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Il Foglio Rassegna Stampa
13.07.2013 Censura perbenista e islamicamente corretta in Occidente
commento di Giulio Meotti

Testata: Il Foglio
Data: 13 luglio 2013
Pagina: 8
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «Le nuove streghe»

Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 13/07/2013, a pag. IV, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo "Le nuove streghe".


Nick Hornby           Joyce Carol Oates

"Fanculo i senzatetto!”, sbotta la protagonista di un romanzo di Nick Hornby. Sufficiente a scatenare polemiche contro lo scrittore carino per antonomasia. Alla celebre signora della letteratura americana, Joyce Carol Oates, autrice di culto, voce fra le più significative della narrativa statunitense, abituata alle adulazioni del grande pubblico, è bastata l’allusione all’islam, senza neppure nominarlo, per incassare le peggiori accuse di razzismo. Commentando i casi di stupri al Cairo, la Oates ha scritto su Twitter: “Dove l’abuso sessuale e lo stupro è epidemico – Egitto – viene naturale domandarsi: qual è la religione dominante?”. E ancora: “Com’è possibile che la ‘cultura dello stupro’ non abbia legami con la ‘cultura religiosa’? La religione non ha effetto alcuno sul comportamento? Possibile?”. Bigotta. Razzista. Islamofoba. Ritiratele la laurea honoris causa. Banditela dall’olimpo dei libri. “Don’t miss @JoyceCarolOates coming out publicly as a serious bigot”, ha scritto da Harvard Umair Haque, mentre Prachi Gupta da Salon l’ha chiamata “islamofoba”. James Taranto del Wall Street Journal si è invece schierato a sua, parziale, difesa: “Per la sinistra politicamente corretta, difendere i musulmani dall’insulto è una priorità maggiore di proteggere le donne dalla violenza sessuale”. Joyce Carol Oates è l’ultima scrittrice vittima di quella “paranoia razziale” di cui parla un recente libro di John L. Jackson. Come quando Molly Jong-Fast, la cui madre Erica ha fatto della letteratura scandalosa un mestiere, lamentò che il politicamente corretto è un “nuovo maccartismo” e che l’establishment letterario richiede, per prenderti sul serio, argomenti come “i bambini che muoiono di fame in Africa”.

Alcuni mesi fa al centro della censura antirazzista c’è finita perfino la povera Pippi Calzelunghe, protagonista del libro della svedese Astrid Lindgren sulle cui gesta sono cresciuti milioni di bambini occidentali. Il ministro tedesco della Famiglia, delle donne e dei giovani, Kristina Schröder, ha attaccato la storia di Pippi Calzelunghe in quanto “libro razzista”, perché il padre di Pippi viene definito “Negerkönig” (“re dei negri”). Schröder ha proposto di trasformare “il re dei negri” in “il re dei Mari del sud”. Con il suo consueto sarcasmo, Henryk Broder ha scritto che se il ministro riuscirà a riscrivere Pippi Calzelunghe sarà solo una questione di tempo finché sarà la volta di altri classici e “L’idiota” di Dostoevskij si reincarnerà in “La idiota”, in omaggio all’uguaglianza di genere. Poi è toccato alla “Piccola strega”, la storia di Otfried Preussler e uno dei libri per l’infanzia più amato in Germania. La casa editrice Thienemann ha appena pubblicato una versione buonista senza le parole “negretto” e “negro”. “Chiunque creda che l’arte debba essere cambiata per non contraddire la morale prevalente – ha scritto Jacques Schuster sulla Welt – deve essere stato felice quando nel 2001 i talebani hanno distrutto i Buddha di Bamiyan”. Stessa sorte per “Il mangiasogni” di Michael Ende, l’autore della “Storia infinita”, da poco rivisto laddove appariva la parola “negro”. Interventi letterari simili da parte della nuova censura hanno già colpito “Charlie e la fabbrica di cioccolato”, il classico di Roald Dahl di cui è stata modificata l’accezione per i pigmei che Willy Wonka riporta dall’Africa. Per non dimenticare “Huckleberry Finn” di Mark Twain, in cui la parola “nigger” è stata sostituita da “slave”, schiavo, e anche il termine “injun”, indiano, è stato rimosso. Un ripulisti perbenista. Non importa che Twain fosse stato un feroce critico del razzismo, il suo capolavoro resta al quinto posto nella lista dei libri più banditi negli Usa stilata dalla American Library Association. Di recente anche il drammaturgo elisabettiano Christopher Marlowe è stato censurato a Londra. “Tamerlano il Grande” è uno dei successi della stagione teatrale londinese, ma il testo della tragedia sul conquistatore è stato riadattato dal regista, David Farr, che ha lavorato di cesello per rendere l’opera più politically correct. Nello spettacolo al teatro Barbican di Londra il sanguinario protagonista glissa sui riferimenti più offensivi al Profeta – particolarmente su uno in cui Maometto era descritto come “non degno di essere venerato” – e la distruzione del Corano diventava semplicemente quella di “un ammasso di libri”. Di recente era successo allo storico ed economista Niall Ferguson, uno degli accademici più in vista del mondo anglosassone, accusato di “razzismo” sulle colonne della London Review of Books per il suo libro, “Civilization”, in cui tesse gli elogi della civiltà occidentale: “Voglio dire, sono sicuro che gli Apache e i Navajo fossero culture ammirevoli. Ma nell’assenza di letteratura, non sappiamo chi effettivamente fossero perché non ci sono testimonianze scritte. Ma sappiamo che ammazzavano moltissimi bisonti. Fossimo rimasti ancorati al loro sistema, non credo oggi avremmo niente di lontanamente simile alla civilizzazione del Nordamerica”.


