Riportiamo dalla STAMPA del 27/06/2013, a pag. 32, l'articolo di Ayelet Waldman dal titolo "Una mano si muove nel vagone della morte".
Ayelet Waldman
Il 25 aprile 1945, di primo mattino, il tenente Danny Wiseman e il suo comandante attraversavano una piccola cittadina silenziosa, senza un’anima in giro, gli abitanti ben riparati dietro le loro tendine di pizzo e le porte delle loro case di marzapane. Danny lanciava occhiate oltre le aiuole ben tenute di fiori dai colori brillanti, dietro gli alberi e le piante di rose, cercando di cogliere con lo sguardo l’apparizione di un lembo di stoffa grigio scuro o un lampo di sole riflesso dall’acciaio, segni rivelatori della presenza di eventuali truppe delle SS nascoste e pronte all’ultima, disperata battaglia.
Al limitare della città oltrepassarono un piccolo ponte sopra un canale. Davanti a loro si trovava una lunga recinzione di filo spinato, oltre la quale si scorgevano appena ettari ed ettari di baracche. A circa duecento metri dall’ingresso principale passarono sopra una serie di binari e accanto a un treno merci fermo lungo un binario di deposito. Dai vagoni aperti si era versata dell’immondizia sul suolo.
«Gesù Cristo», mormorò l’autista del colonnello, e la jeep rallentò a passo d’uomo. L’autista tolse il piede dall’acceleratore, e il motore tossì e si spense. «Gesù Cristo», ripeté.
Danny e il colonnello scesero dalla jeep e si avviarono rapidamente verso il treno, mentre Danny cercava di mantenere l’attenzione sul terreno circostante, sulle intercapedini tra i vagoni dove si sarebbero potuti nascondere dei cecchini, su qualunque cosa che non fossero le montagne di spazzatura, gli ammassi di stracci che non avrebbero assunto la forma di corpi umani se solo avesse continuato a focalizzare l’attenzione sugli spazi tra di loro, sulle ombre, su quello che avrebbe dovuto fare, ovvero cercare i tedeschi ed evitare di venire ammazzato.
Ma alla fine non c’era nessun’altra parte da cui guardare. Un piccolo gruppo di fucilieri era arrivato al treno prima di loro, e adesso uno si sporse in alto, girò il chiavistello sul portellone di uno dei vagoni e lo aprì. Era pieno di corpi, almeno venti o trenta, qualcuno vestito di una sudicia uniforme a strisce, altri di poco più che stracci.
I soldati percorsero l’intera lunghezza del treno aprendo vagone dopo vagone: ognuno rigurgitava un identico carico. Il colonnello proseguì avanti, ma Danny si fermò davanti allo sportello aperto del primo vagone, fissando gli occhi immobili di un uomo che giaceva sotto un pezzo di juta strappata. La faccia e la testa dell’uomo erano coperte di un centimetro di peluria incolta, la sua pelle tirata aderiva alle ossa del teschio, gli occhi aperti erano sprofondati nelle orbite. Una delle sue mani giaceva stesa sul petto, l’altra era chiusa vicino alla guancia e stringeva una piccola patata grigiastra da cui spuntava un solitario germoglio verde. Danny, stordito, si rese conto che stava trattenendo il respiro. Espirò e inspirò, aspettandosi di venire investito dal tanfo appiccicoso di carne in decomposizione: un fetore che, non molto più tardi, lo avrebbe assalito con una furia ineguagliata persino dagli ufficiali delle SS che effettivamente tentarono un’inefficace resistenza finale. Ma qui vicino al treno non c’era nessun odore, i corpi erano morti così di recente da non aver avuto nemmeno tempo di putrefarsi.
«Ehi!», gridò uno dei soldati. «Ehi, colonnello! Qui ce n’è uno vivo!»
Danny avanzò incespicando verso il vagone di fronte a cui si trovava il soldato. Il colonnello, accompagnato da uno dei fucilieri e da un fotografo militare con la macchina a tracolla, li raggiunse. Danny scrutò nell’oscurità. Per un instante non vide nulla, poi un accenno di movimento, il minuscolo cenno di una mano quasi sepolta dai corpi. Danny si lanciò in avanti, ma il colonnello e il fuciliere lo precedettero, montando sul vagone e arrampicandosi sopra i corpi. «Aspettate!», gridò qualcuno. Era il fotografo, che stava salendo sul vagone.
«Aspetti, colonnello. Mi lasci un attimo preparare».
Il colonnello e il fuciliere interruppero i loro sforzi, aspettando che il fotografo scegliesse l’inquadratura e mettesse a fuoco. Si trattò forse di cinque secondi, non più di dieci, ma a Danny sembrò di guardare per ore la mano che aveva rinunciato a muoversi e ora attendeva, floscia, i soccorsi. «Via!», disse il fotografo. Il colonnello e il fuciliere scansarono l’ultimo dei corpi. Si chinarono e insieme sollevarono un uomo dal cumulo aggrovigliato di arti e vestiti. In quel momento scattò l’otturatore e i tre uomini vennero immortalati dalla macchina fotografica, i due soldati americani forti e in salute e lo sbandato pallido che alzava gli occhi verso di loro con in faccia un’espressione che milioni di americani, quando l’avrebbero vista poco tempo dopo sulla prima pagina del giornale, avrebbero interpretato, con la loro tipica ingenuità, come un sorriso.
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