Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 07/07/2013, a pag. 13, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo "Mubarak in cella, i suoi generali al potere ". Da LIBERO, a pag. 17, l'articolo di Carlo Panella dal titolo "Sconfitti gli amici di Hamas, Israele si frega le mani ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, l'articolo di Davide Frattini dal titolo " Armi, droga, schiavi e jihadisti. Il Far West dei beduini nel deserto ". Da REPUBBLICA, a pag. 12, l'articolo di Fabio Scuto dal titolo "Egitto, è scontro sul premier. “Incarico al laico El Baradei”, poi il veto dei partiti islamici".
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Mubarak in cella, i suoi generali al potere "
Fiamma Nirenstein
Dunque, è un colpo di stato militare? Obama tace, prolungando la spaventevole assenza americana nel tumulto internazionale, e lasciando ai suoi di biasimare l’esercito egiziano con la virtuosa richiesta di restituire il potere alla società civile. I vedovi delle primavere arabe mettono l’accento sulla richiesta di democrazia delle folle egiziane, chiedono all’esercito di tirarsi indietro e scansano l’idea del colpo di Stato militare. Ci si scorda che militare era Nasser, militare era Sadat, militare il governo, per cinquemila anni, dell’unico Paese arabo vero in un mondo fatto a matita dall’accordo Sykes Picot nel 1916, quando si spartì l’impero Ottomano. Non si può fare un colpo di Stato se non c’è lo Stato. Vorremmo averlo detto noi, ma l’ha scritto sul Times of London Roger Boyes. La frase suona ancora più ironica dopo che ieri l’85enne ex presidente Mubarak, certo di buon umore, è apparso in tribunale per essere giudicato dell’omicidio dei suoi manifestanti. Si è dichiarato innocente. Lo Stato ha finto di fare il suo lavoro mentre Mubarak se la rideva sotto i baffi e le piazze facevano nuove decine di morti.
Mubarak avrebbe anche potuto dichiararsi vincitore: erano i suoi vecchi scherani ad affiancare il generale Sisi durante la solenne dichiarazione della presa del potere. L’ex presidente Morsi siede in custodia, la sua folla, enorme e impazzita di rabbia, si vede sfuggire di mano il potere conquistato dopo 85 anni di persecuzioni. Ma questa folla la odia altrettanto il popolo variegato che ha visto Morsi comportarsi come un impiegato dei Fratelli musulmani, usare tutto il potere per la realizzazione della sharia e per piazzare i suoi invece che per combattere la fame e l’ignoranza. L’esercito certo ha agito con premeditazione, temendo, a ragione, che Morsi lo avrebbe trasformato in una schiera di Pasdaran fanatici e religiosi, ed ha abbracciato i ribelli. Così ha cacciato l’ennesimo faraone, come aveva fatto anche con Mubarak.
L’esercito dà e toglie, come il Nilo, e lo fa da cinquemila anni. E se non affoghiamo nei nostri sogni occidentali diremo realisticamente: l’Egitto può ora andare a pezzi, cadere preda di bande che per anni cercheranno le une il sangue delle altre. La formula «restituite immediatamente il potere ai civili» è qui senza senso. Tutti e nessuno qui sono i «civili» che possano gestire le istituzioni, perché esse non esistono. E il disastro incombe.
Ieri un pope copto è stato ucciso, nelle città impazza la fame, i tribunali vengono sostituiti nel Sinai da corti shariatiche, la polizia è corrotta, niente funziona, gli Usa non usano l’espressione «golpe militare» perché in caso venga pronunciata la legge statunitense costringerà il Pentagono a tagliare 1 miliardo e 300 milioni di dollari di finanziamento militare, insieme ai 250 milioni che dovrebbero alleviare i guai sociali. Un Paese grandissimo e vetusto è senza controllo: parte è armata coi residui provenienti dalla Libia e da altri occasionali mestatori, il Sinai è percorso da bande di Al Qaeda, Hamas irritato scavalca il confine e porta armi ai Fratelli musulmani. Si aggira una massa in mezzo alla quale il tasso di omicidi dalla primavera araba è cresciuto del 300 per cento e le rapine di dodici volte, e noi facciamo i signorini attaccando l’esercito che affronta l’inferno.
