Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 07/07/2013, a pag. 10, l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo " Raffinato, poliglotta, amante del vino. Di casa nel mondo, straniero in patria ". Dal SOLE 24 ORE, a pag. 1-6, l'articolo di GIuliano Amato dal titolo "Democrazia e islam, insieme è possibile".
Ecco i pezzi, preceduti dai nostri commenti:
CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : "Raffinato, poliglotta, amante del vino. Di casa nel mondo, straniero in patria "
Mohamed el Baradei
Cecilia Zecchinelli liquida in poche righe il periodo di el Baradei alla presidenza dell'AIEA : " Periodo difficile, soprattutto per i dossier iracheno e iraniano: cercò di mantenere posizioni indipendenti, insistendo che si potevano trovare soluzioni pacifiche anche nei casi più controversi, come le famose «armi i distruzione di massa» di Saddam (di cui dubitava) o sull’arsenale degli Ayatollah (su cui voleva certezze). Guadagnandosi spesso l’accusa di debolezza da parte di governi occidentali, ma poi, alla fine, quel Nobel per la pace che ne certifica capacità e correttezza.". Il fatto che el Baradei abbia intascato un Nobel per la pace non ha alcun significato, specie se si considera che persino Yasser Arafat è riuscito ad ottenerne uno.
La sua posizione riguardo il nucleare iraniano non fu di 'debolezza' ma di appoggio. El Baradei fece tutto quanto era in suo potere per nascondere i progressi del nucleare degli ayatollah.
Ecco il pezzo:
IL CAIRO — Durante il drammatico quanto gelido annuncio in tv che Mohammad Morsi non era più presidente dell’Egitto, mercoledì sera c’era lui a fianco del capo dei generali Al Sisi. Mohammad El Baradei, 71 anni, già capo dell’Agenzia atomica dell’Onu e premio Nobel, da poco era stato nominato rappresentante del Fronte 30 giugno formato dagli oppositori al raìs islamico. Ma molti avevano visto in quel momento la conferma che altro lo attendeva nei giorni a venire. Sarà il nuovo premier, o almeno vicepresidente, dicevano le voci aggiungendo che fino all’ultimo El Baradei avrebbe respinto ogni carica. Meglio restare dietro le quinte, come grande tessitore. Già l’anno scorso non si era presentato alle presidenziali, recentemente aveva dichiarato che nemmeno alle prossime, quando saranno, avrebbe corso. Invece, ieri ha ceduto accettando di essere premier. A dire di no, dopo ore in cui l’incarico era stato confermato da fonti della presidenza, è stato il partito salafita Al Nour, parte cruciale del Fronte 30 giugno. Ma in un Paese dove i colpi di scena sono quotidiani, niente è ancora detto, nemmeno che quel «no» dei salafiti resti un «no».
Laureato in legge al Cairo, subito entrato al ministero degli Esteri, El Baradei ha passato quasi tutta la sua vita fuori dal suo Paese: alle missioni Onu a New York e Ginevra, poi dal 1984 al 2009 all’Agenzia atomica, gli ultimi 12 anni come capo. Periodo difficile, soprattutto per i dossier iracheno e iraniano: cercò di mantenere posizioni indipendenti, insistendo che si potevano trovare soluzioni pacifiche anche nei casi più controversi, come le famose «armi i distruzione di massa» di Saddam (di cui dubitava) o sull’arsenale degli Ayatollah (su cui voleva certezze). Guadagnandosi spesso l’accusa di debolezza da parte di governi occidentali, ma poi, alla fine, quel Nobel per la pace che ne certifica capacità e correttezza.
La sua reputazione è infatti oggi alta nella comunità internazionale. E non solo perché è uomo di mondo con case in Europa, poliglotta e a suo agio (pur da timido) ovunque. In Egitto questo è stato però uno svantaggio. Nel 2010, quando qui fondò il «Fronte nazionale del cambiamento» anti-Mubarak, lo seguirono in pochi. Si diceva che era un khawaga, straniero, che dell’Egitto non sapeva niente, o peggio che era un «uomo degli Usa», E poi beveva vino e parlava in modo strano, le figlie si fotografavano in bikini. Tutti i media in Occidente lo intervistavano, qui lo volevano al massimo i «ragazzi di Facebook». Dopo la Rivoluzione, di persona o su twitter (che usa molto) mise in guardia i vincitori dal correre troppo: per contrastare sia i Fratelli sia i generali, che criticò apertamente, ci voleva una nuova Costituzione, e solo allora andare alle urne. «Altrimenti avrete un raìs imperatore, con tutti i poteri, sarà un disastro». Non fu ascoltato, il risultato si è visto.
