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Libero - Corriere della Sera - La Repubblica Rassegna Stampa
19.06.2013 Il terrorista italiano convertito all'islam da Genova alla Siria
Commento di Souad Sbai, cronaca di Marco Imarisio, buonismo di Gabriele Romagnoli

Testata:Libero - Corriere della Sera - La Repubblica
Autore: Souad Sbai - Marco Imarisio - Gabriele Romagnoli
Titolo: «Quei 40-50 jihadisti partiti per la Siria dalle città italiane - Perduto sulla via di Damasco»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 19/06/2013, a pag. 17, l'articolo di Souad Sbai dal titolo "  Finiamola col buonismo. Non sono gli emarginati a diventare jihadisti ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 14, l'articolo di Marco Imarisio dal titolo " Quei 40-50 jihadisti partiti per la Siria dalle città italiane ", preceduto dal nostro commento. Da REPUBBLICA, a pag. 1-25, l'articolo di Gabriele Romagnoli dal titolo " Perduto sulla via di Damasco ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:

LIBERO - Souad Sbai : "  Finiamola col buonismo. Non sono gli emarginati a diventare jihadisti "


Souad Sbai                  Giuliano Delnevo

Entriamo per un attimo negli occhi e nella mente di un giovane genovese. Proprio come Giuliano Delnevo. Studente, poco più che ventenne. È un percorso di odio quello che inizia per lui. L’avvicinamento, il sussurrare negli orecchi, il mostrare una possibilità, una via d’uscita dalla solitudine o un rimedio alle proprie debolezze. O più spesso il bagliore del denaro facile. Poi il proselitismo, la da’wa, il convincimento, la seduzione del male e la narcosi della mente. Il passaggio dal proselitismo al salafismo militante diventa operazione irrisoria, per chi tihasvuotato la testa e ne ha otturato le prese d’aria con una coltre di parole di piombo. Ormai è buio pesto senza ritorno. Convincersi che tutto ruota attorno a quel solo e unico momento, in cui la vita diventa morte, segna il passaggio al jihadismo. Che troverà il suo coronamento nell’elogio della follia della morte e nello sfregiare per sempre quel che resta della propria umanità. Nel farsi uccidere in nome di qualcosa che non si conosce. Ecco il percorso che ogni giorno un giovane compie nel nostro Paese. Un percorso che, per essere analizzato a fondo, deve vedere sbugiardato una volta per tutte il mito della crisi di identità; solo poche volte ci si getta nelle braccia dell’estremismo militante perché si è smarrito il senso di sé stessi o perché ci si sente stranieri in patria. Via dunque dal tavolo tutte le false carte della cittadinanza mancata, dei diritti negati e del dolore inespresso per via dell’emarginazio - ne. Giuliano Delnevo era italiano dalla nascita e così era cresciuto fino ai vent’anni, quando ha deciso di abbracciare un’ideologia di morte. E di portarla a termine quando entra in contatto con un gruppo salafita al confine con la Siria. Nella rete dell’estremismo e del proselitismo jihadista si cade per mille motivi, tutti però lontani dal concetto buonista che vede l’equivalenza emarginazione uguale radicalizzazione. Entriamo in una di quelle moschee fai da te che popolano il tessuto connettivo dellecomunità nel nostro Paese; ci sono persone in principio del tutto normali ma che man mano cambiano aspetto e comportamenti. Barba lunga, tunica, sguardo cupo. Non per fame o per rabbia, ma per indottrinamento costante. Massiccio e martellante. Di quei sedicenti portatori di fede e di purezza, che propagandano solo male eastioversola civiltà.Ècomunicazioneallo stato puro, che accarezza la mente e al contempo la ingabbia. Comunicazione aiutata anche dal pensiero strutturato di alcuni intellettuali, scrittori, giornalisti e politici italiani, convertiti in silenzio ma la cui parola prepara la società all’ac - cettazione passiva e crea vittime sacrificali come un giovane genovese, che tutto poteva fare nella sua vita ma ha invece scelto di autodistruggersi in preda alla follia di un’ideologia suicida.

CORRIERE della SERA - Marco Imarisio : " Quei 40-50 jihadisti partiti per la Siria dalle città italiane "

Nel pezzo vengono riportate anche le dichiarazioni del Ministro degli Esteri Emma Bonino, la quale preferisce minimizzare.
Non ci sarebbe nessuna ondata di jihadisti dall'Italia alla Siria, si tratterebbe di casi isolati.
Nascondere la testa sotto la sabbia non è la soluzione.


al Qaeda in Siria

GENOVA — Mohammed sapeva che sarebbe finita così. Lo aveva anche avvisato, gli aveva detto che doveva trovare un'altra strada dove immettere la sua rabbia. «Voi italiani, esagerate sempre. Alla fine siamo stati costretti a metterli fuori, gli italiani. In questo posto noi preghiamo, insegniamo l'arabo ai bambini, e cerchiamo di evitare il fanatismo».
Il centro preghiera di Vico Amandorla sembra un garage. Una delle dieci piccole moschee di Genova, nel cuore dei carrugi che di giorno sono un paesino dove tutti si conoscono e alla notte si travestono da movida. Sorride, Mohammed. «C'era qualcosa che non andava, in quel ragazzo e nei suoi amici. Adesso sembra crudele dirlo, ma l'Islam c'entrava poco». È sera. Dai vicoli arrivano dei bambini di corsa. Al responsabile di quello che figura come istituto culturale dispiace, e molto. Era stato lui a decidere l'allontanamento degli italiani. Noi siamo ortodossi, gli aveva detto, ma il fanatismo non ci interessa. Quindi fuori, per favore. Gli italiani erano finiti a pregare da soli, in un bugigattolo stipato con attrezzi da carpentiere.
Non solo lui. Ce ne sono altri, come Giuliano Ibrahim Delnevo, che aveva appena 23 anni, era nato e cresciuto al secondo piano di una casa all'inizio di via San Bernardo, l'anima della città vecchia, ed è morto a Qusayr, combattendo per le milizie che si battono contro il regime siriano, come rivelato ieri da Il Giornale. L'Italia non è la principale base europea per i volontari che decidono di arruolarsi nelle milizia antigovernative. «Non ci risulta nessuna ondata» ha detto ieri il ministro degli Esteri Emma Bonino. Anche se è ben difficile fare stime precise, la rete europea della resistenza ha arruolato circa 800 combattenti stranieri. Gli attivisti pro-ribelli che vivono nel nostro Paese ritengono che i volontari partiti da qui siano al massimo 40-50, un plotone del quale fanno parte sopratutto i cittadini siriani residenti nelle grandi città.
E solo pochi italiani, a quanto sembra. Giuliano Ibrahim era uno di quelli. Il suo nome era da tempo iscritto nel registro degli indagati della procura di Genova, insieme a un altro musulmano italiano e tre cittadini del Maghreb che vivono nella provincia. Arruolamento e addestramento al terrorismo internazionale, una specie di rete della Jihaad fai da te intrecciata a quella di Anas El Abboubi, un blogger marocchino che aveva fondato la «filiale» italiana di un movimento estremista, Sharia4, arrestato pochi mesi fa dai magistrati bresciani.