La democrazia oggi laggiù è meno importante delle vite umane.
L’esercito egiziano ne salverà molte. È un golpe militare? E sia.
www.fiammanirenstein.com
LIBERO - Carlo Panella : " Sconfitti gli amici di Hamas, Israele si frega le mani"
Carlo Panella
Silenzio assoluto, ma grande soddisfazione: Benjamin Netanyahu non ha commentato il golpe del generale al Sisi che ha deposto e arrestato il presidente egiziano Mohammed Morsi e ha vietato ai suoi ministri di dire alcunché, ma è palese che la notizia a Gerusalemme è stata vista con grandissimo favore. Le ragioni sono molteplici: innanzitutto con Morsi fallisce vergognosamente il primo esperimento di governo di un grande Paese arabo da parte dei Fratelli Musulmani, la più grande organizzazione islamista del pianeta, che ha nei suoi obbiettivi la lotta mortale contro Israele. Un fallimento imposto da una sollevazione popolare, a riprova di una debolezza intrinseca dell’Islam politico che esalta la unicità di Israele, unico Paese del Medio Oriente (con la Turchia) a democrazia matura e consolidata. In secondo luogo, l’unico problema pesante per la sicurezza di Israele viene oggi da Gaza, che è governata da Hamas, sezione palestinese dei Fratelli Musulmani, che spesso e volentieri tollera, e più spesso organizza, lanci di micidiali razzi contro le città meridionali dello Stato ebraico. Morsi, per ragioni tattiche e per opportunismo ha rispettato il trattato di pace tra Israele ed Egitto siglato nel 1979 da Menahem Begin e Anwar el Sadat, ma era evidente e forte il sostegno che in un anno di governo i Fratelli Musulmani del Cairo avevano dato al governo dei Fratelli Musulmani di Gaza. Il 16 novembre del 2012, su mandato di Morsi, il premier egiziano Hisham Qandil - primo capo di governo del Cairo in assoluto - si è infatti recato a Gaza per portare pieno sostegno «alla rivoluzione palestinese» e la massima solidarietà contro «l’aggressione israeliana» (che in realtà altri non è se non il bombardamento aereo dei lanciarazzi che martellano Israele, che costituiscono una vera e propria provocazione di guerra a freddo). Hamas è dunque oggi estremamente indebolita dalla espulsione dal governo dei “confratelli” egiziani e infatti la sua reazione alla defenestrazione di Morsi è stata di condanna assoluta. In terzo luogo, il generale al Fattah al Sisi, capo delle Forze armate egiziane e autore del golpe contro Morsi, tra tutte le sue molte ambiguità, non ha però mostrato tolleranza nei confronti di Hamas. Anzi, in contrasto col suo premier, (è anche ministro della Difesa) ha ordinato ai suoi militari di inondare con liquame fetido di fogna le decine di tunnel attraverso cui passa quel contrabbando di armi, denaro e generi vari che è fonte essenziale di approvvigionamento per Hamas. Israele ha insomma molte ragioni per fidarsi di al Sisi e il fatto che l’Egitto sia oggi nelle sue mani è valutato assai positivamente anche dai vertici militari israeliani. In quarto luogo, il fatto che le piazze dei Tamarrod e dei Fratelli Musulmani si scontrino frontalmente con decine di morti, dimostra al mondo la tesi di fondo di Gerusalemme: non è Israele la causa della crisi araba, che ha invece radici interne ed è prodotta da società e forze politiche incapaci di mediazioni, di strategie a lungo raggio, in cui l’Islam politico svolge un ruolo deflagrante e distruttivo. Conferma clamorosa della tesi di Ehud Barak: «Noi siamo il giardino, loro sono la giungla; costruiamo un muro attorno a noi, sbarriamo le finestre, accendiamo l’aria condizionata… e immaginiamo di essere in Scandinavia». Resta a Gerusalemme una preoccupazione, in crescita dopo la caduta di Hosni Mubarak: negli ultimi due anni, vuoi per il peso politico sul governo del Cairo degli islamisti, vuoi per il caos complessivo in cui è caduto l’Egitto, il Sinai si è trasformato in un santuario di terroristi islamici. Il fatto che venerdì sul municipio di al Arish, principale centro del Sinai, conquistato dagli islamisti che hanno ucciso 6 poliziotti egiziani, sia stata issata la bandiera di al Qaeda è assolutamente sintomatico. La fondazione, annunciata ieri del gruppo terrorista di Ansar al Sharia aggrava queste preoccupazioni e ha spinto le autorità militari israeliane a incrementare la sorveglianza della frontiera col Sinai (e con Gaza).