Sotto la presidenza Morsi, nel clima di disfatta dei laici che solo da poco hanno rialzato la testa, ha fondato un nuovo partito, Al Dustur, la Costituzione. Con alcuni noti liberal (da Gamila Ismail, ex moglie di Ayman Nour all’anziano attivista copto George Ishaq) ha continuato a insistere sulla necessità di ripartire da capo, per creare le basi di una democrazia. Non voleva arrivare al «golpe», che ovviamente lui ora non chiama così. Le sue posizioni, simili a quelle degli Usa, era di negoziare un compromesso con Morsi. Ma svanita ogni possibilità di intesa ha deciso di mantenere il suo impegno nella politica dell’Egitto. E di accettare, forse a denti stretti, quel ruolo di premier. Difficile dire se il «no» imposto dai salafiti nella notte sia stato per El Baradei una delusione. Magari, è stato un sollievo: fare il premier egiziano, per quanto di transizione, non è certo impresa facile.
Il SOLE 24 ORE - Giuliano Amato : " Democrazia e islam, insieme è possibile"
Giuliano Amato
La situazione in Egitto ha permesso a tutti gli osservatori Occidentali, anche ai più islamicamente corretti come Tahar Ben Jelloun (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=49774), di rendersi conto che non esiste la democrazia islamica. Per altro non era necessaria la crisi dell'Egitto sotto ai Fratelli Musulmani, sarebbe stato sufficiente guardare tutti gli altri Stati islamici presenti sul pianeta.
Giuliano Amato, invece, continua a chiudere gli occhi di fronte alla realtà e cerca, con questo lungo articolo, di convincere i lettori che esiste un islam democratico.
Ecco il pezzo:
Dobbiamo capirla bene la lezione che viene dall'Egitto, perché ha implicazioni che vanno ben oltre il destino di questo Paese, peraltro importantissimo. Che non sia stato il solito golpe militare lo hanno capito tutti, perché tutti hanno visto la straordinaria partecipazione popolare alla protesta contro il presidente Mohamed Morsi, tanto da far sembrare l'intervento dell'esercito come una sorta di coronamento della stessa protesta. Ma già questo mette in luce un errore che va evitato, quello di ritenere che l'esperienza di questi giorni condanni la "democrazia islamica" ad essere un ossimoro impraticabile e produca perciò una lezione formulabile solo così (e qualcuno così l'ha formulata): «Se, in nome della democrazia, ti rimetterai al voto nei Paesi islamici, li farai cadere nelle mani di chi la democrazia comincerà a negarla e a eroderla dal giorno dopo. Sarai fortunato se avrai almeno un esercito che ti darà una mano ad uscirne». Una lezione davvero cupa che, per una situazione come quella egiziana, escluderebbe nel breve e nel medio termine qualunque evoluzione democratica, dal momento che l'Egitto è un Paese all'8o% islamico. Ebbene io non penso che sia così, giacché, pur consapevole delle robuste propensioni integraliste esistenti nel mondo islamico, ritengo che la partita sia aperta e che occorra fare il possibile e l'impossibile perché riesca a prevalere in quel mondo chi tali propensioni non solo non le nutre, ma le combatte e non da oggi. Non so quanti dei miei lettori conoscono Abu Zayd, un piccolo grande uomo che fu professore proprio in Egitto, dove era nato, e che dovette andarsene con sua moglie Ibtihal, perseguitati entrambi in nome della Sharia. Abu Zayd apparteneva a quella schiera di intellettuali islamici, che si battono per una lettura del Corano, sottratta alle devianze affermatesi nei secoli dell'oscurantismo e usate, in genere, per fornire un fondamento a poteri autoritari e assoluti. Fu accusato per questo di apostasia (l'accusa venne dalla sua stessa Università), fu condannato ingiudizio e un corollario della condanna fu un decreto di divorzio da sua moglie: la sharia non consente a una donna musulmana di essere sposata con un apostata, che è equiparato a un non musulmano. Era il 1995 quando Abu Zayd lasciò con Ibtihal il Cairo. Approdò poi in Olanda, all'Università di Leiden, dov'è rimasto sino alla morte prematura. Che cosa prova il caso di Abu Zayd? Prova che si può essere e restare islamici rivendicando, sul terreno della democrazia, non solo la legittimazione elettorale, ma anche i principi di