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Il Foglio Rassegna Stampa
13.07.2013 La lista di Varian Fry
ebrei, dissidenti, artisti come Ernst e Chagall in fuga dai nazisti. Il grande esodo da Marsiglia

Testata: Il Foglio
Data: 13 luglio 2013
Pagina: 14
Autore: Giuseppe Marcenaro
Titolo: «L'altro Schindler»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 13/07/2013, a pag. X, l'articolo di Giuseppe Marcenaro dal titolo "L'altro Schindler".


Giuseppe Marcenaro      Varian Fry

Quando ci ripenso, quando penso a tutto quel periodo – scriveva Varian Fry in “Consegna su richiesta: artisti, dissidenti ed ebrei in fuga dai nazisti” – ciò che emerge dal confuso miscuglio di immagini che mi affollano la mente è l’espressione del viso di Helen quando sono partito dalla Francia per l’ultima volta, abbandonando così tanti rifugiati che vedevano in me la loro unica speranza di salvarsi dall’inferno in cui Hitler aveva trasformato l’Europa. Helen, in piedi sulla banchina della stazione di Cerbère, che sventolava il fazzoletto mentre il mio treno si allontanava, mostrava in volto la tristezza di tutti i rifugiati che mi lasciavo alle spalle. Vorrei poter dimenticare quello sguardo… L’ho lasciata sapendo che per lei non c’era speranza”. Helen era Helen Hessel, giornalista e traduttrice, la Kathe del romanzo di Henri- Pierre Roché “Jules et Jim”, uno dei più celebrati ménage à trois della letteratura del Novecento. Helen, nella realtà, una delle tante vite in fuga, abbandonate all’incerto destino nel sud della Francia tra il 1940 e il 1941. Vite provenienti da tutta Europa. Scappavano verso uno sconosciuto altrove. Fuggivano dall’orrore, inseguiti dalle polizie segrete e dagli agenti della Gestapo. Erano vite fatte di memoria, approdate a Marsiglia, assiepatesi davanti al mare, possibile via di fuga e barriera invalicabile.


Varian Fry, Consegna su richiesta, ed. Sellerio

 D’ognuna di queste vite in fuga si dovrebbero evocare antefatti ingombri di terrore. Vite costrette a lasciare le loro case. A far di furia le valigie con dentro tracce illusoriamente inalienabili delle loro esistenze: tre fotografie, un pacchetto di lettere, il manoscritto inedito dell’ultimo romanzo. Ricordi alla rinfusa. E la biancheria per un giorno. Come se la fuga avesse dovuto coincidere con un giro d’orologio. Dall’alba al tramonto. Anche se sarebbe stata per sempre. In un altro continente, i fortunati. Altri, dalla sorte nera, in una spoglia tomba nel cimitero di qualche villaggio del Midi francese. Varian Fry con il suo “Consegna su richiesta” (edizioni Sellerio) raccontò nel 1947 il groviglio delle disperazioni agglutinatesi a Marsiglia. Fry era partito nel 1940 da New York per approdare in Francia. Arrivò per conto della Emergency Rescue Committee, una organizzazione umanitaria, con il compito di “sfilare” il maggior numero di rifugiati politici e intellettuali prima che la Gestapo, l’Ovra e la Seguridad li prendesse. La cultura europea, con il più improprio degli esodi, s’era data un obbligato appuntamento sulle banchine del porto di Marsiglia. Con una formidabile rete clandestina improvvisata sul momento Fry riuscì a far fuggire oltre 1.500 persone, uomini dell’arte, della scienza e della cultura. Comuni cittadini in pericolo. Scrittori come Franz Werfel, pittori come Marc Chagall e Max Ernst, scultori come Jacques Lipchitz. Fry organizzò “filiere di passaporti falsi”. La sua stanza mutata in ufficio all’Hôtel Splendide era il luogo della speranza, dove approdavano centinaia di vite in fuga. Dalle otto del mattino fino a mezzanotte. Poi usciva, per una passeggiata, alla fioca luce dei lampioni che avrebbe anche potuto non esservi. Quando Fry era arrivato a Marsiglia aveva le tasche gonfie con le liste di personaggi da far fuggire. Scoprì con sgomento che alcuni avevano già scelto per il loro exit una strada ben più “sicura e spiccia”. Lo scrittore cecoslovacco Ernst Weiss si era avvelenato nella sua stanza a Parigi il giorno in cui i tedeschi erano entrati in città. Irmgard Keun, l’autrice del libro “La ragazza di seta artificiale”, un grande successo durante la Repubblica di Weimar, si era suicidata quando i nazisti avevano occupato la capitale francese. Poi, fortunatamente si apprese che era rimasta nascosta, protetta dalla falsa notizia della sua morte.
