Lode dello status quo
Cartline da Eurabia, di Ugo Volli
Cari amici,
consentitemi, vi prego, un'altra puntata della riflessione che sto conducendo sul destino dei “territori contesi” di Giudea e Samaria, dopo il viaggio molto interessante che Informazione Corretta ha organizzato.
E' un tema centrale, perché qui sta non solo il passato originario, ma anche il futuro di Israele ed è anche una riflessione difficile, perché per condurla bisogna andare contro una retorica accumulata dai tempi di Oslo e sottoscritta senza dubbi da tutti i giornalisti e i politici benpensanti in Europa, negli Stati Uniti e anche in parte in Israele.
Nelle scorse puntate (
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=280&id=49406 ,
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=280&id=49427 ,
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=280&id=49437,
http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=&sez=280&id=49480) vi ho descritto alcuni elementi del territorio e vi ho esposto non quella che a me sembra la soluzione, perché soluzione oggi non c'è, ma piuttosto la gestione logica del conflitto intorno a questi territori: la conservazione dell'autonomia palestinese nelle zone A e B, la crescita naturale delle comunità ebraiche nella zona C, la distinzione fra gestione del territorio e appartenenza politico-amministrativa delle persone, l'apertura graduale alla condivisione dei territori (non solo la zona C, ma anche la A e la B) a misura che non solo il terrorismo ma anche la sua propaganda ufficiale regrediranno.
Ora si dà il caso che, salvo l'ultimo punto (perché l'incitamento è in aumento e il terrorismo non è morto), tutto il resto sia la situazione attuale sul campo, quella che i politici occidentali e i media descrivono come bisognosa di trattative e drastici cambiamenti, in nome della “pace”.
Di fatto questi tentativi falliscono tutti per la semplice ragione che non sono realistici. Se ne parla da molti anni, nell'Autorità Palestinese è finito il “regno” di Arafat e dura da una decina d'anni quello del “moderato” Muhammad Abbas, in Israele sono passati governi laburisti, di Kadima, del Likud, si sono succeduti almeno tre presidenti americani, ma questi drastici cambiamenti non si sono fatti.
Sul terreno si è rimasti alla sistemazione di Oslo. E dato che in politica bisogna guardare ai comportamenti molto più che alle dichiarazioni, si deve supporre che questo stato di fatto appaia ai protagonisti locali come il più conveniente o il meno sconveniente.
Naturalmente i calcoli sono diversi: mantenendo lo status quo l'Anp può sperare di consolidarsi, di ottenere successi nel suo lavoro ai fianchi (terroristico o anche solo politico/legale/di relazioni pubbliche) contro Israele. Israele vede crescere le sue comunità, sviluppare la sua economia, sa di poter sconfiggere le minacce arabe. L'una e l'altra parte non potrebbero spiegare alla loro opinione pubblica i sacrifici necessari per quella “pace” territoriale che da lontano i benpensanti auspicano.
L'Anp dovrebbe accettare per davvero l'esistenza di uno stato ebraico, che rifiuta; Israele potrebbe essere costretto a sradicare decine di villaggi e a risistemare decine di migliaia di pionieri, e difficilmente avrebbe il consenso interno per farlo.
Certo, la demografia è al lavoro, ma se una volta i demografi profeti di sventura erano incontrastati, ora è chiaro che la popolazione araba vantata dall'Anp è gonfiata e che il tasso di natalità israeliano è vicino a quello a quello arabo ed è in crescita, mentre la natalità palestinese diminuisce progressivamente.
E dunque è probabile che le cose nel prossimo futuro restino come sono.
Le prospettive migliori di gestione del conflitto coincidono con la realtà attuale sul campo: se non proprio ciò che è reale è razionale, secondo il motto hegeliano, nel territorio controllato da Israele e dall'Anp poco ci manca. Potremmo dire in termini economici che si tratta di una situazione di “sub-ottimalità”, un massimo locale che magari non è la vetta più alta di una curva, ma è circondata da cadute da tutti i lati. Se ci si muove, le cose peggiorano.
Con in più il fatto che l'Onu (insieme all'Unesco e a tanti stati) ha riconosciuto l'Anp come stato sovrano, pensando di farle un favore. Ma se si è stabilito che è uno stato non c'è bisogno di inventarsene uno, evidentemente il territorio che controlla è sufficiente a garantire la sua vita. Sui confini si può discutere, naturalmente; ma ogni riconoscimento certifica uno stato di fatto.
C'è chi obietta che l'Anp non sarebbe pienamente autonoma in quanto soggetta a occupazione. Certamente i territori principali (quelli della zona A, che comprende le maggiori città arabe) e probabilmente anche quelli della zona B non lo sono. L'Anp può decidere dei propri affari più di quanto non possa fare l'Italia, che dipende dall'Unione Europea per materie cruciali come il bilancio, le tasse, gli standard del commercio, i cambi, la conduzione dei confini e mille altre cose che gli arabi dell'Anp gestiscono da sé.
Se spesso si parla di Muhammad Abbas come “il sindaco di Ramallah”, per il fatto che non controlla parte della sua stessa popolazione che obbedisce a Hamas o ad altre bande armate (ma certo la responsabilità di questo è palestinese, non israeliana), come bisognerà definire il nostro governo? Come un consiglio provinciale dello stato vero, e assai poco democratico, che è la Comunità Europea?
Tutto questo ragionamento ha una conseguenza, che è la necessità della forza di Israele, non solo per tutelare gli israeliani e gli ebrei di tutto il mondo, ma anche per assicurare quello status quo che è la migliore prospettiva pacifica che si possa oggi pensare per la regione.
Se nel baricentro di una crisi violentissima che investe tutto il mondo arabo e ora anche la Turchia c'è pace, se i morti politici in Israele e in Giudea e Samaria nell'ultimo anno sono nell'ordine di grandezza delle unità o al massimo delle decine, non delle decine di migliaia della Siria, o delle migliaia dell'Egitto, dell'Iraq, o delle migliaia della Turchia, dello Yemen, ecc., questo si deve alla forza di Israele, alla sua capacità di deterrenza, alla capacità di far regnare la legge sul territorio che amministra.
I tentativi di indebolirlo cui si dedica l'Anp coi suoi alleati europei e arabi, o quelli di far raggiungere all'Iran la parità strategica annullando la deterrenza israeliana, che piacciono tanto ai diplomatici americani, sono sforzi in direzione della guerra.
Ugo Volli