libertà, di tolleranza e di rispetto reciproco. E prova inoltre che, così facendo, non siè soli nel proprio mondo, ma si finisce per trovarvi solidarietà e alleanze. Giova qui ricordare che, mentre la Corte d'Appello dichiarava nullo il matrimonio diAbu Zayd e di sua moglie, l'Università del Cairo decideva di promuoverlo professore ordinario, apprezzando il suo lavoro critico e definendolo un libero pensatore, che aspirava solo alla verità. La domanda che ci dobbiamo porre è dunque, in primo luogo, quanti sono statigli islamici, non diversidaAbu Zayd e dal suoi colleghi allora a lui favorevoli, che hanno alimentato nei giorni scorsila protesta contro Morsi. Non dovevano essere pochi fra i venti milioni di egiziani coinvolti -a quanto si è letto-nelle manifestazioni antigovernative al Cairo e altrove. È certo vero che si è trattato di manifestazioni con una forte, e non nuova, motivazione economico-sociale, ma questa ha fatto da collante di ostilità di altra natura, cresciute via via contro Morsi: perla violenza a cui tante donne sono rimaste esposte senza difesa, per quella di cui sono stati vittime ripetutamente i copti, anch'essi indifesi, per il trattamento riservato agli oppositori. La verità è che già la Costituzione, voluta da Morsi e poi convalidata con referendum, aveva destato parecchie critiche: perché adotta l'Islam come religione dello Stato e fa dei principi della sharia i principi fondamentali del sistema legislativo; perché dà rilievo costituzionale all'università islamica Al-Azhar, consacrandola come l'interprete per eccellenza della legge islamica; perché costituzionalizza il reato di «insulto od abuso verso tutti i profeti e i portatori del messaggio religioso». C'eranogiàinunaCostituzione del ge nere tutte le premesse per una visione e un uso integralista del poterepubblico.Non dimentichiamo che fra le partite apertene' mondo islamico c'è quella della laicità dello Stato e quindi della distinzione fra ciò che va dato a Dio e ciò che va dato a Cesare. Per gli integralisti questa è unadistinzione chenonhasensoe il solfattoche 1'Islamsiaproclamato religionediStatoinunPaesenel quale sono essi a prevalere, porta conseguenzeche diventano inesorabili, perché non lasciano spazio,nellasferapubblica,avoci diverse e vedono «d'insulto o l'abuso» inqualunquevocecritica Questo è ciò che è accaduto in Egitto e la verità che ci ha messo davanti la stagione di governo della Fratellanza Musulmana è che essa non aveva maturato in sé i paradigmi culturali della democrazia. Rivendicava l'originalità della democrazia islamica ma sotto la formula celava un assetto nel quale l'aggettivo era destinato a sovrastare e soffocare il sostantivo. È importante però che i paradigmi che le sono mancati non li dovesse attingere dalla cultura occidentale, ma li avesse in casa. Erano nella antica tradizione islamica e sono oggi non solo in Abu Zayd, ma nei tanti che, come lui, se ne sono fatti interpreti fra gli islamici del nostro tempo. Si pensi all'iraniano Abdolkarim Soroush, che non ripudia affatto la democrazia religiosa, ma nega che possa comportare costrizioni in materia di fede e fa l'elogio del pluralismo religioso, nel quale si specchia «l'invisibile pluralità delle anime». Il che porta lui e chi la pensa come lui a quanto scrive Tahar Ben Jelloun: ««L'Islam resti nei cuori e nelle moschee; la scena politica non gli si addice». C'è dunque un forte conflitto e quel che più conta è che non è chiuso fra i dotti, ma nutre sentimenti collettivi come quelli della rivolta egiziana E non solo. In Tunisia il partito islamico Ennahda ha dovuto ridimensionare il proprio ruolo nel governo davanti al crescere di ostilità ai limiti anch'esse della rivolta. Mentre in Turchia un'altra piazza ha fatto capire al partito islamico al potere che ci sono dei confini non valicabili ai quali i turchi non intendono rinunciare. Speriamo ora che in Egitto non finisca nel sangue e che la Fratellanza non dia spazio alla violenza. L'esito potrebbe essere ben altro e ben più proficuo per tutti noi. Democrazie islamiche, nelle quali l'aggettivo conviva, senza stridori, col sostantivo.
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