Il commediografo tedesco Walter Hasenclever si era ucciso con un’overdose di Veronal nel campo di internamento e deportazione di Les Milles, non lontano da Marsiglia. Il critico d’arte Carl Einstein si era impiccato alla frontiera spagnola quando aveva capito di non poterla oltrepassare. Il corpo dell’ex deputato del Partito comunista Willi Münzenberg era stato trovato appeso a un albero nei pressi di Grenoble. A uno a uno Fry cancellava i nomi dalla sua lista. Quello che era accaduto ad altri nessuno lo sapeva. Si chiedeva quanti ancora ne avesse dovuti cancellare. Intanto andava a cercarli a Marsiglia. Per le strade, negli alberghi. Scoprì che alcuni rifugiati erano già riusciti a lasciare la Francia. Moltissimi erano ancora bloccati. Con l’aiuto di “affidavit” americani e di un bel po’ di passaporti cecoslovacchi procurati clandestinamente, ne fece partire un buon numero. Facendoli transitare verso la Spagna. Presero così il largo l’umorista ceco Hans Natonek, la giornalista austriaca Hertha Pauli, il professor E. J. Gumbel, un rifugiato tedesco borsista all’Università di Lione, il romanziere e poeta tedesco Leonard Frank, un giovane economista tedesco, Heinrich Ehrmann, il dirigente sindacale e direttore del Berlin Vorwärts Friedrich Stampfer, il fisico e premio Nobel cecoslovacco Otto Meyerhof, lo scrittore tedesco Alfred Polgar e il biografo di Hitler Konrad Heiden: aveva scritto su Adolf Hitler e sulle origini del Partito nazista cose che il Führer non aveva né avrebbe mai dimenticato. Dei tanti in fuga quello più in pericolo era proprio Heiden. Espatriato, era stato internato in un campo francese all’inizio della guerra. Poco prima che la Francia fosse occupata il campo era stato evacuato, gli internati avviati verso il sud della Francia. Partirono a piedi, scortati, ma quando gli aeroplani tedeschi apparvero sopra le loro teste e iniziarono a mitragliare scapparono tutti, le guardie per prime. Heiden riuscì a raggiungere Montauban e da lì arrivò a Marsiglia dove ottenne dal consolato un visto americano e un “affidavit in lieu of passport” con il proprio nome. Voleva usare l’“affidavit” per andare a Lisbona. Non gli sarebbe stato possibile attraversare la Spagna con il suo nome su un documento. Ebbe da Fry un passaporto cecoslovacco, intestato a David Silbermann.
Raggiunta Lisbona riprese la propria identità. Sommerso dall’impresa Varian Fry si trovò fidati collaboratori. Comprimari di un originale cartellone. Intanto una segretaria. Lena Fishman. Come i suoi antenati polacchi era vivacissima. Sapeva stenografare senza problemi in inglese, francese e tedesco. Parlava e scriveva anche in russo, polacco e spagnolo. Calmava gli spaventati: “Il ne faut pas exagérer”. Ripeteva “Je n’ai jamais couché avec”, quando non conosceva qualcuno. Stupendi collaboratori di Fry i falsari. Un certo Reiner vendeva di tutto. Ordini di smobilitazione, carte d’identità francesi, passaporti e visti d’uscita falsi. A volontà. Li dava a caro prezzo. Gratis alle signore di suo gusto. Poi arrivò un tal Drach: “Ammiro il lavoro che state facendo, vorrei aiutarvi. Sono un vecchio criminale”. Si procurava passaporti danesi e olandesi. Li lucrava presso un generale del Deuxième Bureau che aveva raccontato ai suoi superiori d’averli smarriti durante la ritirata. Drach di passaporti ne aveva una valigia piena: nuovi, usati, trattati da sembrare vecchi. Le tasche piene di timbri. In mezz’ora riusciva a mutare i connotati di un passaporto facendolo sembrare come emesso a Parigi, all’Aia o a Copenaghen, prima della guerra. Con la galassia di documenti falsi in giro per Marsiglia e le identità modificate, inventate, trasformate, nessuno sapeva più chi era. Fry, con l’arte della falsificazione, aveva inventato una nuova umanità. E poi c’era il problema del trasferimento dei denari nei luoghi dove i fuggitivi, in un modo o nell’altro, sarebbero approdati. Ciascuno si affidava a possibili quanto probabili onestà. Una lotteria dominata dalla sorte: fortunati o clamorosamente fregati. E anche qui Fry pescò l’uomo giusto. Decorosamente disonesto. Era Dimitru, eccessivamente cosmopolita. Diceva d’essere nato in Russia. A Parigi, prima dell’occupazione, vantava d’aver fatto parte di circoli esclusivissimi. Amava il denaro e lo spendeva in donne e alcol. “Alto un metro e mezzo. Quando dava la mano sembrava di stringere un guanto vuoto. Poteva far apparire e sparire un sorriso come un interruttore elettrico”. Prendeva il cinquanta per cento sulla commissione, però il denaro a lui affidato arrivava regolarmente ai suoi agenti di New York. Tra i tanti con l’animo in tumulto per evadere da quell’impossibile universo concentrazionario v’erano alcuni profughi che campavano d’ineffabile attendismo. Fry li trovò ai tavolini di un caffè, tranquilli, come se la generale angoscia in cui erano calati non li riguardasse.