CORRIERE della SERA - Davide Frattini : " Armi, droga, schiavi e jihadisti. Il Far West dei beduini nel deserto "
Davide Frattini
GERUSALEMME — «Oh cavaliere del nobile veicolo / che nessun scudiscio per cammelli può far sterzare / Corre a 200 all’ora come l’esercito di Saddam che lancia un missile Scud / La fabbricazione non lascerà delusi, questi stranieri non falsificano!». Tiaha ha trovato le parole che non saprebbe leggere o scrivere per glorificare i fuoristrada. Il poeta beduino esalta i gipponi che pestano il deserto del Sinai e hanno trasformato i piccoli clan di trafficanti in eserciti capaci di mobilitare migliaia di uomini in poche ore. I cammelli d’acciaio portano montati sulla gobba mitragliatrici pesanti, dai finestrini oscurati affiorano i lanciagranate. Sono diventati il simbolo del nuovo potere tribale, il marchio minaccioso di quello che Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano, chiama «il selvaggio West sulla nostra frontiera sud».
La penisola che gli storici egiziani definiscono «lo scatolone di sabbia» collega due continenti e si estende per 61 mila chilometri quadrati, due volte la valle e il delta del Nilo messi insieme, tre volte Israele e duecento la Striscia di Gaza. Con tutti e tre confina, a tutti e tre ha creato problemi. I 300 mila beduini rappresentano il 70 per cento della popolazione e appartengono a una ventina di tribù. Che hanno le loro leggi e le loro usanze: si sentono molto più vicini ai palestinesi dall’altra parte della barriera che ai connazionali nella capitale. «Il nostro linguaggio e le nostre tradizioni sono gli stessi di Gaza. Viviamo a 40 chilometri da Rafah e a 200 dal Cairo», spiega un capo clan in un dossier dell’istituto britannico Chatham House. O come commenta un intellettuale locale, a trentun’anni dal ritiro israeliano: «Il Sinai è ritornato all’Egitto, l’Egitto non è ritornato al Sinai».
L’area è rimasta fuori dal controllo governativo e le tribù più potenti — i Sawarka, i Rumaylat, i Tarabin — hanno continuato a trafficare, un’economia parallela che vale 250 milioni di euro: in armi e automobili dalla Libia, marijuana e oppio coltivati sul posto, cemento dalla Turchia, clandestini in fuga dal Sudan e trattati come schiavi da traghettare attraverso la sabbia fino al confine israeliano. I tunnel dei contrabbandieri verso Gaza servono a muovere le merci e qualche volta la vendetta: la polizia di Hamas punisce chi risolve da solo le faide, così i beduini passano dall’altra parte per colpire un parente dell’avversario. Perché la loro legge resta quella raccontata nel 1905 da Lord Cromer, console generale britannico al Cairo: «La regola dell’al diya, prezzo del sangue, prevede che se una persona ne uccide un’altra, il padre della vittima o un parente fino al quinto grado abbia il diritto di vendicarsi o ottenere 41 cammelli di risarcimento».
