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La Repubblica Rassegna Stampa
13.07.2013 Breve storia del giallo nella letteratura israeliana
commento di Susanna Nirenstein

Testata: La Repubblica
Data: 13 luglio 2013
Pagina: 42
Autore: Susanna Nirenstein
Titolo: «Giallo Israele»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 13/07/2013, a pag. 42, l'articolo di Susanna Nirenstein dal titolo "Giallo Israele".


Susanna Nirenstein           Dror Mishani, Un caso di scomparsa (ed. Guanda)

Fin dalla seconda pagina dell’ottima detective novel di sapore simenoniano, Un caso di scomparsa, dell’israeliano Dror Mishani, appena arrivata in libreria (traduzione di Elena Loewenthal), l’ispettore Avraham Avraham, un poliziotto di origini marocchine un po’ depresso e solitario, sempre insoddisfatto dalle risposte troppo semplici sul caso che indaga e sulla vita, chiede al suo interlocutore, «Lo sa perché non ci sono romanzi polizieschi in ebraico?», una questione che porrà più volte lungo la trama. Già perché? Poi torneremo al giallo di Mishani, ma il fenomeno da lui indicato (su cui del resto ha aperto un interessante blog) è davvero curioso in una letteratura tanto fiorente e ricca di best seller, e ha dei motivi profondamente specifici. Certo l’ebraismo non evita di parlare di omicidio: se si pensa a Caino e Abele, e a come il colpevole neghi all’inizio ogni colpa, ci si toglie ogni dubbio. Ed è solo il primo dei casi. Ma ricordiamoci che la creazione letteraria in ebraico resta ferma per secoli. E quando, nel secondo Ottocento e nel primo Novecento, in Germania, Polonia, Ucraina e Russia, c’è chi sceglie di tornare alla lingua sacra per usarla nella comunicazione quotidiana e nella narrativa, lo fa con un forte e arduo progetto nazionale in testa, il sionismo. Non è facile per loro riplasmare l’ebraico della Torah, dei Midrash, delle preghiere: l’intenzione è a suo modo sacra anch’essa, tornare alla terra storica degli ebrei e rinascere come nazione, ed è nelle mani di una élite straordinaria, motivata, colma di ideali e di impegno sociale, che comunque si considera un’avanguardia, lontana da ogni consumismo. Sono i momenti della prosa alta di Bialik, Brenner, Agnon (ma anche di tanti altri, tutti ispirazione sionista, sociale, mistica, amanti della grande letteratura europea, ma non della prosa da intrattenimento). Edgar Allan Poe viene tradotto solo in yiddish, l’idioma del passato e della diaspora. Qualche tentazione arriva negli anni ‘20 e ‘30 con Sherlock Holmes. Ma anche qui si sviluppa uno strano atteggiamento: il detective di Conan Doyle viene sì messo in ebraico, ma destinato ai bambini; scatena persino qualche opposizione: dai più ideologici quei libri vengono considerati addirittura pericolosi, cattivi, velenosi, corruttivi dell’anima del “nuovo ebreo” e i loro editori degli schiavi della sirena del commercio, categoria vituperata dai sostenitori della purezza del sionismo. Comunque anche chi plaude all’operazione lo fa ricorrendo ai sentimenti nazionali: sostengono che tradurre la detective fiction può contribuire alla rinascita della lingua ebraica mo- derna, può diffonderla tra i ragazzi al posto dell’yiddish così duro a scomparire. Una tendenza dall’onda lunga: quando Mishani ha 12/13 anni, ovvero nel 1987/88, una volta divorata ogni indagine di Sherlock Holmes disponibile, sugli scaffali della biblioteca comunale di giallo trova solo Agatha Christie. Poi, il vuoto. Eppure, l’ideologia era diventata meno pervasiva da tempo, Chandler e Simenon erano entrati nelle case di tutti: ma allora perché gli israeliani non avevano cominciato a scrivere thriller? Ma perché la letteratura israeliana è rimasta legata al progetto nazionale e