Ma quella del ragazzo che su Facebook teorizzava la nascita del Liguristan, e non stava scherzando, è anche una storia umana dolorosa, che sembra mischiare radicalismo e alienazione in parti uguali. Il padre Carlo se ne andò ben presto, portando con sé il fratello maggiore di Giuliano. Lui rimase con la madre Eva, e negli anni la convivenza divenne difficile. Correvano voci, sul loro conto. Urla, botte. Maltrattamenti inflitti al figlio, che in seguito, crescendo, avrebbe ripagato la madre con la stessa moneta.
Adesso la palazzina di via San Bernardo è diventata un ritrovo di studenti universitari, che affittano gli appartamenti dall'inizio alla fine dell'anno accademico. «Ogni volta che si faceva vedere c'era casino» raccontano i due ragazzi greci che vivono al piano di sotto. Quando una persona muore, la gara al ricordo di chi sostiene di averlo conosciuto può condurre in qualunque direzione. Attraverso le mura, gli studenti greci apprendevano dei drammi domestici in corso. La gelataia ricorda Giuliano che la rimprovera per aver varato una linea innovativa di gusti a base di alcool. Il marito sostiene invece che si trattò di un rimbrotto bonario, da parte di un ragazzo timido e riservato che dal 2008, appena diventato adulto, aveva cominciato a vestirsi come un Sufi, con lunga tunica bianca e il kizil bas, il cappello a cono.
Lo avevano notato a qualche iniziativa di Forza Nuova, al seguito del suo amico Umar Andrea Lazzaro, un ex punk della Valbisagno convertito all'Islam, titolare di un Forum non proprio moderato. «Non volevamo seguire la massa, cercavamo un legame con il trascendente che andasse oltre il nostro produci-consuma-crepa». Qualcuno sostiene che Giuliano fosse andato in Cecenia, e ne fosse ritornato sconvolto, incattivito. Quando fece la sua scelta definitiva, rimase solo. La Siria era qualcosa di ben diverso dalle manifestazioni a favore della costruzione della nuova moschea nella zona del Lagaccio. Nel dicembre 2012 si confida con Alfredo Maiolese, uno dei personaggi più conosciuti dell'Islam genovese. «Mi raccontò di essere appena tornato dal confine turco-siriano. Era stato in due campi profughi, ma non aveva trovato il contatto giusto, e non era riuscito a entrare. Si lamentava di non trovare lavoro qui in Italia, diceva che i suoi studi erano inutili. Aveva una luce strana negli occhi. Gli dissi di calmarsi, l'Islam significa soccorrere, e non sparare. Mi rispose che si doveva solo organizzare meglio, la prossima volta sarebbe stata quella buona. Non l'ho mai più rivisto».

