sabato 23 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Libero - Il Foglio - Il Giornale - Corriere della Sera Rassegna Stampa
11.07.2013 Egitto: cresce l'intolleranza per Usa e Fratelli Musulmani
commenti di Carlo Panella, Daniele Raineri, Gian Micalessin. Cronaca di Cecilia Zecchinelli

Testata:Libero - Il Foglio - Il Giornale - Corriere della Sera
Autore: Carlo Panella - Daniele Raineri - Gian Micalessin - Cecilia Zecchinelli
Titolo: «L’Arabia si compra l’Egitto e umilia Obama - Al Cairo ovunque ti volti, golpisti o Fratelli, tutti dicono 'Fuck America' - Fuga da Al Jazeera. I reporter accusano: 'Faziosa sull’Egitto' - Tolleranza zero con i Fratelli Musulmani»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 11/07/2013, a pag. 16, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " L’Arabia si compra l’Egitto e umilia Obama ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Al Cairo ovunque ti volti, golpisti o Fratelli, tutti dicono 'Fuck America' ". Dal GIORNALE, a pag. 15, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Fuga da Al Jazeera. I reporter accusano: «Faziosa sull’Egitto» ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 13, l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo "Tolleranza zero con i Fratelli Musulmani " .
Ecco i pezzi:

LIBERO - Carlo Panella : " L’Arabia si compra l’Egitto e umilia Obama "


Carlo Panella                Re dell'Arabia Saudita

Al Cairo, i generali di Fattah al Sisi e il presidente al Mansour sperano con tutto il cuore che arrivino sul serio, e presto, gli 8 miliardi di dollari che Arabia Saudita e Emirati Arabi hanno promesso martedì. Così non era stato per i 3 miliardi promessi mesi fa dal Qatar al deposto presidente Mohammed Morsi, ma mai arrivati nelle esauste casse del Cairo. Non ultima ragione, questa, dell'intensità della rivolta - sobillata dalla scarsità di cibo, elettricità e carburante - che ha portato alla ingloriosa fine del governo dei Fratelli Musulmani.
PAESE STREMATO
L'Egitto è infatti stremato: dalla caduta di Mubarak in poi l'economia ha subito un tracollo ed è andato avanti solo bruciando le riserve della Banca Centrale, passate da 34 a 16 miliardi di dollari, tanto che, secondo Standard & Poor's tra sei mesi il paese fallirà. Il turismo (30% del Pil) è crollato a causa delle intemperanze degli islamisti e della paura dei moti di piazza e la non forte industria è stata paralizzata non solo dalle agitazioni politiche, ma addirittura da una cronica insufficienza di forniture elettriche. Morsi e il suo governo, come prima la Giunta militare del maresciallo al Tantawi che depose Mubarak, nulla hanno fatto per riparare a questo disastro (con Mubarak, invece, il Pil aumentava del 6-8% all'anno). I generali badavano solo a continuare i loro poco limpidi traffici (sono padroni del 40% dell'economia dell'Egitto), mentre Morsi e il suo governo islamista si sono solo occupati di introdurre la sharia nella Costituzione e nelle leggi (inclusa la proibizione dell'insegnamento dell'inglese nelle scuole!). Se e quando arriveranno, gli aiuti dal Golfo, verranno subito riversati nelle tasche degli egiziani sotto forma di stipendi (il 60% dei lavoratori è dipendente dello Stato) e contributi vari. Questo consoliderà il passaggio di mano del "padrinato" arabo dell'Egitto, con una secca sconfitta politica - la prima, ma enorme - dell'Emiro del Qatar al Thani, sponsor principe dei Fratelli ta di “protettorato” saudita, con una sostanziale perdita di sovranità e con non pochi problemi per lo stesso Israele, sempre meno sicuro che il Cairo tenga fede al trattato di pace siglato nel 1979 tra Begin e Sadat (mai accettato da Ryad).
AMERICA SCONFITTA
Nel futuro incerto e confuso dell'Egitto, in cui due straordinarie rivolte popolari hanno finito per affidare tutto il potere agli stessi generali che erano l'asse portante del regime di Mubarak, una sola cosa è chiara: grazie alla demenziale strategia mediorientale di Barack Obama, il Cairo indebolirà i suoi forti legami con gli Usa e entrerà sempre più nella sfera d'influenza saudita. Obama è infatti riuscito a fare in modo di essere odiato dagli egiziani, prima per aver sostenuto troppo Mubarak («è amico di famiglia», disse Hillary Clinton dopo i primi morti di piazza Tharir), poi per essersi fidato ciecamente della capacità di governo dell'incapace e settario Mohammed Morsi. L'Europa l'ha seguito in questa politica dilettantesca. Il fatto è che senza forti legami con l'Egitto, non è possibile nessuna strategia americana ed europea in Medio Oriente. Ora, questi legami scemano, e nonostante gli Usa abbiano regalato al Cairo dal 1979 a oggi 68 miliardi di dollari, è possibile che si riducano a zero. Consuntivo disastroso per Obama.

