Egitto nel caos - i commenti di Carlo Panella, Gian Micalessin, Francesca Paci, Renzo Guolo
Testata:Libero - Il Giornale - La Stampa - La Repubblica - Il Foglio Autore: Carlo Panella - Gian Micalessin - Francesca Paci - Renzo Guolo - Carlo Panella Titolo: «Così il vecchio emiro del Qatar ha fiutato (in anticipo) la svolta - Con l’Islam non si tratta. Fa bene Assad a sparare - Il rischio contagio, incubo dell’Occidente - Miraggi occidentali»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 06/07/2013, a pag. 1-19, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Democrazia e islam, missione impossibile". Dal GIORNALE, a pag. 13, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " Così il vecchio emiro del Qatar ha fiutato (in anticipo) la svolta ". Dalla STAMPA, a pag.10, l'articolo di Francesca Paci dal titolo "Con l’Islam non si tratta. Fa bene Assad a sparare " . Da REPUBBLICA, a pag. 1-4, l'articolo di Renzo Guolo dal titolo " Il rischio contagio, incubo dell’Occidente ". Dal FOGLIO, a pag. 1-4, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Miraggi occidentali ". Ecco i pezzi:
LIBERO - Carlo Panella : " Democrazia e islam, missione impossibile "
Carlo Panella
La guida spirituale dei Fratelli Musulmani, Mohammed Badie, ha organizzato ieri una clamorosa beffa contro il generale al Sisi. Le forze di sicurezza sostengono di averlo arrestato giovedì mentre tentava la fuga verso la Libia. Invece, ieri, è apparso sul palco della grande manifestazione che i suoi seguaci hanno organizzato davanti alla moschea Rabaa al Adawiya, nel quartiere popolare del Cairo di Nasr City. Precise le sue indicazioni e per nulla rassicuranti: «Milioni di sostenitori di Morsi, rimarranno in piazza fino al suo ritorno al potere; Morsi è il mio presidente, il presidente di tutti gli egiziani». Gehad al Haddad, portavoce della Fratellanza subito dopo ha twittato: «Non lasceremo le strade e le piazze di tutto l'Egitto finché non porteremo sulle spalle fino al suo ufficio il presidente legittimamente eletto». I Fratelli Musulmani dunque non intendono avviare nessuna trattativa con i generali e non riconoscono l’au - torità del nuovo presidente ad interim Adly Mansour. Le conseguenze sono chiare: la pressione dei Fratelli musulmani nelle piazze egiziane non diminuirà. Anzi, una volta ripresi dallo sbandamento e dal duro colpo dell’arresto di ben 300 loro dirigenti, replicheranno la tattica dei Tamarrod e faranno di tutto per mettere in crisi il governo provvisorio e arrivare alle elezioni - quando e se vi saranno - recuperando e anzi aumentando i consensi che hanno perso durante i 12 mesi del loro infausto governo. L’Egitto è dunque condannato ad una lunga fase di caos alla fine della quale, peraltro, non è affatto escluso che i Fratelli Musulmani e i loro alleati islamisti non riescano a raggiungere nelle urne una maggioranza dei seggi del Parlamento (complessivamente, in quello sciolto ieri avevano raggiunto più del 70% dei seggi). I Tamarrod di piazza Tahrir, infatti, tanto hanno dimostrato di essere forti nel portare immense folle nelle strade, quanto sono totalmente privi di partiti di riferimento. Lo prova il fatto che la «Coalizione 30 giugno» ha indicato come suo unico portavoce l’oppositore più debole e senza consenso popolare. Mohammed el Baradei infatti non è radicato nella società egiziana (ha passato 30 anni all’Onu come alto burocrate), non sa assolutamente parlare in pubblico, ha 71 anni, è pronto a qualsiasi alleanza (nel 2012 tentò anche con i Fratelli Musulmani) ed è così poco sicuro di riscuotere consenso che non si presentò alle presidenziali del 2012, per timore di un risultato irrisorio. È una sorta di “tecnico” in versione couscous, privo di leadership, sicuramente incapace di mediare tra le profonde divisioni - politiche, ma soprattutto personali - che caratterizzano i partiti di opposizione ai Fratelli Musulmani. Impresa peraltro molto ardua perché questi partiti sono di estrazione eterogenea: ex gerarchi di Mubarak, esigue forze liberali, partiti copti, piccoli partiti personalistici e persino fuorusciti dai Fratelli Musulmani. Sino alla serata di ieri, gli scontri violenti tra i manifestanti pro Morsi (pare 4 milioni) e le forze di sicurezza sono stati duri, ma con un esito non deflagrante per i parametri egiziani: 4 morti al Cairo e 2 agenti uccisi a al Arish. Non è escluso però che nella notte deflagrino incidenti gravi attorno alla televisione di Stato, a poca distanza da piazza Tahrir sempre presidiata dai Tamarrod, meta di un corteo di Fratelli Musulmani. Uno scenario confuso, nervosissimo, che evidenzia un dato di fatto: nei Paesi musulmani è storicamente possibile costruire un sistema democratico solo sotto la guida di una leadership autoritaria. Così è successo in Turchia, dove la democrazia si è impiantata solo grazie al forte «pugno di ferro» di generali laicissimi (e anti islamici dichiarati); così in Marocco, dove il sistema democratico procede lentamente solo grazie ad un re, Mohammed VI, che scioglie le Camere quando prendono il sopravvento gli islamisti. Oppure, è il caso dell’In - donesia, se gli islamici sono contenuti da con blocchi sociali borghesi di Indiani - quindi buddisti e induisti - e cinesi confuciani.
Il GIORNALE - Gian Micalessin : " Così il vecchio emiro del Qatar ha fiutato (in anticipo) la svolta "
Gian Micalessin, Sheikh Hamad bin Jassim bin Jaber Al Thani
A Doha era semplicemente Hbj. A Londra Hbj alias Sheikh Hamad bin Jassim bin Jaber Al Thani - era lo sceicco capace di comprarsi i grandi magazzini Harrods, mettersi in tasca le quote del London Stock Exchange e finanziare la costruzione dello Shard, il palazzo più alto d’Europa. Ma non solo. Grazie alle sue politiche spregiudicate- quello sceicco seduto da anni sulle poltrone di premier e di ministro degli Esteri del Qatar - aveva trasformato il piccolo emirato in una potenza. Una potenza in grado, grazie ai miliardi della Qatar Investment Authority- di comprare la squadra del Paris Saint Germain, acquisire quote in Volkswagen e Porsche, fornire armi ai ribelli siriani, far cadere Gheddafi e tenere in piedi la disastrata economia egiziana. Guarda caso il potere di Hbj si è eclissato solo pochi giorni prima della caduta di Morsi. Il 25 giugno scorso- dopo aver annunciato l’abdicazione a favore del figlio 33enne Sheikh Tamim- l’emiro del Qatar Hamad bin Khalifa Al Thani ha provveduto a sostituire anche l’intoccabile Hbj. La rimozione di quell’uomo chiave sembra destinata a cambiare anche l’aggressiva politica dell’emirato. Giovedì il nuovo emiro Sheikh Bin Ahmal Al Thani non si è fatto problemi a felicitarsi con Adly Mansour, il capo della corte costituzionale egiziana nominato presidente dai militari golpisti. Il telegramma di cortesia non è stato solo un gesto di «real politik ». Il colpo di mano dell’esercito egiziano e la caduta di Morsi sono stati agevolati, probabilmente, anche dall’allontanamento di Hbj. Un allontanamento non facile. Anzi così complesso da aver costretto l’emiro 61enne a sacrificare se stesso per permettere il cambio ai vertici dell’esecutivo e della politica estera. Del resto l’emiro Hamad Bin Khalifa e il cugino Hamad Bin Jassim erano i due volti del Qatar. Se Bin Khalifa era il sovrano illuminato, Hbj ne era il grande stratega. La sua nomina a ministro degli Esteri risaliva al 1992, quella a premier al 1997. Pensare di passare lo scettro ad un inesperto figlio 33enne lasciando tanto potere nelle mani del navigato Hbj non era possibile. Anche perché grazie al titolo di amministratore delegato del «Qatar Investment Authority» Hbj era il controllore delle ricchezze del paese. Proprio per questo era uno dei pochi in grado di garantire la sopravvivenza economica di Morsi. Grazie alla benevolenza di Hbj, grande padrino della rinascita dei Fratelli musulmani, il presidente egiziano aveva potuto contare su finanziamenti per circa 7 miliardi di dollari. Finanziamenti che avevano permesso di far fronte alla crisi generata dalle inadeguate politiche dell’esecutivo islamista. Ma quei miliardi gettati nelle sgangherate casse egiziane non erano il principale dei problemi. La contraddizione più stridente generata dalla gestione di Hbj era l’imbarazzante contrasto tra le due immagini del Qatar. Da una parte quella aperta e riformatrice offerta da un emirato presente su tutti mercati finanziari e pronto ad ospitare la Coppa del Mondo di calcio del 2022. Dall’altra quella oscura e inquietante ispirata da un regime pronto ad appoggiare il fondamentalismo in Tunisia, Libia, Egitto e Siria. «Le armi- ripeteva Hbj- sono probabilmente l’unica via per raggiungere la pace in Siria». Ma come avevano incominciato a far notare gli «amici» di Washington, Parigi e Londra le armi pagate con gli assegni firmati da Hbj finivano troppo spesso negli arsenali dei ribelli siriani più vicini ad Al Qaida.
La STAMPA - Francesca Paci : " Con l’Islam non si tratta. Fa bene Assad a sparare "
Francesca Paci
Primo pomeriggio, sede scalcinata del movimento Tamarod. Tra i pacchi di petizioni contro il presidente Morsi, che continuano ad arrivare nonostante lui sia stato destituito, passeggia un gattino macilento con un topo in bocca. La tv mostra le immagini dei sostenitori dei Fratelli Musulmani che si radunano a Nasr City per il venerdì della rabbia islamica.
«Basta guardarli per capire che sono solo capaci a incitare alla guerra civile, bisogna ammettere che Assad ha proprio ragione» ragiona l’informatico 26enne Hassan Harb accendendo la ventesima sigaretta. Assad cioè il presidente Bashar Assad, quello contro cui due anni e mezzo fa i ragazzi siriani si sono ribellati sognando piazza Tahrir? «La nostra situazione era ed è diversa dalla loro, l’opposizione lì è dominata dai Fratelli Musulmani e se Damasco non li schiaccia al più presto distruggeranno la Siria anche perché sono appoggiati dagli Stati Uniti assai più consistentemente che qui in Egitto» interviene il compagno Basel Awad, consulente finanziario, 30 anni. Sul tavolo ci sono thermos del caffè, accendini, cellulari in carica, il laptop acceso sulla pagina Facebook da cui un gruppo di attivisti tunisini chiede consigli su come «importare» l’idea di Tamarod per liberarsi dei propri Fratelli Musulmani.
C’è stato un momento, all’inizio del 2011, in cui è sembrato che i popoli arabi si sollevassero coralmente uno dopo l’altro contro i propri dittatori accantonando le differenze geografiche, culturali e perfino religiose che ne avevano fatto fino a quel punto un mosaico di particolarismi incapaci perfino di comunicare con il medesimo idioma. Allora anche i Fratelli Musulmani erano parte della grande primavera fiorente e guai a obiettare, a Tahrir come nella tunisina avenue Bourguiba o tra gli sparuti e coraggiosi ribelli siriani, che gli islamisti avevano un’agenda propria non esattamente coincidente con quella dei liberal, dei democratici, dei religiosi non fanatici.
«Assad è un bastardo, non ci sono dubbi su questo, e pagherà per i suoi crimini» afferma il giovanissimo avvocato Hesham Osman prima di un silenzio significativo. Poi arriva il però: «Però con l’islam non è possibile nessuna libertà. Adesso faccio il tifo per Assad perché li sconfigga come abbiamo fatto qui e poi toccherà anche a lui». Inutile argomentare che in Egitto l’esercito è dalla parte della gente al punto da giustificare il colpo di stato con il consenso popolare mentre in Siria i carri armati gli sparano addosso. In fondo, confida una fonte militare egiziana, anche i soldati che oggi arrestano i Fratelli al Cairo nel nome della rivoluzione simpatizzano e tanto con il presidente siriano.
Hassan è sciita, lo dichiara per spiegare il proprio viscerale sostegno a Damasco. Basel ed Hesham no, ma condividono con lui i falafel appena portati dall’amico Nabil e l’analisi su quanto sta accadendo dall’altra parte del mediterraneo.
Basel prende carta e penna e disegna una specie di schema, gli obiettivi primari e secondari della rivoluzione: «L’opposizione siriana, che ha iniziato legittimamente e pacificamente a chiedere democrazia, ha commesso un errore decisivo quando dopo due settimane di protesta ha chiesto alla Russia e all’Iran di togliere le loro grinfie dal Paese, sarebbe stato come se noi il 25 gennaio 2011 avessimo attaccato l’America: è ovvio che il nostro esercito anziché sostenerci ci avrebbe sparato addosso per difendere i propri interessi». Nabil distribuisce tovagliolini di carta e annuisce. I militari sono gli eroi del momento e nessuno è disposto a metterne in discussione l’operato neppure quando si tratta dell’alleanza con gli Stati Uniti.
«Lo so che fare il tifo per Assad è contraddittorio da parte mia» ammette Hesham. Ma la contrapposizione con i Fratelli Musulmani è ormai più forte di qualsiasi ragionamento: loro sono i nemici di Tahrir e chi li combatte è un amico, indipendentemente da quanto sia mai stato davvero amico dei sogni di Tahrir.
La REPUBBLICA - Renzo Guolo : " Il rischio contagio, incubo dell’Occidente"
Renzo Guolo
La forzata fine del governo della Fratellanza Musulmana in Egitto costituisce una drammatica cesura nel processo in corso nel mondo della Mezzaluna. Il golpe in riva al Nilo avrà riflessi nell’intera regione. Le transizioni arabe si erano rette sin qui sul patto tra gli Stati Uniti e la Fratellanza. Washington aveva fatto cadere il veto nei confronti delle forze islamiste che contavano sul consenso popolare, purché garantissero “affidabilità sistemica”. Ovvero rinunciassero a mettere in discussione alleanze e trattati, in particolare quello con Israele, e facessero muro contro il terrorismo qaedista. Il colpo di stato egiziano scrive, di fatto, la parola fine su quel patto. Dopo il 3 luglio, con la leadership politica e religiosa della Fratellanza egiziana agli arresti come ai tempi di Nasser e Mubarak, difficilmente quella convergenza potrà riproporsi. Da qui i timori della Casa Bianca, per le ripercussioni delle vicende egiziane nell’intera regione. Se gli oppositori di Morsi imputavano a Obama di non mettere alle strette il presidente deposto, saranno ora gli islamisti a imputare agli Usa la loro immobilità. Il golpe risolve, apparentemente, il problema egiziano ma ne apre altri. A cominciare dalla Siria, dove la Fratellanza locale, molto meno malleabile di quella messa fuori gioco all’ombra delle Piramidi, è impegnata nella lotta al regime di Assad e, per proprietà transitiva, all’Iran e Hezbollah. Non è un caso che proprio Assad, con il quale l’Egitto di Morsi aveva definitivamente tagliato i ponti settimane fa, abbia esultato all’annuncio del generale Al Sissi. Se la Fratellanza non può governare l’Egitto, perché mai potrebbe farlo in Siria? La deposizione di Morsi si riverbera anche sulla Tunisia, dove Ennhada, altra formazione di filiera “FM”, rischia di essere travolta dall’accusa di incapacità di guidare una società plasmata dal nazionalismo laico. E su Hamas, costola palestinese del movimento, che timoroso di veder nuovamente chiudersi la gabbia di Gaza al confine occidentale, potrebbe riprendere i rapporti con l’Iran, sopiti dopo l’ascesa di Morsi. Subisce un duro colpo anche la Turchia di Erdogan, per il quale ogni tintinnare di rumore di sciabole, o peggio, un più deciso clangore di cingoli nelle strade, evoca il fantasma del passati colpi di stato contro i partiti islamisti progenitori dell’Akp. La rivolta laica e anti-autoritaria di Taksim è pur sempre un campanello d’allarme. Nella competizione per l’egemonia tra i paesi del Golfo, arretra il Qatar, che con i Fratelli aveva relazioni solide, contrariamente ai sauditi che, freddi nei confronti degli antichi rivali per il controllo del campo politico e religioso sunnita, avevano blandito forze di matrice salafita. Ma l’esito più drammatico del paesaggio dopo la battaglia egiziano, rinvia alla questione della democrazia e del jihad. I Fratelli che avevano accettato dopo un lungo dibattito l’idea del consenso elettorale come via per governare: dovranno fare ora i conti con il canto delle sirene salafite e le loro tesi sull’impossibilità per forze islamiste di credere nella democrazia. Resisterà la Fratellanza, che pure afferma di non riconoscere il regime nato dal golpe ma non per questo vi si opporrà con la violenza, alla spinta centrifuga di questi gruppi, convinti dell’impossibilità di aderire a un sistema politico intriso di cultura occidentale e teorici del jihad come fattore di violenza fondativa? O subirà un’emorragia a favore dei gruppi più radicali? La pesante battuta d’arresto dell’islam neo-tradizionalista annuncia, una stagione di nuovi equilibri e, forse, vecchie scelte, Lo si vedrà chiaramente nei prossimi mesi.