Avvicinò Rudolf Breitscheid e Rudolf Hilferding, eminenti uomini politici della ex Repubblica di Weimar. Incuranti della loro sorte. Tutta Marsiglia sapeva che ogni giorno sedevano allo stesso caffè, su boulevard d’Athènes. Stavano assieme a Giuseppe Modigliani, uno dei responsabili del Partito socialista italiano, da tempo esule in Francia. Prima di rientrare negli Stati Uniti, ancora a quel tavolino di caffè, un’isola silente in mezzo a un oceano in tempesta, Fry rivide Breitscheid e Hilferding un’ultima volta. Poco prima che la polizia francese li arrestasse e li consegnasse alla Gestapo. Furono avviati a un campo di concentramento, dove morirono. Modigliani avrebbe lasciato la Francia legalmente. “Supponga – aveva detto a Fry – che io venga arrestato nell’atto di fuggire con un passaporto falso. Sarebbe il disonore per il movimento operaio”. Franz Werfel e la moglie Alma, Fry li scovò all’Hôtel du Louvre et de la Paix sulla Canebière. Uno di quegli alberghi dove aleggiava aria di mistero. Tutti erano guardinghi, spiandosi l’un l’altro. I Werfel avevano preso una stanza a nome dell’ex marito di madame Alma, il defunto compositore Gustav Mahler. E non facevano un passo senza un taxi. Dovendo camminare a piedi, sceglievano il piano. Mai una salita. Impossibile per loro passare i Pirenei. C’erano buone possibilità con il treno. Transitare da Cerbère senza visto d’uscita. E si decise. Fry accompagnò in Spagna un gruppo di cui facevano parte appunto i Werfel, Heinrich Mann e il nipote Golo, figlio di Thomas Mann. I Werferl avevano dodici valigie. In una, tra lingeries di seta, stavano il manoscritto del “Canto di Bernadette” di Werfel, la partitura della Nona sinfonia di Mahler e la partitura originale della Terza sinfonia di Anton Bruckner.
Poi c’erano i “cani sciolti”. Tra questi Walter Benjamin, un uomo fatto di memoria, remissivo, dal tratto gentile. Pieno di paure. Aveva abbandonato Parigi in ritardo. Fino all’ultimo si era illuso che uno come lui, confuso nelle carte, potesse passare inosservato ed essere dimenticato in qualche sala della Bibliothèque Nationale dove abbandonava se stesso nei grovigli della capitale del XIX secolo tra mantrugiatori e spigolatori di rarità, dagherrotipi, androidi, “angeli nuovi”, passages e bindel. La storia però aveva avuto una imprevedibile accelerata, e anche Benjamin era stato costretto a mettere avanti l’orologio. Da tempo era fuori tempo. Arrivato a Marsiglia tra il 9 e il 22 agosto vi incontrò diversi altri immigrati in fuga, tra cui Siegfried Kracauer e Arthur Koestler che, con il nome di legionario Dubert, girovagava da tre mesi fra varie caserme nella Francia occupata dai tedeschi e nella Francia di Vichy. Nell’agosto del 1940 aveva raggiunto anch’egli Marsiglia: “Con i baffi e la divisa dovetti apparire abbastanza convincente, perché venni impiegato come messaggero di reggimento fra il quartier generale della Legione del Fort Saint-Jean e la commissione tecnica di sorveglianza del Porto nel Fort Saint-Nicolas. I messaggi riguardavano solo l’ordine della parata quotidiana e non contenevano segreti militari, ma quell’incarico mi diede una certa libertà d’azione per crearmi dei contatti in città. Alla fine del mese mi unii a tre ufficiali britannici e un sergente di stato maggiore che erano sfuggiti alla prigionia tedesca ed erano stati internati dai francesi.