I beduini stanno imparando a rispettare nuove norme, i precetti islamici predicati dagli sceicchi. «I clan sono diventati profondamente religiosi — scrive sulla rivista Jerusalem Report l’analista israeliano Avi Issacharoff — le moschee sono finite sotto il dominio di gruppi fondamentalisti arrivati da fuori. Gli abitanti hanno aiutato i terroristi ad acclimatarsi: hanno insegnato loro come evitare i posti di blocco e le pattuglie della sicurezza egiziana». Le usanze locali vengono soppiantate dalla supremazia delle milizie di Takfir wal-Hijra, estremisti che sostengono di avere legami con Al Qaeda e non temono l’autorità dei clan. I salafiti si sono opposti a traffici lucrosi per i leader locali come quello di organi espiantati dai clandestini africani.
Dopo l’attacco alla caserma della polizia di El Arish, due anni fa hanno cominciato a circolare volantini di rivendicazione firmati da «Al Qaeda nella penisola del Sinai»: invocano la creazione di un Emirato islamico, l’imposizione della sharia, la cancellazione del trattato di pace Egitto-Israele, la fine della discriminazione contro le tribù. «Il mix di richieste tipiche della jihad globale con le recriminazioni di sempre dei beduini — elabora Bruce Riedel, ex analista della Cia, su The National Interest — dimostra che la popolazione locale, dimenticata per anni dal governo, si è radicalizzata».
Il presidente Anwar Sadat, prima di essere assassinato nel 1981, progettava di spostare 5 milioni di egiziani nella penisola, l’acqua del Nilo sarebbe stata deviata, il deserto sarebbe diventato campi coltivati, nuove città avrebbero sostituito i vecchi villaggi. E’ quello che ha realizzato Hosni Mubarak con un piccolo borgo di pescatori, solo che lo sviluppo turistico di Sharm el-Sheikh (diventata la residenza estiva dell’ex presidente) non ha beneficiato i beduini. Anzi l’espansione della Riviera sul Mar Rosso è stata percepita come un’invasione dalla capitale, ha tolto il (poco) lavoro agli abitanti che sono stati costretti a lasciare la costa meridionale per rifugiarsi sulle montagne dell’interno. Da dove sono ridiscesi con le auto imbottite di tritolo: tra il 2004 e il 2006 gli attentati hanno devastato Taba, Ras al—Shaitan, Nuweiba, Sharm el-Sheikh, Dahab. Una vendetta da 130 morti contro il turismo egiziano.
Anche Mohammed Morsi ha pensato di aiutare «i figli del Sinai»: due viaggi presidenziali — le prime visite ufficiali in trent’anni — e una purga che ha decapitato i capi della sicurezza nella zona, dopo il massacro di 16 soldati a Rafah il 5 agosto dell’anno scorso. Il capo dello Stato deposto mercoledì ha incoraggiato il dispiegamento dell’esercito e per la prima volta dalla guerra del 1973 gli elicotteri d’attacco egiziani hanno sparato missili nel Sinai. Ha però evitato il confronto militare diretto con i clan e i cavalieri hanno continuato a spadroneggiare sui loro cammelli d’acciaio.
