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Il Foglio - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
03.07.2013 Egitto: oggi scade l'ultimatum dell'esercito a Mohamed Morsi
cronache e commenti di Carlo Panella, Daniele Raineri, Pio Pompa, Cecilia Zecchinelli, Mohamed el Baradei

Testata:Il Foglio - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Carlo Panella - Daniele Raineri - Pio Pompa - Cecilia Zecchinelli - Mohamed El Baradei
Titolo: «Mahmoud, leader gentile. E la rivolta nata in un caffè - Se Egitto e Turchia si destabilizzano a vincere sono l’Iran e Assad - Con la sharia non si mangia»

Riportiamo da FOGLIO di oggi, 03/07/2013, a pag. 1-4, l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " Ecco la road map dei generali per sloggiare i Fratelli musulmani ", l'articolo di Carlo Panella dal titolo " La Fratellanza rotta ", a pag. 2, l'articolo di Pio Pompa dal titolo " Se Egitto e Turchia si destabilizzano a vincere sono l’Iran e Assad ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 2, l'articolo di Cecilia Zecchinelli dal titolo " Mahmoud, leader gentile. E la rivolta nata in un caffè ". Da REPUBBLICA, a pag. 1-9, l'articolo di Mohamed El Baradei dal titolo " Con la sharia non si mangia ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

Il FOGLIO - Carlo Panella : " La Fratellanza rotta "


Carlo Panella              Fratelli Musulmani

Roma. Lo spettro  del ’91 di Algeri aleggia sul Cairo. Il rifiuto di Mohammed Morsi di appoggiare il fermo appello delle Forze armate di formare entro oggi un governo di unità nazionale e di indire nuove elezioni, per “venire incontro alle richieste del popolo”, apre infatti in Egitto uno scenario da guerra civile. Lo conferma l’irresponsabile “appello al martirio per prevenire il golpe” lanciato ieri da Mohamed el Beltagui, segretario del partito politico dei Fratelli musulmani. Qualunque sia l’esito del braccio di ferro tra il movimento dei Tamarrod, e il presidente Mohammed Morsi, mediato – pare inutilmente – dal maresciallo al Sisi, è già comunque chiaro che il rifiuto prolungato alla mediazione del presidente legittima la grande platea egiziana che si identifica con gli islamisti a denunciare la “vittoria rubata” e a rispondere nella peggiore tradizione politica musulmana: con la violenza. Nell’arco di un anno la Fratellanza musulmana ha dunque seccamente smentito la definizione benevola degli analisti europei che la definivano una sorta di “Dc in format musulmano”. Al contrario, i tratti salienti della presidenza Morsi sono stati una sorta di isteria clanica del potere, aspirazioni autoritarie, nessuna capacità di mediazione e prevaricazione spudorata dei diritti delle minoranze religiose. Grandi sono le differenze tra l’Egitto di piazza Tahrir e l’Algeria del ’91, in cui la guerra civile iniziò appunto per una vittoria elettorale “rubata” dall’esercito e dal governo del Fnl ai Fratelli muslmani del Fis, ma i fondamentali si assomigliano e non è detto che l’esito non sia simile. Ma c’è di più e di peggio: l’acclarata incapacità politica di Morsi non è affatto un problema personale o egiziano. Ormai emerge con prepotente chiarezza al Cairo, a Tunisi, Algeri, Tripoli, Damasco, Ramallah, Gaza, Baghdad – e persino ad Ankara – la assoluta incapacità dei Fratelli musulmani di gestire non solo le crisi politiche, ma anche di governare con un minimo di capacità gli stati in cui hanno vinto le elezioni. Una conclamata ignavia politica che si accompagna a ricorrenti appelli alla violenza e “al martirio” nei confronti degli avversari politici che incuba non solo i germi, ma vere e proprie organizzazioni terroristiche. Le ultime mosse di Mohammed Morsi ricordano troppo da vicino i peggiori tentennamenti tattici e le convulsioni strategiche di Yasser Arafat (che nella Fratellanza iniziò la sua militanza, per poi distaccarsene), con un di più d’insipienza. Come Arafat – e tutti i suoi epigoni della Fratellanza – Morsi ha accumulato una immensa forza politica grazie alla “spinta dal basso” di un movimento popolare che non aveva affatto promosso e di cui è stato per tutta la prima fase solo al traino. Come Arafat, oggi Morsi rifiuta ogni mediazione e gioca col fuoco di un appoggio esplicito alla violenza. Vinte, ma non stravinte le elezioni, Morsi non solo ha dilapidato il consenso conquistato, ma non ha fatto assolutamente nulla per arginare la devastante crisi economica, carburante del movimento impetuoso dei Tamarrod. Simbolo di questa sua totale inadeguatezza sono le plurime risposte negative a un Fmi disposto a concedere un mega prestito di 4 miliardi di dollari (aumentabile in maniera consistente) in cambio di un minimo di riforme sul piano amministrativo e gestionale del budget statale. Il dramma è che l’insipienza di Morsi replica a ruota l’infausto ruolo che la Fratellanza gioca nel Consiglio nazionale siriano – di fatto paralizzato dalle sue manovre di vertice –, la fine politica ingloriosa del leader della Fratellanza irachena Tariq al Hashemi – condannato a morte ed esule in Turchia – che forse non è direttamente colpevole delle accuse di terrorismo contestategli dal premier Nouri al Maliki, ma che sicuramente non ha la coscienza del tutto netta sul punto. Per non parlare dell’infausto ruolo di Hamas a Gaza, anche solo dal punto di vista palestinese, a partire dal tratto settario e violento nei confronti dei concorrenti della Olp di Abu Mazen, così come del pieno fallimento politico della Fratellanza in Marocco e in Libia. Solo in Tunisia Rachid Ghannouchi riesce a evitare il fallimento politico pieno della sua Fratellanza, ma unicamente perché è costretto a confrontarsi con una componente laica che ha ottenuto un risultato consistente nelle urne. In Egitto, in estrema sintesi, la Fratellanza ha confuso la debolezza dei partiti laici con la licenza di imporre una dittatura islamista. Ha sbagliato i suoi calcoli e ha gettato il più grande paese arabo nel caos.

