione. In Siria per rivendicare il significato di una rivoluzione civile prima che diventasse, come è oggi, una guerra. Inventarono nuove forme di protesta. Dal seno nudo della Femen tunisina Amina, alle ragazze vestite da sposa nel centro di Damasco. Fino, appunto, ai graffiti, una forma d’arte quasi sconosciuta nel mondo arabo prima del 2011, e che invece dopo le rivoluzioni è diventata
popolarissima, una sorta di diario quotidiano per raccontare al mondo quello che accade, di città in città. Sui muri del Cairo, di Tunisi, di Bengasi e persino di Damasco i graffiti sono diventati la voce della rivoluzione. Una voce libera come nessun’altra: come dicono gli artisti che li dipingono «è un modo per parlare alla gente direttamente, senza filtri».
Spesso, in questi mesi, gli autori dei graffiti hanno spaventato i governi. Sono stati arrestati, minacciati o, com’è accaduto in Siria, uccisi dai cecchini. Ma non si sono fermati, e hanno continuato a dipingere, uomini e donne insieme. Nell’ultimo anno le minacce ai diritti femminili sono diventate un tema centrale delle loro opere. In parte perché nella schiera dei graffitari arabi ci sono moltissime donne che hanno scelto di dipingere le storie loro e delle loro compagne di lotta: abusate, arrestate, violentate. Ma soprattutto perché la questione femminile è diventata un termometro fondamentale per giudicare lo stato di salute delle Primavere arabe: «Nessuna rivoluzione trionfa senza l’altra metà del cielo», mi ha detto qualche giorno fa lo street artist egiziano El Zeft prima di tornare a colorare con la sua Nefertiti in maschera antigas i muri del Cairo.
Anais Ginori - " Sono le ragazze le più coraggiose "
Tahar Ben Jelloun
Condividiamo in pieno l'ultima dichiarazione di Tahar Ben Jelloun : " Io sono convinto che non c'è democrazia se la religione è dentro allo Stato. Ora questa visione del mondo che umilia e sottomette la donna potrebbe diventare finalmente minoritaria. Io me lo auguro". Non sappiamo se, per quanto riguarda l'Egitto, sia lecito tutto l'ottimismo di Tahar Ben Jelloun, speriamo.
PARIGI -
«La voce delle donne è sempre stata forte in Egitto, pensiamo all’importanza di un’intellettuale femminista come Nawal al Saadawi. Adesso, però, sta accadendo qualcosa di nuovo». Non è sorpreso lo scrittore Tahar Ben Jelloun nel vedere i graffiti delle ragazze che accompagnano le rivoluzioni arabe. «Sia in Egitto che in Tunisia, i movimenti di contestazione contro gli integralisti al potere sono stati avviati proprio dalle donne. Sono loro, infatti, a essere minacciate. Le donne sono un’ossessione per gli integralisti islamici: vengono nascoste, lapidate, segregate. Sono le vittime predestinate. E dunque è normale che insorgano contro questo pericolo».
La street art è una nuova tappa di questa insurrezione?
«Le donne che manifestano in piazza Tahrir non esprimono solo rabbia o frustrazione: lottano per la loro sopravvivenza. In questo momento la scelta è tra due visioni del mondo: quella moderna e laica che include nella società anche le donne e quella arretrata, integralista, centrata solo sugli uomini. I graffiti sono un’altra arma pacifica per combattere questa regressione sociale. In passato, c'è stata una generazione femminista che, attraverso battaglie civili e politiche, ha portato a grandi vittorie in Egitto e in Tunisia. I movimenti di liberazione femminili sono arrivati qui già negli anni Cinquanta. Ora che quelle storiche conquiste vengono minacciate dagli integralisti, c'è un cambio generazionale. Le ragazze egiziane scoprono che è possibile tornare indietro rispetto a quanto avevano ottenuto le loro madri».
Ragazze che usano strumenti e linguaggi diversi?
«La loro è una forma di protesta dentro alla modernità, al passo con i tempi: urbana e tecnologica. Le ragazze organizzano performance sui social network, e disegnano graffiti sui muri. Lo fanno con molto coraggio. La giovane egiziana Alia che aveva sfidato gli integralisti posando a seno nudo su Facebook è dovuta fuggire dal suo paese. Anche la tunisina Amina, attivista del gruppo Femen, ha subito un processo».
In piazza Tahrir ci sono stati molti casi di stupro.
«In Egitto c'è un'immensa frustrazione sessuale che alimenta una promiscuità pericolosa. Con l'avvento al potere dei Fratelli musulmani questo disagio è andato aumentando. Io sono convinto che non c'è democrazia se la religione è dentro allo Stato. Ora questa visione del mondo che umilia e sottomette la donna potrebbe diventare finalmente minoritaria. Io me lo auguro».
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