|
|
||
Lezioni dalla Turchia
Cartoline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari amici,
al di là della solidarietà forse dobbiamo ai manifestanti di Istanbul una riflessione: sulle ragioni del loro disagio e su quelle della loro sconfitta. Fino a qualche tempo fa la Turchia veniva indicata come il solo esempio (a fianco forse dell'Indonesia e del Pakistan) di Stati islamici almeno parzialmente democratici. La Turchia era pensata da alcuni come un possibile modello per quel che costoro chiamavano “primavere arabe” e anche come una potenza regionale capace di assumere l'egemonia in tutto il Medio Oriente. L'agitazione dei giovani e il modo violentissimo in cui essa è stata repressa mostrano che di democratico in Turchia resta molto poco. La Turchia vantava (per così dire) già prima dell'inizio delle agitazioni il record mondiale dei giornalisti in carcere “peggio che in Cina, Iran e Eritrea” (http://www.lastampa.it/2012/10/22/esteri/in-turchia-il-record-mondiale-di-giornalisti-in-carcere-sono-p3OdQkPmPNmxVjIZEuRRXO/pagina.html ), era sottoposta a un processo molto pesante di reislamizzazione, aveva trasformato la politica dichiarata di “zero problemi con i vicini” in dispute più o meno violente con tutti: con Cipro per il Gas, con la Grecia per la tradizionale rivalità, con l'Armania per il genocidio negato, con la Siria per la guerra in corso, con l'Iran per la rivalità sull'egemonia regionale, con l'Iraq per i curdi, con Israele per l'appoggio ad Hamas, con l'Unione Europea per le condizioni poste alla candidatura. Il rapporto con i paesi arabi si era deteriorato per la pretesa di comando esercitata da Erdogan.
Ma soprattutto soffocava la società civile, attratta da modelli occidentali e progressivamente soffocata dalla cappa islamica. Democrazia non è solo l'esistenza di un processo elettorale funzionante, ma anche libertà di vivere secondo il proprio modello, di esprimere i propri valori e la propria identità e un sistema di gestione del potere disposto a negoziare e a tener conto delle diverse posizioni esistenti nel corpo sociale. Tutte queste cose in Turchia mancano, perché la concezione del potere è quella espressa da Erdogan quando ancora era sindaco di Istanbul: la democrazia è un taxi per arrivare al potere; una volta a destinazione, si scende (http://vastano.blogautore.espresso.repubblica.it/2011/11/04/erdogan-a-berlino-e-il-turco/ ). E' una concezione antica, che risente in Turchia della tradizione imperiale e prima ancora di quella islamica: il sovrano si impone con la forza delle armi, spesso per farlo uccide i suoi parenti che gli possono far concorrenza e poi comanda manu militari, magari per mezzo di visir e luogotenenti che gli fanno schermo all'impopolarità e che elimina se deve prendere direttamente in mano lui la situazione. E' la stessa idea del potere dei dittatori alla Assad, Saddam Hussein, Gheddafi, che ora è mimata dai nuovi presidenti eletti più o meno democraticamente come Morsi in Egitto. Un capo non autoritario nel mondo islamico, un capo che non sia “rais”, non sopravvive a lungo.
Queste sono le motivazioni dei giovani di Istanbul, com'erano quelle del movimento verde di quattro anni fa a Teheran e come forse anche di alcune scintille iniziali delle rivolte arabe di tre anni fa. Ma a Teheran come a Istanbul le proteste sono state soffocate con relativa facilità e con durissima violenza, nell'indifferenza generale della popolazione. L'idea che si possa protestare e farlo pacificamente, senza cercare di sostituire un rais con un altro è estranea alla tradizione islamica che non ha fra i suoi eroi profeti disarmati e chiama martiri non coloro che siano stati ingiustamente uccisi da un potere tirannico, ma chi muore cercando di ammazzare, magari a tradimento, i nemici dell'Islam. La ragione della sconfitta di questi movimenti è dunque il loro carattere pacifico, “occidentale”: non c'è posto nell'Islam per un Gandhi.
al Qaeda Dove i movimenti di rivolta hanno prevalso, negli ultimi anni, ciò è accaduto perché la loro natura era diversa, o si è trasformata da subito. In Tunisia, Egitto, Libia, Siria, se c'erano dei gruppi di manifestanti pacifici all'inizio (la cosa non è affatto sicura, in certi casi come in Libia era chiaramente solo un travestimento), la guida della contestazione è stata presa ben presto da movimenti ben organizzati e abituati alla clandestinità come i Fratelli Musulmani, con la loro vecchia abitudine alla violenza, se non peggio: salafiti, bande di Al Qaeda, quella brigata internazionale islamista che pian piano anche i giornali europei stanno iniziando a vedere. E i nuovi protagonisti capaci di mobilitare le masse su parole d'ordine islamiche e ben disposti a correre il rischio delle atrocità di una guerra civile, si sono affrettati a emarginare, a reprimere e magari a far fuori gli “occidentali”, i “miscredenti” delle proteste democratiche. Sicché l'Occidente, troppo lento, disinformato e perplesso per appoggiare davvero i movimenti di protesta che gli assomigliavano, si è trovato poi ad armare i suoi nemici più esaltati e magari a combattere per quelli che si sarebbero vendicati sui suoi rappresentanti, com'è accaduto a Bengasi.
La conclusione di questo ragionamento sommario è sconfortante: non vi è oggi una cosa come una democrazia islamica; non vi sono “primavere” in grado di prevalere. Solo una politica razionale, che tenga conto della contrapposizione all'Occidente diffusa nel mondo islamico (eh già, lo “scontro di civiltà”, che nessuno desidera ma che purtroppo c'è, ben radicato, e con cui bisogna fare i conti), solo un calcolo strategico di costi e benefici può mettere fine oggi alla serie spaventose di sconfitte che l'Occidente ha subito negli ultimi anni. Ugo Volli |
Condividi sui social network: |
|
Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui |