Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 05/07/2013, a pag. 1-4, l'articolo di Sergio Romano dal titolo " Corano e colonnelli, l'eterna tentazione ", a pag. 3, l'intervista di Cecilia Zecchinelli ad Ahmad Mourad dal titolo " Il bacio della piazza ai militari? Meglio loro della piovra islamica ".
Ecco i pezzi:
Sergio Romano - " Corano e colonnelli, l'eterna tentazione "
Sergio Romano
La storia del ruolo dei militari nelle vicende del mondo arabo-musulmano comincia in Egitto agli inizi dell'Ottocento, dopo la spedizione di Bonaparte, ma è anzitutto una storia ottomana.
Nel corpo di spedizione albanese, inviato al Cairo da Costantinopoli
per rimettere ordine in una provincia troppo precipitosamente abbandonata dalle truppe francesi, vi era un giovane ufficiale, Mehmet Ali, spregiudicato e ambizioso. Si sbarazzò dei mamelucchi (una oligarchia militare che controllava il Paese in nome del Sultano), ottenne dall’Impero una sorta d’investitura, creò una dinastia e avviò la modernizzazione del Paese ricorrendo a tecnici, istruttori e amministratori europei.
Viene scritta così la prima legge fondamentale dello Stato arabo in epoca moderna: il ceto sociale più adatto alla sua modernizzazione è quello dei militari. Hanno constatato, a loro spese, la potenza degli eserciti europei. Si sono familiarizzati con le loro armi. Hanno frequentato le loro scuole. Hanno potuto misurare la distanza che separa le società arabe dalle società occidentali. Hanno capito che la religione è una componente essenziale dell’identità nazionale, ma può essere un ingombrante ostacolo sulla strada della modernità. Hanno un personale interesse all’esercizio del potere e possono governare, nella migliore delle ipotesi, a vantaggio della nazione.
Questa «via militare al progresso» diventa ancora più rigorosa ed efficace quando l’azione si sposta nel cuore europeo dell’impero (Costantinopoli, Salonicco, Smirne) e ha nuovi protagonisti nella persona dei giovani ufficiali che escono dalle accademie militari alla fine dell’Ottocento. Hanno studiato all’estero, hanno fatto un apprendistato diplomatico nelle ambasciate ottomane, hanno combattuto contro gli italiani in Libia, contro i greci, i bulgari, i serbi e i montenegrini nelle guerre balcaniche, hanno assistito con grande amarezza e forti sentimenti di umiliazione al declino dell’Impero. Il loro modello militare è la Germania di Guglielmo II, con cui la Turchia ha ormai una solida alleanza. Il loro modello civile, anche se adattato alle condizioni locali, è quello democratico diffuso dalle logge massoniche soprattutto là dove esiste una maggiore influenza francese. Il nome con cui desiderano essere chiamati è quello di «giovani turchi». Quando Winston Churchill, allora primo Lord dell’Ammiragliato, decide nel gennaio del 1915, pochi mesi dopo lo scoppio della Grande guerra, di colpire la Turchia a Gallipoli con lo sbarco di un corpo composto da truppe del Commonwealth, uno di essi coglie gli invasori di sorpresa e rovescia le sorti della battaglia. Si chiama Mustafà Kemal, ha 34 anni, è colonnello.
Mustafà Kemal, Atatürk
Qualche anno dopo, mentre le flotte dei Paesi vincitori gettano l’ancora nel Bosforo e l’Italia prende possesso del vecchio palazzo dei veneziani sulla collina di Galata, Kemal accetta la perdita delle province arabe, ma rivendica il cuore anatolico dell’Impero, prende la guida dell’esercito, batte i greci, depone il Sultano Maometto VI, proclama la fine del Califfato, sposta la capitale ad Ankara e crea la Repubblica turca: uno Stato laico che bandisce il fez e il velo, dà il voto alle donne, instaura l’alfabeto latino, adotta codici ispirati dalle legislazioni occidentali. E’ una dittatura, ma infinitamente più democratica, nella sostanza, degli Stati che sorgono contemporaneamente, sotto la protezione delle potenze coloniali, nelle vecchie province arabe dell’Impero ottomano.