Il FOGLIO - Carlo Panella : " Miraggi occidentali "
Roma. In Egitto, i miraggi abbacinano solo quando si penetra nelle sabbie del Sahara. In occidente, invece, i miraggi abbacinano gli analisti al solo sentir nominare l’Egitto. Ne è esempio, illustre e non ultimo, l’ottimo Sergio Romano che, da par suo, illustra sul Corriere della Sera uno dei punti focali che da sessant’anni portano Stati Uniti ed Europa a sbagliare analisi sulla natura dei generali egiziani. Il punto forte della tesi di Romano è che Gamal Abdel Nasser e i suoi successori (sino al generale Fattah al Sisi, nasseriano convinto), così come gli altri generali-dittatori arabi (Hafez el Assad, Saddam Hussein, Muammar Gheddafi) siano stati e siano dei “modernizzatori”, seguaci di una “via militare al progresso”, sulla traccia del turco Kemal Atatürk. Un miraggio. Al Sisi è invece l’ultimo campione del parassitismo militare che succhia la linfa dell’Egitto, per nulla laico (se non nell’abbigliamento) e prono all’islam più retrivo. Non è affatto un discendente di Voltaire (mentre Atatürk, e i Giovani Turchi, avevano rivendicate ascendenze massoniche), ma è la reincarnazione in vesti moderne dei mamelucchi, la casta parassitaria di militari che dominò l’Egitto sino all’invasione del Bonaparte, per nulla interessati al “progresso” e ancor meno alla “modernizzazione” (se non dei loro armamenti). Nasser non modernizzò mai l’Egitto, ma addirittura distrusse il non esiguo e moderno tessuto industriale che si era formato dopo il 1919. Nazionalizzò tutte le aziende di proprietà straniera (centinaia gli imprenditori italiani espropriati) e costruì quella che Anouar Abdel-Malek definì “la società militare”, che ha distrutto l’economia egiziana (nonostante l’impatto dell’unica opera “socialista” portata a termine: la diga d’Assuan). La distruzione del tessuto industriale del paese ebbe grandi conseguenze politiche: sbriciolò infatti la base sociale del grande partito nazional-liberale Wafd, che aveva governato dal 1921 e gonfiò a dismisura il numero dei dipendenti pubblici. Oggi il 70 per cento dei lavoratori è dipendente statale, spesso di aziende delle Forze armate, grande riserva di consenso. Da qui la scomparsa dei partiti laici e le loro enormi difficoltà odierne. In sintesi, il “socialismo” nasseriano affidò la proprietà delle aziende nazionalizzate non allo stato, ma ai generali. Il tutto per perseguire il fine supremo, secondo il modello hitleriano, della “guerra per distruggere Israele”. Il riferimento al nazismo non è strumentale: Nasser e Sadat, nel 1941, già “camicie verdi” paranaziste, fallirono un putsch alle spalle del maresciallo Montgomery per favorire la vittoria di Rommel a el Alamein. La loro ideologia (come quella dei baathisti Hafez el Assad e Saddam Hussein) si formò sui testi nazisti, come denunciò nel 1956 il premier socialista francese Guy Mollet: “Il libro di Nasser ‘La filosofia della Rivoluzione’ è peggio del ‘Mein Kampf!’”. All’opposto, Atatürk e i suoi successori, dal 1939 al 1945 si sottrassero al ricatto hitleriano, scelsero la neutralità, per allearsi poi alle nazioni democratiche nella Nato (riconoscendo Israele, peraltro) e sin dagli anni Trenta optarono per il libero mercato, base dello straordinario sviluppo economico di oggi. Nasser, nel 1967, invece di Israele, portò alla distruzione l’Egitto, che sopravvisse poi solo grazie ad Anwar el Sadat che non intaccò il potere economico dei generali mamelucchi, ma liberalizzò timidamente l’economia (il gruppo Orascom della famiglia copta Sawiris è oggi tra i più vivaci del Mediterraneo) e nel 1973 attaccò Israele non per distruggerlo, ma per siglare nel 1979 il reciproco riconoscimento. Da allora i generali egiziani ricevono dagli Stati Uniti 1,5 miliardi di dollari l’anno “per non fare la guerra”, il che rafforza il loro ruolo di casta parassitaria. Assassinato Sadat dagli antesignani di al Qaida, Mubarak ha governato inerzialmente, senza mai intaccare il potere della casta dei generali, “padrona” del 30 o 40 per cento dell’Egitto, nemica di ogni liberalizzazione e fonte primaria della corruzione che divora il paese. Non solo, Mubarak ha proseguito l’islamizzazione delle leggi in un Egitto che mai Nasser volle laico (mantenne il ripudio, la poligamia e la condanna penale dell’apostasia), con una Costituzione che dal 1980 riconosce nella sharia “la” fonte di ispirazione delle leggi (la laicità del nasserismo è uno dei tanti miraggi egiziani dell’occidente). Queste sono le radici e i parametri di riferimento di al Sisi, il generale mamelucco, con moglie in niqab, il velo integrale, a cui piazza Tahrir affida ora la sua forza acefala.
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