Con svariati mezzi ottenemmo dei documenti falsi, che ci destinavano a Casablanca, il porto marocchino non ancora sotto la sorveglianza tedesca. Poco prima di partire, incontrai un vecchio amico, lo scrittore tedesco Walter Benjamin. Stava facendo i preparativi per la propria fuga in Inghilterra, per una strada diversa; non essendo riuscito a ottenere un permesso d’uscita francese, intendeva andare a piedi fino in Spagna attraversando i Pirenei, come facevano centinaia di altri rifugiati. Aveva trenta compresse di un composto alla morfina, che intendeva ingoiare se fosse stato catturato; disse che erano tante da ammazzare un cavallo, e me ne diede la metà, non si sa mai”. Il “disadattato” Benjamin si trovò nel mezzo di un’atmosfera apocalittica, propria della fine di un mondo. Non tutti avevano un “santo” tipo Fry. A Marsiglia, oltre la quale era impossibile andare. si intrecciavano le storie più insensate. Tipi originali progettavano sconsiderati sistemi di fuga. Tutti avevano da chiedere e da offrire qualcosa. Parlavano di navi che l’indomani avrebbero attraccato al porto e sarebbero salpate cariche della moltitudine dei profughi che assiepavano la città. I comandanti di quelle navi, autentici eroi dell’esodo, si assicurava, sarebbero salpati portando in salvo l’isteria collettiva a trovar pace in paesi misteriosi i cui nomi erano sconosciuti ai più e inutilmente venivano cercati con affanno sugli atlanti.
Ogni alba si nutriva di esaltate speranze. Nel pomeriggio le prospettive sulle quali alcuni erano stati pronti a scommettere la vita, si scioglievano tra deluse prostrazioni. Benjamin vagava tra una notizia e l’altra. Viveva di voci e soprassalti. Con la sua faccia da intellettuale assorto, gli occhiali con lenti spesse come fondi di bottiglia che gli facevano due pupille a spillo, assieme a Fritz Fränkel, un tipo esile con una capigliatura sventagliata da folle, grigia, progettava di imbarcarsi clandestinamente su un cargo, dopo un’opportuna mancia a qualcuno. Si sarebbero travestiti da marinaio. Visti, li avrebbero scambiati per due figuranti di un carnevale fuori stagione. Anni prima, nel 1927, proprio a Marsiglia, Benjamin aveva fatto l’esperienza dell’hascish. E adesso era come se l’antica imbambolante avventura nell’altrove gli si ripercuotesse dentro. Spirando come alito di morte. In mezzo al generale caos da imminente naufragio, con la mente piena di ben altri ingombri, Benjamin, riuscì a svignarsela da Marsiglia il 20 agosto, dopo essere riuscito a ottenere un passaporto dall’American Foreign Service e il visto di transito dal consolato spagnolo. I documenti gli assicuravano, almeno sulla carta, di poter entrare in Spagna e da lì passare in Portogallo per un agognato imbarco. “Non senza amarezza io mi piego alla infausta costellazione che sembra sovrastarci”. Partì con destino il confine dei Pirenei.
Dopo averne percorso a piedi un impervio cammino, con l’aiuto di Lisa e Hans Fittko, suoi vecchi amici che erano riusciti a far passare clandestinamente la frontiera a centinaia di esuli, arrivò a Portbou. Il dramma si doveva ancora compiere e prese corpo quando, illuso d’avercela fatta, Benjamin si presentò all’ufficio della dogana di Portbou. Mostrò il passaporto numero 224 rilasciato dall’American Foreing Service di Marsiglia. Capì subito che qualcosa non andava. Il giorno dopo sarebbe stato riportato indietro, al confine con la Francia. Non poteva essere accolto. Per un tedesco come lui, esiliato in Francia dal 1933, privato della nazionalità nel 1939, essere respinto dalla Spagna significava la deportazione e il campo di sterminio. Il sole stava tramontando sul 25 settembre 1940. Benjamin trovò una camera, la numero 4, all’Hôtel Fonda de Francia, un alberghetto “con acqua corrente”, al 5 dell’avenida General Mola. Fu una notte lunga. Brevissima. Il destino si compì con trenta compresse di morfina.

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