Quando muore nel 1938, Kemal «il Padre dei turchi» (Atatürk è il nome adottato dopo la guerra della riconquista), lascia in eredità ai suoi successori uno Stato in cui le forze armate sono i custodi della laicità, i supremi protettori dell’identità nazionale. Verso questo Stato le classi dirigenti arabe hanno un duplice atteggiamento. E’ il vecchio padrone di cui è bene diffidare, ma è il solo, nella regione, che abbia la dignità dell’indipendenza, istituzioni efficaci, un rispettabile status internazionale. Da quel momento non vi è rivolta, rivoluzione o spinta al rinnovamento, nel mondo arabo, che non prenda corpo negli ambienti militari e non sia tacitamente ispirata dal mito inconfessato del grande Kemal. Sono «nipoti» di Atatürk quasi tutti i leader arabi della regione: il general Neguib e il colonnello Nasser in Egitto, il generale Abdul Karim Kassem in Iraq, il generale dell’aeronautica Hafez Al Assad in Siria, il colonnello Gheddafi in Libia, il generale Sadat dopo la morte di Nasser e il generale Mubarak dopo la morte di Sadat. Anche nei Paesi in cui le maggiori cariche dello Stato sono talora occupate da personalità civili, come nel caso dell’Algeria, la spina dorsale dello Stato, nel bene e nel male, è rappresentata dalle forze armate.
Vi sono alcune eccezioni, naturalmente. In Marocco il generale Oufkir, anima dannata del regime, non riesce a conquistare il potere con un colpo di Stato e viene frettolosamente eliminato nel 1972. In Tunisia, dove la società ha sempre vissuto in simbiosi con il modello delle istituzioni francesi, la personalità carismatica di Habib Bourghiba conquista il consenso nazionale. Nel Paese più multiculturale delle regione, il Libano, l’esercito non riesce a imporre la propria autorità sulle milizie religiose: le falangi dei cristiani e il «partito di Dio» degli sciiti (Hezbollah). In Libia Gheddafi esce dalle file dell’esercito, ma ne diffida e preferisce una sorta di forza privata costituita dalle tribù fedeli. Complessivamente, tuttavia, l’esercito è il protagonista di qualsiasi rivolgimento e il futuro dittatore è molto spesso un colonnello perché il comando di un reggimento basta spesso per rovesciare un regime e conquistare il potere.
Naturalmente l’autorità dell’esercito dipende in buona misura dalla storia del Paese e dal ruolo delle forze armate nelle vicende cruciali della storia nazionale. In Algeria è forte perché può rivendicare la vittoria contro la Francia nella lunga guerra per l’indipendenza e quella contro le formazioni combattenti del Fronte islamico della salvezza durante il lungo conflitto civile degli anni Novanta. In Egitto Nasser ha combattuto contro gli israeliani nel 1948 e la sua presidenza è sopravvissuta alla spedizione anglo-francese di Suez nel 1956. Ma ha perduto la «guerra dei sei giorni» nel 1967. Sadat può vantare qualche successo nella fase iniziale della guerra del Kippur e Mubarak, negli stessi giorni, è protagonista di una fortunata operazione sul canale di Suez. Il siriano Assad ha perduto nel 1967 le alture del Golan, ma ha curato le forze armate come un gioiello di famiglia collocando i suoi fedeli alawiti nelle posizioni di comando e riempiendo i propri arsenali con armi importate dall’Urss, dai suoi satelliti e, più recentemente, dalla Russia e dall’Iran.