Il FOGLIO - Daniele Raineri : "Al Cairo ovunque ti volti, golpisti o Fratelli, tutti dicono 'Fuck America' "


Daniele Raineri

Il Cairo, dal nostro inviato. L’Amministrazione Obama è riuscita in un miracolo: è un caso di ubiquità al Cairo. E’ detestata dal fronte che appoggia il golpe militare contro i Fratelli musulmani ed è detestata anche dai Fratelli musulmani. Il fronte del putsch ha trasformato piazza Tahrir nella sua base da dieci giorni e l’ha riempita con messaggi antiamericani. “Obama sostiene il terrorismo!”, dicono in arabo e inglese gli striscioni che pendono a festoni dai palazzi sulla piazza. Altra scritta cubitale bianca su nero, in mezzo alla rotonda: “Il terrorismo di Obama insanguina l’Egitto e il mondo arabo!” – i putschisti dicono “terrorismo” per indicare i Fratelli musulmani e i loro sponsor esteri. Ci sono le facce del presidente, scelto in un momento corrucciato, e anche di un’altra figura d’odio, l’ambasciatrice americana in Egitto Anne Patterson (per tre anni è stata anche ambasciatrice in Pakistan, una carriera tutta nei luoghi più complicati del pianeta). La domenica delle manifestazioni gigantesche che hanno fatto cadere il presidente Morsi i manifestanti alzavano cartelli che dicevano: “Fuck Patterson”. Ora i pochi rimasti a presidiare il sit-in spiegano al Foglio che l’accusa più grande all’America è di avere taciuto per tutto l’anno dei Fratelli al potere, legittimando la spericolatezza del presidente Morsi che è andato avanti a colpi di decreti costituzionali paradittatoriali e di nomine. Aspettano la manifestazione di domani, sarà davanti all’ambasciata americana. Anne Patterson credeva di turarsi il naso e di agire secondo una visione pragmatica del mondo quando andava a incontrare nel suo ufficio il businessman più ricco dei Fratelli musulmani, Khairat el Shater, e invece stava accumulando capi d’accusa del tribunale del popolo di Tahrir contro Obama – con cui si sostiene, a ragione, lei abbia un rapporto diretto e speciale. I Fratelli musulmani sono i Fratelli musulmani e nel loro anno di governo di questa presunta vicinanza americana non hanno mai saputo davvero che farsene. Washington invia un miliardo e trecentomila dollari ogni anno ai generali egiziani che li hanno scalzati e quindi è alleata con il nemico – gli islamisti stanno dedicando una parte delle preghiere del mese di Ramadan a maledire il generale al Sisi. Ieri il sito di al Jazeera, il canale tv del Qatar – che su istruzioni dell’emiro combatte una guerra mediatica dalla parte dei Fratelli contro i golpisti – ha pubblicato un pezzo assassino per raccontare che l’America finanzia gli attivisti che hanno fatto cadere Morsi. Ecco le prove, dice. E’ un articolo scritto per aizzare l’indignazione dei Fratelli egiziani, cita il caso di un attivista pagato dal dipartimento di stato che spiega ai suoi seguaci come “piazzare un pezzo di palma sull’asfalto per fare rallentare un autobus, e prima avrete versato benzina su quel tratto di asfalto, così al momento giusto potete accenderla e bruciare anche l’autobus” e altre tecniche da guerriglia urbana. Ieri il dipartimento di stato ha provato a parare: è ovvio che l’ambasciatrice Patterson parlasse con il governo – e anche con l’opposizione – ma rifiutiamo quest’idea che abbia appoggiato “un certo lato”. Il clima anche per chi ha un passaporto americano e vive in Egitto rischia di peggiorare e già non parte da una base buona: il 9 maggio fuori dall’ambasciata il professor Chris Stone dello Hunter College è stato accoltellato da un estremista che ha detto di essere arrivato nella capitale “per trovare un americano da uccidere”, poi un mese dopo è toccato a un insegnante di inglese durante le prime manifestazioni contro Morsi ad Alessandria. Persino il vecchio passepartout per arrivare alla stanza del potere in Egitto, quindi quell’aiuto da un miliardo e trecento milioni di dollari che l’America ogni anno elargisce ai generali del Cairo, potrebbe perdere in parte la sua efficacia considerata la pioggia di finanziamenti che arriva in questi giorni di dopo golpe dal Golfo. Cinque miliardi di dollari dall’Arabia Saudita, tre dagli Emirati, quattro dal Kuwait: l’obiettivo dei regni sunniti è compensare il nuovo governo dei soldi che il Qatar non darà più ora che i Fratelli sono stati cacciati dai palazzi e sono finiti a digiunarsi via il loro Ramadan di protesta nelle piazze. Incastrata tra questi due odii incrociati, l’Amministrazione Obama sta provando la navigazione giorno per giorno. Come racconta il New York Times, il consigliere per la Sicurezza nazionale, Susan Rice, ha trattato fino all’ultimo con il presidente Morsi, ma lo ha mollato dopo il suo discorso di mezzanotte, quando è stato chiaro che non sarebbe sceso a compromessi a poche ore dalla scadenza dell’ultimatum dell’esercito. Washington non può chiamare “golpe” il golpe dei generali, altrimenti sarebbe costretta per legge federale a interrompere gli aiuti militari e così perderebbe la sua leva (indebolita) per trattare con il Cairo. Vent’anni fa un altro imbarazzo semantico paralizzò il dipartimento di stato, che non riuscì a pronunciare la parola “genocidio” a proposito delle stragi in Ruanda per non dover autorizzare un intervento militare nel centro dell’Africa. Al tempo Rice giurò a se stessa che non si sarebbe più sottomessa alle esigenze della realpolitik e che avrebbe agito secondo gli ideali, non secondo la convenienza diplomatica. Da qui il suo attivismo nella campagna di Libia quand’era ambasciatrice alle Nazioni Unite, un ruolo che la lasciava libera di esporsi senza troppe responsabilità. Ora però, con un incarico più alto, si adegua: il golpe, per l’America, non è ancora un golpe, forse non lo sarà mai.

Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Fuga da Al Jazeera. I reporter accusano: «Faziosa sull’Egitto» "


Gian Micalessin

C'era una volta Al Jazeera . Il suo nome significava isola e la sua immagine illuminava co­me un astro nascente l'univer­so dei media. Oggi è l'isola che non c'è. Una stella spenta e ca­dente emblema di un'informa­zione partigiana e asservita.
Il volto più becero dell'emit­tente pagata e manovrata dall' emiro del Qatar incomincia a far capolino all'inizio delle pri­mavere arabe. L'uscita allo sco­perto arriva con il crepuscolo di Mohammad Morsi quando
Al Jazeera non esita a trasforma­re gli inviati in un esercito me­diatico incaricato di puntellare la traballante credibilità del presidente e dei Fratelli Musul­mani. Grazie a una sfilza di re­portage e interviste rigorosa­mente a favore di Morsi, Al Jaze­era si gioca anche l'ultimo quar­to di credibilità.
Non a caso i ge­ne­rali dopo aver liquidato il pre­sidente fanno subito perquisi­re la redazione dell’emittente televisiva. Non a caso un grup­po di giornalisti egiziani butta fuori a calci gli inviati della tv presentatisi a una conferenza stampa.
Tutto questo potrebbe an­che essere la prova della buona fede di
Al Jazeera . Potrebbe. Ma non lo è. E a dimostrarlo ar­rivano le dimissioni di 22 fra giornalisti e impiegati della re­dazione del Cairo che abbando­nano la tv accusandola di co­stringerli a manipolare pezzi e notizie. «Ci istruiscono in conti­nuazione sui servizi da mettere in onda» - spiega Karem Mah­moud, uno dei volti della sede del Cairo, pun­tando il dito contro i capi di Doha. «Punta­no solo a creare delle divisioni, seguono un' agenda contra­ria agli interessi dell'Egitto e di altri paesi ara­bi » - dichiara il conduttore già passato nella schiera degli ex. E Haggag Salam, un corrispon­dente da Luxor, licenziatosi do­menica, rincara la dose accu­sando gli ex datori di lavoro di «mettere in onda bugie e sviare gli spettatori». Accuse confer­mate da Alaa Al Aioti e da altri tre redattori egiziani della sede centrale di Doha che seguono l'esempio dei 22 colleghi del Ca­iro e firmano una lettera di di­missioni in cui spiegano di non voler più collaborare all' «infor­mazione di parte » dell'emitten­te.
Al Jazeera rispedisce l'accu­sa­al mittente li­quidando di­missioni e accu­se come il frutto delle pressioni esercitate dai militari egizia­ni. «A seguito delle recenti pressioni sui media, in Egitto alcuni membri dello staff di Al Jazeera Egitto hanno deciso di lasciare. Comprendiamo- spie­ga un comunicato - tutte le ra­gioni per cui sentono il bisogno di trasferirsi, comprese quelle di chi segue opinioni politiche di parte». La piccata e acida dife­sa d'ufficio non basta però­a re­stituire all'emittente un'imma­gine di affidabilità e imparziali­tà. Anche perché il caso egizia­no è la punta di un iceberg che agita i mari dell'informazione sin dall'inizio delle primavere arabe. Nel dicembre 2010 Al Ja­zeera trasmette parossistica­mente l­e immagini delle prote­ste di Tizi Bouzit in Tunisia fino a quando non accende la rivol­ta che travolge Bel Alì e porta al potere i Fratelli Musulmani. Lo stesso avviene con Mubarak in Egitto e con Gheddafi in Libia. Già allora i disinvolti inviati di Al Jazeera non esitano a trasfor­mare in notizie autentiche bu­fale. I resoconti libici sono il lo­ro capolavoro. Grazie ai servizi dell’emittente, le tombe di un cimitero si trasformano in fos­se comuni e la leggenda urba­na degli aerei mandati a mitra­gliare i manifestanti di Tripoli diventa comprovata realtà.
Ancor più gravi delle falsifica­zioni sono le omissioni. Men­tre dipinge Ben Alì, Mubarak e Gheddafi come signori del ma­le, l'emittente di Doha «dimen­tica » di raccontare le stragi di manifestanti sciiti firmate da un sovrano del Bahrain assai amico dell'emiro del Qatar. Le malefatte politiche e giornali­stiche di Al
Jazeera rischiano di avere pesanti ripercussioni economiche in terra america­na. Dopo essersi comprata per 500 milioni di dollari la falli­mentare Current Tv di Al Gore, Al Jazeera sperava di conquista­re gli spettatori musulmani d'America e far concorrenza a Fox Tv e alla Cnn. Ma per una tv sbugiardata persino in Egitto, la conquista del pubblico ame­ricano appare ora una missio­ne decisamente impossibile.