identitario, si risponde, e perché anche noi, i lettori stranieri, cerchiamo nella sua narrativa qualcosa che risponda all’interrogativo perpetuo, ovvero chi sono gli ebrei, qual è l’anima d’Israele? E poi c’è un altra questione. Quella del protagonista, dell’eroe, una figura che schematicamente (molto schematicamente) nella letteratura israeliana è un uomo di origine europea, sopravvissuto (lui o i suoi) alla Shoah, cresciuto magari in un kibbutz, soldato in un’unità scelta dell’esercito durante le guerre del ‘67 e del ‘73, forse con qualche contatto nei Servizi: Mishani sostiene che un ispettore non può essere niente di tutto questo, perché i poliziotti in Israele sono tutti mizrahi (ebrei provenienti dai paesi arabi) fuori da ogni élite, tradizionalmente goffi e marginali. Ha ragione Mishani, telavivino, editor e professore di letteratura? Probabilmente sì, anche se lui di Avraham Avraham, detto Avi, alle prese con la scomparsa di un ragazzino mizrahi come lui, in un quartiere mizrahi, Holon — lo stesso in cui vive il nostro autore — , ha fatto un ottimo protagonista in un ottimo e imprevedibile plot (forse un po’ lento all’inizio, ma poi coinvolgentissimo) a cui promette di far seguire una serie degna del suo amato Sherlock: A. B. Yehoshua, che rivendica sempre per Israele la possibilità di essere un paese “normale”, dovrebbe essere contento. Anche prima però ci sono stati (e ci sono) dei coraggiosi deviazionisti dalla cappa antithriller della Terra Santa. Innanzitutto Batya Gur, un’autrice che, dagli anni ‘80 fino al 2005, quando è scomparsa a 57 anni, ha scritto una fortunata serie di raffinati noir di cui almeno due tradotti in italiano, raffinati perché i casi che l’ispettore capo Michael Ohayon affrontava (anche lui marocchino, pensoso, colto, cerebrale) si svolgevano in una serie di ambienti chiave israeliani, descritti, analizzati sia psicologicamente che socialmente, con humor, che si trattasse di un assassinio nelle stanze della Società Psicoanalitica di Gerusalemme (il più famoso, Delitto in una mattina di sabato, Rizzoli), o in un kibbutz, o ancora tra musicisti o tra poeti. Erano bei romanzi. E lei una gran donna. Sempre in quegli anni e per quella generazione ci furono i thriller di Shulamit Lapid: al centro, Fanya, una giornalista intraprendente di Beersheva, single, non attraente ma simpatica, una specie di protofemminista che decideva sempre di trovare da sola il colpevole dei crimini in cui si imbatteva. In italiano fu tradotto Professione giornalista (Tartaruga), titolo molto adatto a Shulamit, visto che era moglie del noto reporter e commentatore Tommy Lapid — l’ultralaico che negli ultimi anni era entrato in politica e alla Knesset fino al 2005 con il partito Shinui per poi morire nel 2008 — ed è madre di Yair, a sua volta non solo giornalista a 360 gradi, famoso e brillante anchor man televisivo, persino attore del cinema ed oggi ministro delle Finanze (col partito “antireligioso” Yesh Atid che ha fondato), ma anche lui scrittore di gialli, non tradotti però, almeno in Italia, a quel che si dice degli action story, col detective Yosh Shirman e varie biondone. Non li abbiamo letti. Abbiamo visto invece tante spy story, come Il poeta di Gaza di Yishai Sarid ( e/o) pochi anni fa, o come Line up di Liad Shoham che uscirà a settembre per Giano (e si parla anche di Mishka Ben David, un ex uomo del Mossad che si è dato al poliziesco: chi lo tradurrà?), o i tanti romanzi intimi con al centro degli agenti segreti, — anche i bellissimi Il minotauro di Benjamin Tammuz (ambedue e/o) piuttosto che Conoscere una donna di Amos Oz (Feltrinelli). Ma questa è davvero un’altra storia.

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