La REPUBBLICA - Gabriele Romagnoli : " Perduto sulla via di Damasco "


Gabriele Romagnoli

Romagnoli cerca di far passare la scelta di Delnevo come 'etica' e dovuta alla crisi dei valori della società occidentale con un articolo impregnato di buonismo e luoghi comuni.
Il terrorista convertito all'islam, insomma, si sarebbe convertito e sarebbe partito per la Siria alla ricerca di un ideale per cui combattere.
Una specie di 'guerriero' contro il male impersonato dal dittatore sanguinario Assad.
Perché non ammettere la realtà, Delnevo era un fanatico, un fondamentalista. Ed è andato in Siria alla ricerca di al Qaeda, non della 'libertà'.
Non era un 'eroe', contrariamente a come l'ha definito il padre, ma un semplice terrorista di al Qaeda.
Ecco il pezzo

Così lo bolleranno gli oratori da bar. O, con pari pigrizia, “arruolamento con finalità di terrorismo”, come aveva deciso la magistratura indagando con lenta vaghezza. Invece la sua vicenda, per quanto particolare, tocca situazioni e temi universali. Primo fra tutti: la ricerca del senso di una vita. Non del senso della vita, ma di quello di una soltanto: la propria. Come spesso accade, la religione non è il fine, ma il mezzo. È vero per molti, quale sia la fede che abbracciano. Lo è ancor di più per i convertiti. Raccontano di illuminazioni, ma si tratta di scelte consapevoli, vestiti che si attagliano, furori che trovano sfogo e legittimazione. Inevitabilmente: sulla via di Damasco. Prima di diventare Ibrahim, Giuliano era un ragazzo qualsiasi, cresciuto in una città di mare, da genitori separati, in un tempo che non offre slanci a chi soffre di ideologismo, né occasioni a chi ha polluzioni per l’eroismo. Non ci sono, né di qua né di là, movimenti per cui palpitare; l’ultimo (nato proprio dalle sue parti) si è liquefatto istituzionalizzandosi prematuramente. Non ci sono cause per cui battersi con il cuore e la spada. Non si mette a repentaglio la vita per un punto di Iva, né si riconosce il profeta in un figurante della tv o della rete. Si vive tra persistenti dubbi ed effimere certezze, la navigazione è un’agonia per chi desidera un porto. Scriveva Nietzsche che “in tempo di pace l’uomo guerriero si accanisce contro se stesso”. E questo hanno fatto tanti coetanei di Giuliano negli ultimi anni o decenni, riversando su se stessi la rabbia, annichilendosi con le droghe o le fughe. Qualcuno insiste nella ricerca delle risposte a domande che da millenni non ne hanno, se non in voli dell’immaginazione capaci di concepire e descrivere il senso di questa vita e della prossima. Nel romanzo di Eric-Emmanuel Schmitt Monsieur Ibrahim e i fiori del Corano l’omonimo dell’ex Giuliano sostiene che il suo Libro possiede la risposta a tutte le domande, e lo dimostra. Quel libro è, appunto, il Corano. Lì la complessità è ridotta al minimo. Viene detto come vestirsi: con una tunica di colore invariabile come quella che Giuliano Ibrahim indosserà (seppur nella variante sufi). Che cosa mangiare. Quando lavarsi. Qualunque dubbio della vita quotidiana ha una soluzione legata al trascendente. In una ricerca condotta in Inghilterra otto anni fa si appurò che una delle principali ragioni per la conversione all’Islam era proprio questa semplificazione della vita quotidiana. Valeva soprattutto per le donne. Per gli uomini si aggiungeva una visione più ardita della fede e dell’esistenza. È facile presumere che Giuliano cercasse questo. Non una religione indebolita da appetiti umani, troppo umani, ma una fede guerriera. O guerrafondaia, dipende dai punti di vista. C’è una canzone dei Coldplay, che anche lui può aver ascoltato prima di buttare nel fuoco l’Ipod, intitolata A rush of blood to the head (traducibile come “un fiotto di sangue che ti va alla testa”). Dice, tra l’altro: “Comprerò un fucile e comincerò una guerra, se tu saprai dirmi qualcosa per cui valga la pena farlo”. Ecco, questo è stato il freno principale per una o forse due generazioni occidentali: nessuno ha detto loro qualcosa per cui valesse la pena farsi ammazzare. In Italia, nessuno glielo sta dicendo. È la nostra fortuna, è la nostra condanna: la vita scorre via nel chiacchiericcio, i duellanti che chiamano all’armi son tali che è preferibile astenersi. Chi non può fare a meno di una causa deve cercarla d’importazione. Convertirsi a una religione storicamente impropria è un po’ come arruolarsi nella legione straniera. Lo si fa per bisogno di disciplina, spirito d’avventura, leggera follia. Il convertito è un animale selvatico. È uscito da un branco per entrare in un altro. Deve a ogni passo ringhiare verso il passato e accelerare correndo incontro al futuro. Chiunque traslochi da una fede, politica o religiosa, all’altra diventa il peggior nemico di ciò che ha lasciato e abbraccia il nuovo con slancio da invasato. Uomo guerriero, si accanisce di fatto contro un se stesso che uccide per poter rinascere. Ma la distruzione di sé è un piacere così forte da generare assuefazione ed ecco che ne va nuovamente alla ricerca, definitiva, attraverso quel gesto di accanimento che chiama martirio. Dal talebano Johnny al ribelle Giuliano, la strada (perduta) è la stessa. Chiamarli “terroristi” è improprio. Uno che va a combattere un regime che da decenni regna nel terrore è soltanto qualcuno che pensa di aver trovato una ragione per cui vale la pena avere un fucile e fare una guerra. Crede di aver trovato le risposte, ma ha soltanto incontrato la morte.

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