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Tolleranza zero con i Fratelli Musulmani"


Cecilia Zecchinelli

IL CAIRO — La «seconda rivoluzione» dei Giovani Ribelli che il 30 giugno avevano chiamato in piazza fiumi di persone contro Morsi è ormai sbiadita. L’estesa coalizione laica che aveva voluto la deposizione del raìs islamico ha ottenuto che Mohammad El Baradei sia vice presidente e accettato un premier tecnocrate, ma la sua voce è sempre più debole. I loro improbabili alleati salafiti mantengono le postazioni ma pare saranno esclusi dal futuro governo. Invece, i militari, e al loro fianco i silenziosi quanto potenti «mubarakiani», proseguono spediti nella Grande Restaurazione. Forti delle difficoltà dell’Occidente a condividere il grido di «golpe» che continua a levarsi dalla Fratellanza sconfitta. Fortissimi dell’appoggio incondizionato e concreto delle monarchie del Golfo già grandi sponsor di Mubarak e Sadat. Dopo Arabia Saudita e Emirati, che martedì avevano concesso al Cairo 8 miliardi di dollari, ieri il Kuwait ne ha stanziati altri 4. Quale prova migliore potevano dare a un Egitto stremato e diviso che la via imboccata dal generale Abdel Fattah Al Sisi è quella giusta? Che il Paese non è solo?

Ieri i segnali che il capo dei militari intende procedere senza cedimenti sono stati molti. La magistratura (in gran parte mubarakiana) ha emesso ordini di arresto per la Guida suprema dei Fratelli Musulmani Mohammad Badie, finora mai toccato, con l’accusa di aver «pianificato e incitato atti criminali» nella strage di domenica al Cairo in cui 53 Fratelli erano stati uccisi dai soldati. Con lui altri nove dirigenti del movimento. Non solo. Per la prima volta dalla deposizione di Morsi le autorità hanno dato sue «notizie», fiduciose che non porteranno a reazioni di massa: «È detenuto in un luogo sicuro e ignoto, per il bene suo e del Paese». Voci lo danno recluso in una base militare nel deserto sulla via di Suez, ma cambia poco. E infine il presidente ad interim nominato da Al Sisi, Adly Mansour, non ha ceduto sulla Costituzione provvisoria da lui appena emanata, contestata (ma non rifiutata) dal fronte laico per gli eccessivi poteri conferiti al raìs nella transizione e perché non difende libertà fondamentali come quelle di culto e di sciopero.

Il presidio dei Fratelli intanto è ancora affollato alla moschea cairota di Rabaa Al Adawiya. È qui che forse si nasconde la guida Badie, difeso da uomini pronti a morire se ci sarà un attacco. Ma pare improbabile che l’esercito decida un’azione, non subito almeno con il Ramadan appena iniziato. E poi la battaglia per l’Egitto ormai ha superato i suoi confini. Il Paese è parte del Grande Gioco per il Medio Oriente in cui a sfidarsi sono gli Stati più ricchi e potenti, le monarchie del Golfo. Non è una novità: da tempo il minuscolo ma immensamente ricco Qatar contende al gigante saudita il ruolo di prima potenza regionale. Superattivo e pragmatico sul piano politico, musulmano wahabita come l’Arabia ma in una forma più moderna e tollerante, l’emirato ha sempre appoggiato la Fratellanza nell’area: con la tv Al Jazeera , finanziamenti, armamenti sui fronti di guerra come in Siria. In Egitto aveva sostenuto la Rivoluzione e ancora più la presidenza Morsi. Era stato il solo, almeno nel Golfo, a sostenere il Cairo l’anno scorso con 8 miliardi di dollari. Odiati da Riad, come da Abu Dhabi e dal Kuwait, i Fratelli nell’anno al potere avevano atteso invano gli aiuti promessi dai tre Paesi, ora annunciati invece in tempi rapidi e toni trionfanti. Una prova ulteriore che quanto sta succedendo qui non è opera di ribelli ma di forze militar-mubarakiane. Ma anche un elemento ulteriore d’allarme. Già risolvere la crisi egiziana è impresa ardua, con il coinvolgimento di potenze straniere lo è ancora di più. Non a caso Barack Obama ieri ha chiamato il nuovo emiro del Qatar Tamim bin Hamad e il principe della corona degli Emirati Mohammad Al Nahyan (vicino ai sauditi), chiedendo di contribuire a trovare una soluzione pacifica, ad avviare al più presto un governo democratico e civile.

Per inviare la propria opinione a Libero, Foglio, Giornale e Corriere della Sera, cliccare sulle e-mail sottostanti


lettere@liberoquotidiano.it
lettere@ilfoglio.it
segreteria@ilgiornale.it
lettere@corriere.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT