Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 04/07/2013, a pag. 1-3, l'articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo " Sulla piazza araba perde la democrazia ". Dal FOGLIO, in prima pagina, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Piazza araba contro piazza araba ", l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Obama sbaglia scommessa in Egitto ". Dalla STAMPA, a pag. 1-29, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " Le primavere fra ideali e libertà ".
Ecco i pezzi:
Il GIORNALE - Fiamma Nirenstein : " Sulla piazza araba perde la democrazia"
Fiamma Nirenstein
L'esercito ha dunque estratto Morsi dal palazzo, ha messo «sotto protezione» anche gli altri membri importanti della Fratellanza musulmana, ha occupato la comunicazione radiotelevisiva. Fa un effetto terribile vedere l’Egitto, culla, col grande Nilo, di una parte fondamentale dellaciviltà del genere umano il cui stereotipo è dentro ciascuno di noi, andare a pezzi. Perché proprio questo accade sotto i nostri occhi in queste ore, e nessuno si illuda: per ora non c’è in vista nessuna soluzione democratica. Le magnifiche sorti e progressive sono rimandate. L’esercito si farà da parte in favore del Consiglio popolare ad interim che ha annunciato, ma è chiaro che il governo di Morsi, più ancora che dalla folla rivoluzionaria, è stato spodestato dai generali, che hanno agito con senso di necessità per evitare stragi inutili. Tuttavia mentre le mayadin ( le piazze) ondeggiano d’odio e si scontrano, mentre l’esercito cerca di controllare la situazione, noi ci inventiamo una storia a lieto fine, con i buoni, cioè i laici, che prendono il potere e cacciano i cattivi, cioè Morsi e i suoi islamisti.
La vera storia, però, è quella di un fallimento ulteriore della democrazia elettiva, del rigetto popolare per un uomo mediocre che appena insediato ha prevalentemente lavorato per la sua organizzazione, i Fratelli musulmani, e ha sistemato i suoi in tutte le posizioni di rilievo, lasciando fuori chiunque altro. È la storia di un leader incapace che non ha mai detto la parola «tecnologia » od «occupazione» in un Paese in bancarotta per paura che si trasformasse in una lode della modernità e i suoi sceicchi sunniti lo biasimassero. Morsi ha risvegliato la lava di un odio che nel Paese ha sobbollito in mancanza di sfogo democratico, di stampa libera, di occupazione...
Nel 1952 un colpo di Stato militare cercò di metter fine a un ordine sovrano in cui regnava il nepotismo, e lasciò in eredità la dittatura. Le sue classi dirigenti erano e sono rimaste egoiste, mitomani come Nasser, incapaci di combattere la corruzione e l’impoverimento. L’Egitto, con Nasser, poi con Sadat ucciso dai suoi, poi con Mubarak esautorato da folla ed esercito, e ora con Morsi, un uomo grassoccio e di misera favella, ha sempre avuto come nemici interni tutti quelli che non fanno parte del privilegio del potere. Morsi è diventato in un anno lo spauracchio di metà dell’Egitto: ha avuto un momento di gloria quando il generale Tantawi abbandonò l’interregno post Mubarak, e lasciò a lui il potere conquistato con le elezioni, dando alla gente un’illusione di democrazia. Ma questa parola non funziona per l’Egitto. Il professor Bernard Lewis ha affermato che le elezioni non sono un punto di partenza, ma un punto di arrivo. Adesso, si scrive che gli islamisti sono stati democratici ma non liberali, ma che i liberali non sono democratici, tanto che stanno rovesciando un governo eletto. Di fatto, la stessa folla che ha rovesciato Mubarak e inneggiato a Morsi con le varie vite di Piazza Tahrir (i blogger con i blue jeans, il clerico sunnita Al Qaradawi che li sbatte fuori portandovi un milione di rivoluzionari islamisti, la violenza sessuale a una giornalista proprio in piazza) è di nuovo là contro Morsi, infuriata... Si è comportato come un delegato della Fratellanza, dice la folla, infischiandosene dell’Egitto. Ma le stesse due fazioni dei nazionalisti (ex Mubarak) e degli islamisti sono pronte a scontrarsi al loro interno, a conglomerarsi con altri gruppi. In piazza contro Morsi c’è anche il gruppo ultrareligioso Al Nour, sei ministri del suo governo compreso il ministro degli Esteri sono contro di lui, la polizia, da sempre violenta e corrotta, con i rivoluzionari, ha rimosso i blocchi di cemento davanti al palazzo presidenziale. È la scena dell’impossibile mosaico mediorientale che si forma e si disfa. Le due parti hanno in comune solo l’odio per Obama e il Mossad. La folla ruggiva ieri per le strade, a osservare la vicenda da Gerusalemme era commovente ascoltare per radio gli intervistati che in ebraico perfetto dichiaravano di voler vivere in un Paese normale. Mentre l’esercito,per l’ennesima volta, prende il posto del faraone che dovrà affrontare il grande Paese del Nilo, sperando nel favore degli dei.
www.fiammanirenstein.com
Il FOGLIO - Carlo Panella : " Piazza araba contro piazza araba "
Carlo Panella
Roma. I sedici morti della notte di martedì nei cortili dell’Università di al Azhar e nel quartiere popolare del sud del Cairo di Giza segnano una “svolta storica” nel mondo arabo. Sono ben più che i nuovi caduti del rivolgimento iniziato nel gennaio del 2011: sono le prime vittime del jihad tra piazza araba e piazza araba. Sono l’immediata, diretta conseguenza dell’irresponsabile appello al “martirio” della sua piazza lanciato lunedì da Mohamed el Beltagui, segretario generale del partito Libertà e giustizia, braccio politico dei Fratelli musulmani: “Il martirio per prevenire questo golpe è quello che possiamo offrire ai precedenti martiri della rivoluzione!”. I sostenitori di Morsi ormai scendono nelle piazze col copricapo bianco dei “martiri” sulla fronte e affrontano a pistolettate o a randellate l’altra piazza. Lo stesso Morsi ha solennemente promosso questo movimento di massa e lanciato la sua piazza di “martiri” contro i Tamarrod nell’irresponsabile discorso televisivo di martedì, in cui ha promesso: “La mia vita è il prezzo per preservare la legittimità del potere”. I Fratelli musulmani egiziani hanno dunque deciso di evolvere la figura del “martire” dello “shahid”, da kamikaze che si immola in un attentato, a massa di manifestanti che cerca la morte e si scaglia contro la piazza dei “ribelli”. Questa non è solo una scelta rischiosissima di Mohamed el Beltagui e Mohammed Morsi, ma il logico sviluppo della vittoria del veterinario Mohammed Badie, leader della componente più integralista del movimento, che il 16 gennaio 2010 si impose nella competizione per la leadership dell’organizzazione mondiale dei Fratelli musulmani. La vittoria del radicale Badie segnò una frattura rispetto all’ala riformista e dialogante con le altre forze politiche, capeggiata da Abdel Moneim Abul Fotouh, che uscì dalla Fratellanza, sfidò alle presidenziali Mohammed Morsi e prese un onorevole 17,8 per cento. Oggi Abul Fotouh, così come i partiti islamisti e salafiti al Nour e al Wasat e persino il partito islamista al Gamaa al Islamiya, che è parte del governo – per apparente paradosso – sono favorevoli a una discesa a patti con i Tamarrod e chiedono a Morsi di accettare la mediazione delle Forze armate. Ma evidentemente la Fratellanza musulmana ha deciso di portare alle estreme conseguenze il rifiuto opposto nei mesi scorsi a ogni ipotesi di mediazione con le altre forze politiche. Forte di un indiscutibile 52 per cento ottenuto da Morsi durante le elezioni presidenziali, la Fratellanza si fa scudo della difesa di una apparente correttezza istituzionale e democratica per imporre la sua concezione autoritaria e violenta della gestione del potere. Dalla difesa del risultato formale del voto alla chiamata al “martirio di massa” c’è un baratro, che è stato superato d’un balzo da tutti i dirigenti, spirituali e politici, del più grande movimento islamista del mondo. Emerge così l’essenza devastante dell’islam politico contemporaneo. Qualsiasi sia la soluzione della crisi, il veleno di questo appello al martirio di massa sarà d’ora in poi inestirpabile dalla vita politica egiziana e produrrà disastri. Dopo la normalizzazione seguente a quello che è pur sempre un putsch militare, sia pure gradito dai Tamarrod, seguirà una lunga fase in cui lo scontro tra la “piazza dei martiri” e quella dei Tamarrod sarà costante e sanguinoso. Né è possibile sperare che le Forze armate del maresciallo Abdel Fattah al Sisi siano in grado di disinnescare questa escalation. Durante i 18 mesi successivi alla caduta di Mubarak, il Consiglio supremo delle Forze armate comandato dal maresciallo Hussein al Tantawi (predecessore di al Sisi) ha dato ampia prova di inefficienza, lassismo, incapacità di governo. Quindicimila sono stati i civili portati in catene davanti ai tribunali militari, centinaia sono stati i manifestanti uccisi dalle forze di sicurezza a piazza Tahrir e altrove. E’ quindi facile prevedere che poco saprà fare al Sisi ogni volta che la piazza dei “martiri” si scaglierà contro i Tamarrod.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " Le primavere fra ideali e libertà "