Saul Bellow

 Anche Saul Bellow venne esecrato come “paria razzista” quando in un’intervista sparò a zero sul declino delle università americane che avevano cancellato dalla lista degli autori studiabili tutti gli scrittori maschi, bianchi, europei e morti. “Chi è il Tolstoj degli zulù? Chi è il Marcel Proust della Papuasia?”, chiese Bellow. E subito diventò il bersaglio per tutte le minoranze in cerca di riscatto letterario. Gli accademici svedesi che gli avevano dato il Nobel nel 1976 ebbero un sussulto, perché ormai da tempo andavano a scovare gli incoronabili alle estreme periferie dell’impero. Di colleghi disposti a prendere le sue difese ne trovò pochissimi: su quasi tutti aveva trovato da ridire, con l’eccezione di Philip Roth. Dopo la scomparsa di Bellow nel 2005, Richard Stern, amico di lunga data del premio Nobel e suo collega alla University of Chicago, suggerì al sindaco democratico Richard Daley di dedicargli una strada. Le associazioni dei diritti civili si schierarono contro, perché Bellow aveva dato prova di “razzismo”. Per l’editore Julliard, in Francia, è uscito un duro attacco anche al “razzista Georges Simenon” a firma di Pierre Assouline. Nessun risparmio di improperi antirazzisti neppure per J. R. R. Tolkien, che avrà pure tenuto testa al Terzo Reich coi suoi libri allegorici, ma che rischia di affondare sotto le grinfie del politicamente corretto. Perché i volti deformi dei suoi personaggi sarebbero in realtà “una sentina del pregiudizio razziale”. Almeno così ha scritto il Guardian, bibbia liberal inglese. In un ormai celebre saggio scritto nel 1988, intitolato “Minority and Women Law Professors: A Comparison of Teaching Styles”, la futura first lady Michelle Obama accusava di razzismo persino Scott Turow, il re del legal thriller, a suo dire colpevole di perpetuare “l’immagine dell’uomo bianco dominatore, vecchio, che trae piacere a umiliare”. Anche il darling dei libertari, Martin Amis, è membro onorario del club dei razzisti. Perché nel 2002 accusò i militanti islamici di “insicurezza maschile”. Nel 2007 Amis finì di nuovo al centro di una guerriglia ideologica, quando il marxista iconoclasta Terry Eagleton lo accusò di essere un “razzista, ubriacone e oltraggiatore di donne, gay e liberal”. Nel suo saggio per il quinto anniversario dell’11 settembre, dal titolo “The Age of Horrorism”, Amis spiegava che l’islam moderato “supino” ha perso la guerra interna all’islam. “La comunità musulmana dovrà soffrire finché non rimetterà ordine nella sua casa. Quale sofferenza? Il divieto per i suoi membri di viaggiare, la deportazione, la perquisizione di persone con fattezze mediorientali o pachistane... Discriminazione finché tutta la comunità non comincerà a soffrire e deciderà di essere severa con i suoi figli”. Il Guardian, che ha ospitato il pamphlet di Amis, avrebbe titolato: “Vergogna su di noi”. Nel 2002 fu imbastito un processo contro Michel Houellebecq, razzista per antonomasia, perché nel suo romanzo bestseller “Plateforme”, ma anche in interviste a magazine francesi, lo scrittore non risparmia nulla all’islam. Houellebecq nuova strega, per frasi come questa: “L’islam aveva spezzato la mia vita e sentivo che l’islam era sicuramente qualcosa che potevo odiare”. A favore dello scrittore intervenne però il grande antropologo Claude Lévi- Strauss, solitamente appartato: “Quello che pensavo dell’islam – disse al Nouvel Observateur – l’ho detto in ‘Tristi Tropici’. Non era molto lontano da ciò per cui fanno oggi un processo a Houellebecq”.


V. S. Naipaul


Stessa sorte, con un processo sui giornali di mezzo mondo, per V. S. Naipaul, premio Nobel per la Letteratura. Il Sunday Times lo ha attaccato sotto il titolo: “Il razzista VS”. Naipaul viene addirittura paragonato a Oswald Mosley, il fondatore del Partito fascista britannico. Derek Walcott, altro poeta laureato dell’area caraibica, in una poesia lo chiama “Mr Nightfall” (signor Crepuscolo) e lo considera “alla stregua di un razzista”, per alcune affermazioni poco felici sui neri. “La guerra religiosa è alla base dell’islam”, aveva detto Naipaul dopo l’attentato alle Twin Towers. “Quella è gente che non legge molto, è contro la civiltà. Vogliono portare ovunque il silenzio del deserto. In Afghanistan hanno distrutto i vecchi monumenti, hanno fatto tabula rasa della loro storia. Nei paesi dove fanno regnare la loro fede sono riusciti a far regnare quel silenzio”. Abbastanza per essere bandito per sempre dai salotti bene di Londra. Marty Peretz, già direttore e proprietario di New Republic, è un elettore democratico e vive a Cambridge, la città di Harvard, l’università più liberal d’America, dove ha insegnato a lungo. Fra i suoi allievi c’è stato anche Al Gore, ex vicepresidente e premio Nobel per la Pace e il surriscaldamento vero o presunto. Ma Peretz è stato quasi linciato in pubblico quando di recente ha scritto che “i musulmani sono indifferenti alla vita umana, quindi non sono degni dei privilegi del primo emendamento”. Peretz ha anche detto che per i musulmani stessi “la vita dei musulmani non vale niente”.
Gli aggettivi non potevano che venire da soli: “antislamico”, “razzista”, “xenofobo”, “antiamericano”. L’editorialista del New York Times Nicholas Kristof ha dedicato una column contro Peretz: “Questa è l’America?”, si è domandato l’opinionista. “Un celebre commentatore americano, in un magazine a lungo associato alla tolleranza, si domanda se ai musulmani debbano essere accordate le libertà costituzionali”. Kristof ha paragonato il trattamento che Peretz ha riservato ai musulmani a quello dei giapponesi internati negli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale e agli ebrei perseguitati in Europa. Sulla blasonata rivista Foreign Policy il giornalista James Fallows auspica che l’Università di Harvard, dove Peretz ha insegnato e dove una cattedra porta il suo nome (attualmente è della studiosa di yiddish Ruth Wisse), cancelli l’invito a Peretz: “Davvero Harvard vuole intitolare un corso studi a chi ha simili idee odiose?”. Glenn Greenwald su Salon scrive che “la bigotteria di Peretz non è isolata, ma ha una lunga storia razzista”. L’odio dell’ortodossia liberal contro Peretz ebbe inizio nel 1991, quando il giornalista trasformò il suo magazine in un bastione del filoisraelismo. James Wolcott su Vanity Fair coniò l’espressione “Peretzism” e su Nation il veterano del giornalismo antagonista, Patrick Cockburn, iniziò a dargli del “razzista”.
Nel 2008, persino a un critico culturale compassato come George Steiner è capitato di essere accusato di intolleranza razziale. “E’ molto facile stare seduti a casa qui a Cambridge e dire che il razzismo è orribile; ma venitemi a chiedere di ripeterlo dopo che una famiglia giamaicana con sei figli si è stabilita accanto a casa mia e suona reggae e rock and roll tutto il giorno”. E ancora: “Venitemi a chiedere dopo che il mio agente immobiliare mi ha informato che siccome ho dei giamaicani come nuovi vicini, il valore di casa mia è caduto in picchiata: in tutti noi, nei nostri figli, se gratti un poco sotto la pelle scopri molte zone oscure per mantenere la nostra comodità, il nostro modo di vivere”. La lezione di Steiner, in un’intervista al País di Madrid, ha creato un caso politicoculturale. “Questa generalizzazione offensiva nei confronti di un intero gruppo etnico non me la sarei aspettata da un uomo con il passato di Steiner”, dice il portavoce del Muslim Council britannico. “Parole di un vecchio capriccioso che dovrebbe starsene seduto a bere tè, invece di attribuire alla collettività i suoi giudizi personali da razzista”, per Bonnie Greer, drammaturga.


Agatha Christie

Anche Agatha Christie, che pur visse l’èra precedente il politicamente corretto, è stata censurata per razzismo. Vittima designata, “Dieci piccoli indiani”, il celebre giallo della scrittrice britannica che invece il presidente della National Association for the Advancement of Colored People, Gary Hines, vuole bandire perché il libro, pubblicato nel 1939, si intitolava “Dieci piccoli negri”. Anche una icona del progressismo, come il premio Nobel per la Letteratura Nadine Gordimer, almeno stando a un provvedimento preso dal dipartimento educazione di Gauteng, la provincia sudafricana che comprende Johannesburg, è stata giudicata “razzista” per il romanzo “July’s People”, che conterrebbe “toni profondamente razzistici, altezzosi e paternalistci”. L’accusa di razzismo non ha risparmiato neppure il recluso Cormac McCarthy, l’ultimo grande scrittore religioso americano che Robert Coles sul New Yorker ha paragonato ai drammaturghi greci e ai moralisti medievali. Per il critico Barcley Owens “i libri di McCarthy sono pieni dei vecchi.

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