Il FOGLIO - Daniele Raineri : "  Ecco la road map dei generali per sloggiare i Fratelli musulmani"


Daniele Raineri

Roma. Anche l’Egitto diviso tra i sostenitori del governo della Fratellanza musulmana e gli egiziani delusi che occupano le piazze imbocca la strada del governo tecnico – ma in questo caso tutto quello che c’era prima di oggi, la Costituzione, il Parlamento e l’incarico presidenziale, sarà stravolto. Scade oggi alle cinque ora italiana l’ultimatum annunciato dai generali egiziani al rais Mohammed Morsi, a cui è stato imposto di risolvere l’attuale crisi politica – sono parole vaghe, ma così dice il comunicato dei militari – in accordo con l’opposizione che mobilita milioni di manifestanti. Il tempo però è così breve per un compito così arduo che le 48 ore rappresentano poco più che una formalità cortese concessa dall’esercito. Se Morsi entro le cinque non trova l’accordo e fallisce, allora secondo fonti di Reuters arriva la “road map”, a cui faceva cenno il comunicato di lunedì: i militari annulleranno di fatto la Costituzione attuale e instaureranno al potere un esecutivo ad interim formato soprattutto da civili – notare il “soprattutto” – provenienti da gruppi politici diversi e da tecnocrati esperti, per guidare l’Egitto fino a quando non sarà scritta una nuova Costituzione “nel giro di mesi”. Dopo la Costituzione arriveranno anche nuove elezioni presidenziali; per quelle parlamentari invece si aspetterà che siano in vigore nuovi, severi requisiti per i candidati (questa formula è lasciata sospesa, senza spiegazioni, ma è verosimile che la selezione danneggerà i partiti islamisti). Nel frattempo il Parlamento sarà dissolto. Allo scadere dell’ultimatum di oggi i generali consulteranno la fazione principale dell’opposizione, il Fronte di salvezza nazionale, altri gruppi politici e religiosi e anche le organizzazioni dei giovani. Il Fronte aveva proposto un piano di transizione democratica che assomiglia molto a questa “road map” dei militari e lunedì ha nominato come portavoce la figura blanda di Mohamed ElBaradei, ex capo dell’Agenzia nucleare delle Nazioni Unite. “Le fonti non dicono – scrive Reuters – che cosa farebbero i militari se Morsi non accettasse di andarsene senza creare problemi”. Un’omissione che suona minacciosa. In mattinata era arrivata una doppia telefonata da Washington al Cairo: il presidente americano, Barack Obama, ha chiamato Morsi e il suo capo di stato maggiore, Martin Dempsey, ha sentito il capo di stato maggiore egiziano, Sedki Sobhi, per spingere le parti verso la soluzione politica morbida. Le relazioni militari tra i due paesi sono sempre state robuste anche nei tempi di crisi politica e il canale di comunicazione con le stellette ha già funzionato egregiamente nel 2011 durante la rivoluzione popolare contro Mubarak, grazie al miliardo di dollari di aiuti che Washington elargisce ogni anno ai militari egiziani. Obama e Dempsey sono corsi alla cornetta perché hanno il timore fondato che questa crisi politica in corso spinga l’Egitto verso lo status di “failed state”, di stato fallito. Come nota con disincanto l’analista Ron Ben Yishai sul quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, la sollevazione contro Morsi non risolleverà l’economia a breve termine, aggraverà la paralisi dell’apparato di sicurezza (la polizia soprattutto) che già non esercita più il suo controllo su alcune aree del paese – come il Sinai – e creerà un precedente pericoloso perché svuoterà di significato le istituzioni democratiche – Parlamento, presidenza e governo – che cedono alla spallata congiunta di piazza e generali. Le elezioni dell’anno scorso oggi sono irrilevanti (Ben Yishai nota anche di passaggio che questa debolezza dell’Egitto avvantaggia Israele). Che l’esercito stesse soltanto aspettando l’occasione giusta si capisce da quel dato esagerato che ha diffuso domenica, “17 milioni di manifestanti nelle strade”, perfetto per giustificare la minaccia di un golpe implicita nell’ultimatum che scade oggi. Del resto già a dicembre il generalissimo Abdel Fattah al Sisi era entrato nel discorso politico chiamando le parti “al dialogo” durante gli scontri davanti al palazzo presidenziale e un mese dopo aveva ammonito: “La continuazione del conflitto tra le diverse forze politiche e le differenze su come condurrebbero il paese potrebbero portare al collasso dello stato e minacciare le generazioni future”. Testo sottinteso: “Noi non lo permetteremo”. Insomma, al Sisi agitava lo spauracchio di un golpe militare per rimuovere una leadership incompetente, una scorciatoia fin troppo percorsa nel mondo arabo (40 colpi di stato soltanto tra il 1945 e il 1979). Tanto distaccato che, quando il presidente Morsi mandò i militari a far rispettare il coprifuoco durante i disordini di gennaio a Port Said e a Ismailia, quelli se ne infischiarono e giocarono a pallone con i manifestanti.

CORRIERE della SERA - Cecilia Zecchinelli : " Mahmoud, leader gentile. E la rivolta nata in un caffè "


Mahmoud Badr

IL CAIRO — Fino a qualche settimana fa nessuno lo conosceva, era solo uno dei tantissimi giovani del Nuovo Egitto scontenti del governo islamico. Adesso è diventato «il volto della Ribellione», portavoce del movimento nato tre mesi fa quasi per caso, rivelatosi la forza trainante dell’opposizione laica che ha ritrascinato in piazza il Paese. Mahmoud Badr ora è anzi una star, e dai media ai diplomatici stranieri tutti vogliono incontrarlo. «Ma parlargli è diventato impossibile, è troppo impegnato tra le proteste e le riunioni politiche ad alto livello, perfino con i generali», dice un suo amico. Che spiega come quel 28enne «piccolino e dall’aria gentile» abbia però «una forza incredibile». Tanto da aver trasformato il progetto di raccogliere «qualche migliaio di petizioni contro Morsi», nato con quattro amici in un caffè del Cairo in aprile, in una valanga di 22 milioni di schede.

Nato a Shibin, 34 chilometri a Nord del Cairo, Badr ha respirato politica fin da piccolo. L’area è una roccaforte di nasseriani, ospita l’unica statua rimasta del solo raìs davvero amato dal popolo, Gamal Abdel Nasser appunto. Il padre Ismail, avvocato e attivista, ha passato al figlio maggiore la passione politica e la linea (nasseriana ovviamente). «Già nel 2004 Mahmoud usava i soldi delle ripetizioni per scappare al Cairo e protestare con Kifaya!, il primo movimento anti-Mubarak», ricorda l’amico. E trasferitosi nella capitale, dove si è laureato in informatica e ha lavorato come giornalista, Badr è rimasto in quel movimento. Fino a tempi recenti, quando i giovani di Kifaya! hanno contestato i vecchi leader ma hanno perso e se ne sono andati. Problemi sono sorti anche nel quotidiano Tahrir, dove Badr ha lavorato per un anno per poi guidare la protesta di un gruppo di colleghi contro il direttore. Anche qui i ribelli hanno perso e si sono dimessi. Ma da quelle due sconfitte Badr, con i quattro amici, ha trovato la forza di creare Tamarrod. In un paio di mesi il movimento aveva già una sede in centro (prestata dall’attrice Sharihan), un sito web, 200 mila volontari per raccogliere le famose firme. E aveva guadagnato il sostegno dell’intera opposizione che ha visto in Tamarrod una nuova chance, anche se è evidente la rivalità con il 6 Aprile, il più importante movimento di giovani di Tahrir del 2011, della «rivoluzione di Facebook». Badr, che due anni fa era in piazza come oggi, e i suoi non disdegnano social network e Internet, ma hanno privilegiato il porta a porta, il volantinaggio nelle strade, come una volta. E la lingua della petizione è il dialetto, che capiscono tutti.

Adesso, mentre il Paese si avvia a una nuova svolta, sono molti che vorrebbero Mahmoud Badr tra i leader politici dell’Egitto. Lui pare d’accordo. Anzi, dieci giorni fa, ha detto alla Reuters che potrebbe perfino candidarsi da presidente. «Per le legge dovrò aspettare fino ai miei 40 anni – ha aggiunto – ma perché no?».

Il FOGLIO - Pio Pompa :  " Se Egitto e Turchia si destabilizzano a vincere sono l’Iran e Assad "

In Israele osservano allibiti e con preoccupazione le prese di posizione assunte dall’Europa, e per alcuni versi anche dagli Stati Uniti, nei confronti dei rivolgimenti che stanno scuotendo dalle fondamenta il mondo arabo e in particolare l’Egitto e la Turchia. La primavera araba, iniziata in Tunisia nel dicembre del 2010, non si è mostrata tale ed è implosa, in tutte le sue contraddizioni, con effetti devastanti soprattutto per i precari equilibri mediorientali. “Eppure stiamo assistendo – affermano fonti d’intelligence sentite dal Foglio – a uno spalleggiamento, europeo e non solo, delle piazze turche ed egiziane come fossimo di fronte a rivolte popolari in favore della democrazia. Si tratta di un errore imperdonabile, frutto di una superficialità che ora rischia di avere conseguenze di incalcolabile portata, a partire dallo snodo fondamentale della legittimazione elettorale. Qualcuno dimentica che sia il presidente egiziano, Mohammed Morsi, sia il premier turco, Recep Tayyip Erdogan, sono stati eletti dopo libere elezioni (in Egitto erano le prime) e con il riconoscimento dell’intera comunità internazionale. Quanto sta accadendo adesso è più l’espressione di irrisolte e complesse questioni di equilibri interni e di potere che di un riscatto da regimi tirannici. Questioni come lo scontro tra laici e islamisti, tra sunniti e sciiti, tra componenti moderate e integraliste, che si intrecciano pericolosamente con la crisi siriana e le prerogative egemoni dell’Iran”. Non è un caso, dunque, che le manifestazioni degli oppositori egiziani e turchi vengano seguite con estrema attenzione dal regime di Teheran. Per l’establishment iraniano, l’instabilità dei governi di Ankara e del Cairo rappresenta una svolta insperata per vedere indebolito il fronte anti Assad e, con esso, la tenaglia dei ribelli, tra l’altro a maggioranza sunnita, che ancora avvolge le forze lealiste e di Hezbollah in procinto di sferrare un’offensiva per la riconquista, dopo Qusayr, della città strategica di Aleppo. In tal senso un ruolo cruciale sul versante egiziano lo starebbe svolgendo il neo eletto presidente iraniano Hassan Rohani, legato da una vecchia e consolidata amicizia all’ex direttore dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea), Mohammed ElBaradei, divenuto uno dei principali oppositori di Morsi. “Un’amicizia – ricordano i nostri interlocutori – senza la quale l’Iran non si troverebbe ad un passo dall’avere l’atomica. Furono loro due a imbastire, nel lontano 2003, la controversa relazione sulla cessazione del programma nucleare militare iraniano, rivelatasi nel corso del tempo un vero e proprio ballon d’essai per calmare le acque internazionali. Ecco perché riteniamo fondate le informazioni circa i contatti recentemente intercorsi tra Rohani ed ElBaradei, tutti incentrati sull’appoggio esterno di Teheran alla causa degli oppositori egiziani. Ovviamente nessuno dimentica le sortite antisemite e autoritarie di Erdogan, né la matrice islamista dei Fratelli musulmani di Morsi, o la fondatezza e la portata del malessere, legato anche alle disastrose condizioni economiche in cui versa il paese, espresso dalla maggioranza del popolo egiziano. Ma chi si illude, in Europa, che queste manifestazioni rappresentino un afflato di democrazia e non l’espressione di una crisi profonda e complessa, tutta interna al mondo arabo e difficilmente risolvibile nell’immediato, farebbe bene ad avviare un’attenta riflessione sulle dinamiche che le hanno provocate e sull’atteggiamento più corretto da assumere per impedire che, a quella siriana, si aggiungano altre carneficine da guerra civile”. Arrivare in ordine sparso su questi temi che coinvolgono, come in Egitto, milioni di persone può creare paradossi paurosi e confondere ruoli e finalità, gli amici con i nemici, a tutto vantaggio del genocida Bashar el Assad, dell’Iran e di Hezbollah.

La REPUBBLICA - Mohamed El Baradei : " Con la sharia non si mangia "


Mohamed el Baradei

Mohamed el Baradei, dopo essere stato silurato alle elezioni in Egitto un anno fa, torna alla ribalta per criticare Morsi e i Fratelli Musulmani.
Difficile credere che non stia semplicemente cavalcando l'onda.
In ogni caso, non è propriamente il candidato più credibile. IC lo ricorda soprattutto al tempi della presidenza dell'AIEA quando, di fatto, fece tutto ciò che era in suo potere per coprire il programma nucleare iraniano.

Appena due anni dopo la rivoluzione che ha rovesciato un dittatore, l'Egitto è già uno Stato fallito. Stando all'Indice degli Stati falliti, nell'anno che precedette la rivolta occupavamo laquarantacinquesima posizione. Dopo la caduta di Hosni Mubarak la situazione è peggiorata, e oggi ci troviamo al trentunesimo posto. Di recente non ho controllato la classifica - non voglio deprimermi ulteriormente - ma le prove del fallimento sono sotto i nostri occhi. Oggi in Egitto assistiamo all'erosione dell'autorità statale. Lo Stato dovrebbe fornire sicurezza e giustizia: la forma più basilare dei suoi doveri. L'ordine pubblico invece si sta disintegrando. Stando al ministero dell'Interno, nel 2012 gli omicidi sono aumentati del 130 per cento, le rapine del 350 per cento, e i sequestri di persona del 145 per cento. Si vedono persone che vengono linciate in pubblico mentre altre fotografano la scena. Vi ricordo che siamo nel XXI secolo, e non all'epoca della Rivoluzione francese! Si ha la sensazione che non vi sia un'autorità statale in grado di far rispettare l'ordine pubblico, e di conseguenza tutti pensano che tutto siapossibile. Naturalmente ciò genera molta paura e molta ansia. Viste le circostanze, non ci si può aspettare che lavita economica proceda come se nulla fosse. La gente è molto preoccupata Chi ha denaro - che si tratti di egiziani o stranieri - non lo investe. In un contesto dove l'ordine pubblico è sporadico, le istituzioni non svolgono i compiti che spettano loro e non si sa cosa accadrà l'indomani, è naturale che non si voglia investire. Di conseguenza, le riserve estere dell'Egitto sono state esaurite. Il deficit di bilancio quest'anno toccherà il Aumergano rapine, sequestri di persona assistiamo a tssa'eeusiasre dellParsiositir statale dodici percento e la sterlina egiziana è svalutata. Ogni giorno, al risveglio, circa un quarto dei nostri giovani al non ha un lavoro da svolgere. In ogni settore, i fondamentali dell'economia appaiono sballati. Nei prossimi mesi l'Egitto potrebbe rischiare il default del proprio debito estero, e il governo sta disperatamente cercando di ottenere da diverse fonti una linea di credito. Ma non è così che si rimette in moto l'economia. Occorrono investimenti stranieri, occorrono delle solide politiche economiche, occorrono delle istituzioni che funzionano e occorre una forza-lavoro qualificata Sino ad ora, tuttavia, il governo egiziano si è limitato ad offrire una visio-neraffazzonataequalchepoliticaeco-nomica mirata, senza assumere con decisione il timone dello Stato. Lo scorso dicembre il governo ha adottato delle misure di austerità per soddisfare alcuni requisiti del Fmi - salvo poi revocarle l'indomani. Nel frattempo i prezzi hanno subito un'impennata e la situazione sta diventando insostenibile, in particolare per la quasi metà della popolazione che sopravvive con meno di due dollari al giorno. Il ramo esecutivo non ha idea di come guidare l'Egitto. Non si tratta di appartenere ai Fratelli musulmani o di essere liberal: il fatto è che si tratta di persone prive di una visione e di esperienza, che non sanno diagnosticare il problema né implementare una soluzione. Semplicemente, non sono qualificate per governare. Da mesi noi dell'opposizione cerchiamo di fare presente al presidente Mohammed Morsi e compagnia bella che l'Egitto ha bisogno di un governo competente e imparziale, per lo meno sino alle prossime elezioni parlamentari. Abbiamo bisogno di un comitato di ampi consensi per emendare la Costituzione egiziana, la quale secondo un'opinione pressoché unanime non assicura un adeguato equilibrio di poteri né garantisce diritti e libertà fondamentali. Abbiamo inoltre bisogno che si crei un'alleanza politica trai Fratelli musulmani, i quali probabilmente rappresentano meno del venti percento della popolazione, e gli altri partiti - compresi quelli di orientamento islamico. Purtroppo tutte queste raccomandazioni sono cadute nel vuoto. Anche i Fratelli stanno perdendo molti voti, perché malgrado tutti i loro slogan altisonanti non sono stati in grado di tenere fede alle promesse. La gente vuole poter mettere in tavola del cibo, vuole assistenza sanitaria, vuole istruzione e tutto il resto - e il governo non è riuscito a soddisfare le aspettative. La Fratellanza non si avvale di individui qualificati, che invece appartengono ai partiti liberale alla sinistra. Occorre formare una grande coalizione, mettere da parte le differenze ideologiche e lavorare insieme concentrandosi sulle esigenze fondamentali del popolo. La sha'ria non dà da mangiare. Stiamo pagando il prezzo di anni e annidi repressione e di governo dittatoriale. Per molti era una situazione comoda, che non li obbligava a prendere delle decisioni in maniera indipendente. Adesso, dopo la rivolta, tutti sono liberi ma si respira una forte sensazione di disagio. È il dilemmaesistenziale tra il desiderio di essere liberi e lagruccia che ci viene fornita quando qualcuno ci dice cosa fare. La libertà è ancora un concetto nuovo. Gli ostacoli che ci troviamo di fronte derivano nella maggior parte dei casi dalla vecchia dittatura. La ferita è ancora aperta e il pus deve fuoriuscire completamente. Dobbiamo pulire quella ferita - non possiamo limitarci a coprirla con un cerotto. Come invece facciamo quando ci affidiamo alle solite idee, ormai superate. La rivolta non mirava a cambiare le persone, ma a cambiare il nostro modo di pensare. Oggi vediamo dei volti nuovi che però pensano come si pensava prima, all'epoca di Mubarak. Anche se questa volta sono ammantati di una patina di religiosità. Sino a che punto può peggiorare la situazione? Se l'ordine pubblico continuerà a deteriorare ci si presenteranno naturalmente diverse opzioni. Adesso la gente dice ciò che tempo fa sarebbe sembrato impossibile: vogliono il ritorno dell'esercito affinché stabilizzi la situazione. In alternativa, potremmo assistere a una rivolta dei poveri, che sarebbe furiosa e violenta. Il fallimento di'uno Stato non è la cosa peggiore che possa capitare, ma ho paura che l'Egitto si trovi sull'orlo del precipizio.

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