Hosni Mubarak con Anwar al Sadat
Tra l’esercito turco e quelli dei Paesi arabi esiste tuttavia una importante differenza. Il primo ha mandato un primo ministro sulla forca (Asnan Menderes nel 1961) e ha brutalmente destituito, sino all’avvento al potere dell’Akp (il partito di Erdogan), tutti i governi costituiti da forze politiche islamiche. Ma ha conservato, a dispetto delle accuse di Erdogan, il senso della propria missione laica e repubblicana. Quelli dei Paesi arabi, invece, hanno una irresistibile tendenza a divenire casta militare, corpi separati, «regioni autonome» che difendono i loro interessi corporativi, gestiscono una parte dell’economia nazionale e lasciano vivere senza troppi scrupoli tutti coloro che non attentano alle loro prerogative. Quando ha abolito il secondo turno delle elezioni del 1991 e ha duramente combattuto gli islamisti, l’esercito algerino difendeva il potere che aveva conquistato per se stesso.
All’esercito egiziano, in particolare, occorre riconoscere una considerevole dose di scaltrezza e prudenza. Ha concluso un patto con gli Stati Uniti: un miliardo di dollari all’anno per tenere d’occhio Hamas nella striscia di Gaza e ed evitare, per quanto possibile, un altro conflitto arabo-israeliano. Ha coperto le spalle di Mubarak sino al giorno in cui ha capito che rischiava di condividerne la sorte. Ha convissuto con la Fratellanza musulmana sino al giorno in cui l’inettitudine della presidenza Morsi cominciava a rappresentare rischio per la conservazione del proprio status e la salvaguardia dei propri interessi. Vi è molta saggezza orientale in questa politica, ma anche cinismo, opportunismo e una certa tendenza a navigare, giorno dopo giorno, nel senso delle correnti.
Non credo che le altre forze armate della regione, a questo punto, diano migliori garanzie e offrano migliori prospettive. In Algeria la malattia del presidente Bouteflika annuncia una transizione che potrebbe mettere a dura prova la stabilità del regime. In Tunisia l’esercito deve combattere i salafiti e le formazioni ispirate da Al Qaeda soprattutto lungo i confini sud-occidentali del Paese. Ma i salafiti non sono soltanto il nemico visibile, asserragliato nelle sue trincee. Sono anche nascosti nel fronte interno e sembrano in grado di esercitare qualche influenza su Ennahda, incarnazione tunisina della Fratellanza musulmana.
In Libia esistono solo milizie, abbastanza forti per impedire che il Paese abbia un governo stabile, troppo deboli e numerose perché una di esse possa prevalere sulle altre e creare un nuovo Stato. In Libano l’esercito è una istituzione seria e rispettabile, ma troppo fragile per disarmare Hezbollah, garantire l’ordine pubblico, la pace civile e l’indipendenza. In Siria l’esercito combatte una guerra civile, difende Assad e se stesso contro una parte della società, non può essere la forza armata della nazione. In Iraq l’esercito è stato distrutto dal primo proconsole americano e molti di coloro che hanno smesso l’uniforme sono ora impegnati in una guerra civile contro gli sciiti che potrebbe rivelarsi non meno sanguinosa, alla fine, di quella siriana. E tutto questo accade purtroppo mentre la Turchia non è più, come negli scorsi anni, il Paese che sembrava in grado di conciliare la laicità, la fedeltà alle tradizioni e il dinamismo economico. In queste condizioni non è facile ragionare sul ruolo dell’Europa e degli Stati Uniti nella regione. Gli Stati che zono di fronte a noi sull’altra sponda del Mediterraneo sono alla ricerca di nuove rotte, nuove bussole, nuovi timonieri. Potremo essere utili al loro futuro soltanto quando li avranno trovati.