La REPUBBLICA - Fabio Scuto : "Egitto, è scontro sul premier. “Incarico al laico El Baradei”, poi il veto dei partiti islamici "
Fabio Scuto Mohammed el Baradei
IL CAIRO — Mohammed El Baradei, l’uomo che ha più incarnato le speranze di cambiamento in Egitto, ieri sera era un passo dall’essere nominato premier per guidare il “nuovo corso” in questa delicata transizione mentre tutto il Paese è incendiato dalla reazione violenta della Fratellanza musulmana. Stava per giurare nelle mani del presidente ad interim Adly Mansour nel Palazzo presidenziale a Heliopolis, quando il partito salafita “Al Noor” – che pure ha appoggiato la svolta impressa dai militari solo quattro giorni fa con l’estromissione del presidente islamista Mohammed Morsi - ha posto il veto sul suo nome, minacciando di ritirare il suo appoggio al nuovo esecutivo d’emergenza. La presidenza è stata così costretta a un’imbarazzante retromarcia annunciando nella notte che «diversi sono i nomi in discussione» e che nulla è ancora deciso, «anche se il nome di El Baradei sembra quello più logico». Le consultazioni sono andate avanti tutta la notte: l’ex direttore dell’Aiea e leader liberaldemocratico è stato per due volte ieri sera a colloquio con il presidente Mansour, mentre in un’altra sala proseguivano i negoziati con i rappresentanti di “Al Noor”, dimostrando la pericolosa fragilità politica del “cartello” che ha sostenuto i militari nella destituzione di Morsi. Insorge e promette vendetta la Fratellanza musulmana, che si è vista arrestare gran parte dei suoi leader nelle ultime ore per incitamento alla violenza, mentre in tutto l’Egitto si registravano 37 morti e oltre mille feriti negli scontri al Cairo, Alessandria, Suez e nel Sinai. «Respingiamo in blocco tutto, il golpe dei militari, le nomine, il nostro presidente resta Mohammed Morsi e resteremo in piazza fino al suo ritorno e poi un uomo degli americani», annuncia Mohammed el Khatib, dirigente della Confraternita, mentre decine di migliaia di sostenitori della Fratellanza si sono ritrovati anche ieri a Nasr City, davanti alla moschea di Rabaa el Adaweya, in un quartiere non distante dal Palazzo presidenziale e dal Comando della Guardia Repubblicana dove Morsi da mercoledì sera è agli arresti domiciliari. La scelta di El Baradei era sembrata l’unica possibile per il generale Abdel Fattah al Sissi – capo dell’Esercito che si propone come garante verso una vera democrazia – per cercare di cancellare il prima possibile la parola “golpe” dagli sviluppi della crisi egiziana che inquieta Stati Uniti e Europa e salvare così gli aiuti stranieri senza i quali il Paese dei Faraoni fallirebbe domani. Difficile accusare di essere un golpista l’ex direttore dell’Aiea che è anche stato insignito del Premio Nobel per la pace nel 2005. All’unanimità il leader riformista - che ha guidato prima l'opposizione al raìs Hosni Mubarak poi al presidente islamista Mohammed Morsi - era stato designato dai giovani di Tamarod, dai partiti laici riuniti nel Fronte di salvezza nazionale, dai ragazzi del “Movimento 6 aprile”, che hanno animato le grandi manifestazioni di massa di questi giorni, di essere la loro “voce” per trattare con i militari un rapido ritorno alla normale vita politica. Un ritorno che non sembra né facile né vicino, il Paese è fortemente diviso, in preda alle violenze, l’Esercito potrebbe presto essere obbligato a decretare il coprifuoco nelle grandi città. La Fratellanza ha fatto sapere che continuerà a presidiare la piazza fino a quando Morsi non ritornerà al suo posto, anche se le prime mosse del presidente ad interim Mansour fanno capire che per l’ex presidente islamista si tratta di una strada senza ritorno. Per “Al Ahram” i vertici della Confraternita avrebbero cominciato a capirlo e stanno usando la pressione della piazza e le violenze, come quelle scatenate della scorsa notte al Cairo, per assicurare salvacondotti per i propri leader. Ma i gruppi più oltranzisti della galassia islamica sono molto attivi e in Egitto circolano molte più armi che durante la rivoluzione del 2011. Lo sceicco sunnita Youssef al Qaradawi, uno dei più importanti di tutto il Medio Oriente e considerato l’ispiratore della Fratellanza, ha lanciato una “fatwa” per sostenere Morsi che sembra già un appello alla lotta armata. E, da Washington, il presidente Obama si mantiene neutrale: «Gli Usa non sono allineati con alcun partito politico in Egitto e con nessun gruppo» ha detto in una conference call con il National Security Council sulla situazione in Egitto.
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