Maurizio Molinari
Il rovesciamento del presidente egiziano Mohammed Morsi da parte di generali e opposizione lascia intendere che il vento della Primavera araba sta cambiando direzione. Fino ad ora a prevalere, nelle urne e nelle piazze, erano stati i partiti islamici capaci di esprimere la volontà della maggioranza delle popolazioni in rivolta contro despoti ed autocrati ma al Cairo a fallire è proprio questo modello: il patto fra i Fratelli Musulmani, vincitori delle elezioni politiche, e l’esercito, custode dell’identità nazionale, non ha funzionato. Nel 2011 furono l’Emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, e il presidente turco Recep Tayyp Erdogan, a spingere l’America di Barack Obama a condividere la previsione che sarebbero stati i «partiti islamici moderati» a prevalere nelle Primavere arabe.
È un approccio che ha spinto a guardare con occhio diverso, e maggiore attenzione, a partiti e fazioni fondamentaliste solo in ragione delle loro vittorie nelle urne. Ma la previsione di Al Thani ed Erdogan non si è avverata al Cairo. E questo è avvenuto non per un rifiuto ideologico dell’Islam né perché i Fratelli Musulmani hanno tentato di imporre a ritmi accelerati su una società in gran parte liberale e laica modelli culturali fondamentalisti. Il fallimento di Mohammed Morsi ha origine altrove: nell’incapacità del suo governo di dare risposte, veloci ed efficaci, alla crisi economica che sta devastando la più popolosa, antica e orgogliosa nazione del mondo arabo. Ironia della sorte vuole che un partito islamico come i Fratelli Musulmani, con la stessa vocazione per il sostegno alle fasce più povere della popolazione che accomuna Hamas a Gaza e gli Hezbollah in Libano, una volta arrivato a governare l’Egitto non sia riuscito ad evitare un aumento della povertà rispetto agli ultimi anni dell’autocrazia di Hosni Mubarak. Le esitazioni sulla trattativa con il Fondo monetario internazionale per la concessione dei prestiti, l’incapacità di evitare la fuga degli investimenti stranieri da una gestione instabile del governo, il crollo inarrestabile delle riserve valutarie, la carenza di protezione nelle strade testimoniata dalle frequenti aggressioni contro le donne e l’incapacità di impedire alle tribù beduine di spadroneggiare nel Sinai hanno trasformato i 29 mesi passati dalla caduta di Mubarak in un vortice di povertà e insicurezze che ha allontanato i turisti stranieri, polverizzato le risorse nazionali e accresciuto gli stenti di una nazione abituata a guidare il mondo arabo. E’ la desolazione delle piramidi egizie la cartina tornasole del peggioramento della crisi egiziana che ha messo in luce i gravi limiti dell’azione dei governi dei Fratelli Musulmani.
Generata in Tunisia nel gennaio 2011 da proteste alimentari, continuata contro Mubarak e Gheddafi nella richiesta di migliori condizioni di vita, esplosa in Siria in opposizione allo strapotere economico della famiglia degli Assad, la Primavera araba continua a nutrirsi della necessità di milioni di famiglie arabe di emanciparsi dalla povertà e dal sottosviluppo come dell’aspirazione ad una vita migliore da parte delle nuove generazioni. L’interrogativo che resta senza risposta riguarda quali saranno i leader e le forze, politiche o religiose, arabe e musulmane, capaci di rispondere a tali istanze facendo prevalere la necessità concreta di premiare i bisogni delle famiglie sulle opposte ideologie che continuano a combattersi da Tangeri a Hormuz.
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " Obama sbaglia scommessa in Egitto "
Daniele Raineri
Roma. Al momento in cui questo giornale va in stampa, il colpo di stato dei militari egiziani sta filando liscio. Dopo avere occupato la tv di stato nel palazzo di Maspero, sulla riva del Nilo, con un’ora di anticipo sulla scadenza dell’ultimatum – alle quattro e mezza di pomeriggio – per sorvegliare le trasmissioni, l’esercito sta presidiando con reparti scelti i punti chiave della capitale: i ponti, i luoghi dei sit-in del fronte popolare che appoggia il presidente deposto Mohammed Morsi, il palazzo presidenziale di Ittihadiya, “per proteggere la popolazione”, sostiene. Del rais che per un anno ha incarnato il sogno di potere dei Fratelli musulmani, sogno che durava da 85 anni e che ora si è infranto, non ci sono notizie. E’ stato messo su una lista di persone a cui è fatto divieto di espatrio, assieme agli altri pezzi grossi del movimento islamico, e ieri ha dichiarato così su Facebook: “Facciamo vedere ai nostri figli che i loro padri non sopportano l’ingiustizia”. Contro di lui, l’annuncio della “road map” è stato affidato al rettore di al Azhar, alta autorità del mondo islamico, al Papa della Chiesa copta e a Mohamed ElBaradei, portavoce dell’opposizione: la combinazione è abbastanza buona da dare una parvenza di legittimità alla decisione dei generali. Il golpe militare annunciato arriva al culmine di un paradosso inestricabile. Il partito degli islamisti che perseguita giornalisti e ong e vuole imporre un programma morale al paese si difende in nome del suo diritto a governare, conquistato nelle urne con i voti. La sua shareya, legittimità, come ha ripetuto 57 volte nel suo discorso di 45 minuti ieri notte il presidente, parlando male e a braccio e di fatto sfidando l’ultimatum dei militari. Dall’altra parte la piazza, stanca delle astrazioni conservatrici dei Fratelli, preoccupata dalla svolta illiberale e stremata dalle pessime condizioni dell’economia: quelli pensano a proibire le lezioni d’inglese nelle scuole e noi soffriamo blackout, inflazione e code ai distributori di benzina, è la lamentela tipica della strada. La protesta è stata agganciata subito dai generali, che sono intervenuti con l’ultimatum. Il risultato è che “i carri armati liberali occupano le strade per un golpe liberale”, come ironizzano alcuni islamisti, descrivendo in effetti la realtà. Ieri il dipartimento di stato americano ha rifiutato di definire “colpo di stato” quanto sta accadendo in Egitto e ha ribadito di considerare Morsi il legittimo presidente: è una questione semantica con conseguenze importanti, perché se riconoscesse il golpe Washington dovrebbe interrompere gli aiuti militari giganteschi – un miliardo e trecento milioni di dollari ogni anno – che le assicurano un qualche tipo di leva sull’Egitto. Come fece invece in Mauritania nel 2008. Il cambio di potere al Cairo è un colpo per l’Amministrazione Obama, che nel giro di due anni è riuscita nel miracolo negativo di essere sempre dalla parte sbagliata, pur facendo giravolte pragmatiche: alleata prima di Hosni Mubarak e poi dei suoi nemici, i Fratelli musulmani. Entrambe le parti sono state sconfitte dalla piazza, che infatti ora è densa di sentimenti antiamericani. “Fuck Patterson!”, dicevano alcuni cartelli in mezzo alla folla, dedicati all’ambasciatrice Anne Patterson. Lei è una diplomatica esperta – prima dell’Egitto è stata ambasciatrice in un paese ancora più difficile, il Pakistan – ma ha commesso l’errore di tessere un’alleanza funzionale con i Fratelli musulmani. Il mese scorso si è incontrata con Khaiter al Shater, il ricchissimo businessman dei Fratelli, “e non in ambasciata, è andata nell’ufficio di lui” si lamentano in piazza, a sottolineare il sospetto di complotto. Più di tutto, bruciano le parole con cui Patterson ha dismesso queste proteste di piazza, sbagliando spettacolarmente la previsione. “Il mio governo e io siamo profondamente scettici su queste manifestazioni e non crediamo che raggiungeranno il loro scopo”. Al contrario di altri ambasciatori americani nei paesi arabi, Patterson ha accesso immediato ai livelli più alti dell’Amministrazione, e proprio per la sua esperienza in Pakistan aveva tentato l’accordo con il gruppo islamista. Una scommessa sbagliata che ora l’America pagherà.
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