Cecilia Zecchinelli - " Il bacio della piazza ai militari? Meglio loro della piovra islamica "
Ahmad Mourad Cecilia Zecchinelli
IL CAIRO — «Siamo un popolo caldo, sentimentale e in fondo infantile. Che ride o che piange per una partita di calcio, figuriamoci per un avvenimento come la fine dell’incubo di quest’ultimo anno», dice Ahmad Mourad guardando una foto scattata mercoledì notte dopo la deposizione del raìs islamico. Due uomini che baciano e abbracciano un soldato, sprizzando felicità. «Io reportage così non ne faccio, ci pensano gli altri. Lavoro come fotografo ufficiale della presidenza egiziana, dieci anni con Mubarak, poi un anno con Morsi, da sabato sarò con il raìs ad interim», continua Ahmad, 35 anni, sposato e due figlie, un sorriso timido dietro gli occhiali nonostante il successo. Perché oltre a quel lavoro dietro le quinte, dal 2007 è anche scrittore di thriller ambientati al Cairo. Il primo, Vertigo , è già alla 12esima edizione qui, tradotto in varie lingue compresa la nostra per Marsilio. Il secondo, Polvere di diamanti , è del 2010, uscito da pochi giorni in Italia per lo stesso editore. Libri che parlano di corruzione e abusi, di politici e tycoon, di polizia e militari.
I militari, appunto: oggi sono baciati e abbracciati, ma non è sempre stato così. Solo un anno fa erano i nemici. Che succede agli egiziani dal cuore tenero, li hanno già perdonati?
«Abbiamo sempre amato i nostri militari, sono figli del popolo, strumento del sistema che li comanda dall’alto ma con dignità e rettitudine. E a differenza della polizia, che nell’ultimo decennio Mubarak usò come braccio violento mentre indeboliva l’esercito, i soldati non attaccavano il popolo, anzi nella Rivoluzione erano al suo fianco, la gente offriva loro fiori e si fotografava sui carri armati. Poi è cambiato, è vero, durante la lunga reggenza dei generali ci siamo sentiti traditi, eravamo furiosi. Pensavamo che il loro capo Tantawi volesse usurpare il potere e l’esercito in alcune occasioni passò alle violenze. Ma ora è passato, Morsi è riuscito a riunire il popolo e l’esercito, perfino la polizia è riabilitata».
Eppure Mubarak era un militare, come può dire che era amato?
«Più che Mubarak, era il suo regime corrotto e violento ad essere odiato, contro di lui umanamente non c’era tutto quell’astio, anche se la gente ormai voleva cacciarlo. Forse perché da 60 anni avevamo raìs militari o per infantilismo, il presidente è sempre stato visto qui come un padre. Amatissimo come fu solo Nasser, ma comunque rispettato nei casi di Sadat e di Mubarak all’inizio. Dalla prima Rivoluzione, questa per me è la seconda, siamo però cresciuti. Ora è diverso».
Al Sisi, però, è visto come un eroe. Eppure è lui al comando .
«E’ un eroe perché ha osato affrontare la piovra della Fratellanza, potente e pericolosa, veri serpenti. Gli si riconosce il coraggio e l’abilità, c’è riconoscenza perché ci ha tirato fuori da un buco nero. Ma sono certo che non vuole il potere politico, è troppo intelligente. Se lo facesse scenderemmo di nuovo in piazza. Questo non è un golpe, domenica ero anch’io nelle strade con tutto l’Egitto. Il sabato prima è stato il mio ultimo giorno di lavoro per Morsi, tra l’altro. A volte mi sento un po’ Dottor Jekyll e Mister Hide».
Morsi dove ha fallito?
«Morsi era solo un pupazzo usato e manovrato dalla gang della Fratellanza, non ha mai deciso niente, nemmeno di candidarsi. E la Fratellanza, a differenza dell’esercito, non pensa al Paese ma solo a se stessa. Si considera un’élite superiore: da una parte loro, i santi, i veri musulmani, dall’altra tutti gli altri. Ha un’idea vecchia e sbagliata di Islam, avrebbe imposto una dittatura religiosa che nessuno qui vuole».
Questo lo ha capito anche lavorando con Morsi?
«No, leggendo e studiando, seguendo gli eventi. Da Morsi non traspariva niente. Pregava, obbediva ai suoi capi, quasi non parlava. Anche fotografarlo non era facile, mai un sorriso, un linguaggio del corpo assente, rigido e inespressivo. Mubarak, che non rimpiango, almeno scherzava, sapeva stare con la gente. E poi era lui a decidere tutto nel bene e nel male. Morsi invece non era nessuno, nella storia di questo Paese è stato solo una virgola».
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