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Il Foglio Rassegna Stampa
15.06.2013 La parola che mancò nel film di Ernst Lubitsch
Commento di Anselma Dell'Olio

Testata: Il Foglio
Data: 15 giugno 2013
Pagina: 9
Autore: Anselma Dell'Olio
Titolo: «Il magico tocco di Lubitsch»

Sul FOGLIO di oggi, 15/06/2013, a pag. IX, con il titolo "Il magico tocco di Lubitsch", Anselma dell'Olio commente la riedizione italiana restaurata del film "Vogliamo Vivere" (To be or not to be) di Ernst Lubitsch. Un genio del cinema, che Dell'Olio giustamente ricorda con il richiamo dei suoi film.
C'è un punto però sul quale non siamo d'accordo, quando Dell'Olio scrive: "
Il film è uscito in piena guerra e con la Polonia occupata, ma il 1942 – sappiamo con il senno di poi – era l’anno in cui i nazisti misero in atto i piani per la Soluzione finale. In occidente a quell’epoca si sapeva dei campi di concentramento, ma nessuno – certo non a Hollywood – sospettava nulla di camere a gas e forni crematori. Il film riscuote l’entusiasmo del pubblico ma ci sono critici e opinionisti furiosi perché il cineasta si è permesso di offendere, secondo loro, le vittime della tragica aggressività tedesca. I perbenisti che alimentarono la controversia non coglievano il genio satirico di Lubitsch. Per lui, Hitler.. ecc"
E' vero, in Occidente poco si sapeva  nel 1942 dello sterminio degli ebrei messo in atto dai nazisti, ma il "Grande Dittatore" di Charlie Chaplin è del 1940, a Hollywood chi voleva sapere,sapeva, di sicuro sapeva Ernst Lubitsch. E' probabile che la scelta di escludere nel film ogni riferimento agli ebrei - la parola ebreo non viene mai pronunciata, tranne una sola volta quando un attore recita Shakespeare, ma fuori contesto- fosse dovuta a motivi commerciali.


Negli anni '30 Hollywood produsse una quantità notevole di film favorevoli all'arrivo di Hitler in Germania, e negli Usa era ancora diffusissimo un forte anti-semitismo. A criticare il film di Lubitsch non furono i "
perbenisti" ,come scrive Dell'Olio, ma tutti coloro, ebrei e non ebrei, che avevano capito che la politica di Hitler non era "aggressiva",come purtroppo scrive Dell'Olio, ma criminale, e che le vittime erano gli ebrei europei. Fu una polemica fortissima, soprattutto mentre usciva in Usa il libro di Jan Karski che sui campi di sterminio rivelava la terribile verità.
Noi diciamo, più che a Lubitsch, grazie a Mel Brooks, che nel 1983 girò, anche interpretandolo, la copia esatta e con lo stesso titolo "To be or not to be" del film di Lubitsch, riparando quel torto enorme. La parola ebreo non solo c'è, ripetuta ogni volta che andava fatto, ma è la chiave per capire la storia dell'intero film. Che non ha perso nulla della meravigliosa ironia di Lubitsch, anzi, ce l'ha restituita intatta e persino accresciuta.

Ecco l'articolo:

Siete depressi, disgustati, stanchi della vita? Un rimedio c’è: “Vogliamo vivere!” dell’impareggiabile Ernst Lubitsch. Il film, del 1942, è di nuovo nelle sale italiane, grazie alla Teodora Film di Vieri Razzini e Cesare Petrillo. Celeberrimi per “the Lubitsch touch”, il tocco alla Lubitsch, i film del maestro berlinese, naturalizzato californiano, sono da vedere tutti, e un numero ragguardevole merita la definizione abusata di capolavoro: pensiamo a “Mancia competente” (del 1932), “Partita a quattro” (1933) con Gary Cooper e Fredric March, “La vedova allegra” (1934) con Maurice Chevalier, “Ninotchka” (1939) con Greta Garbo e Melvyn Douglas, “Scrivimi fermo posta” (1940) con Jimmy Stewart e Margaret Sullivan, e, certamente non ultimo, “To Be Or Not To Be” (titolo originale di “Vogliamo vivere”) con Jack Benny e Carole Lombard. Il tocco alla Lubitsch è difficile da descrivere ma basta un qualunque suo film per coglierlo. Significa un’atmosfera di leggerezza mai scadente e spesso dotata di spessore. E’ uno spirito, un umore, che pervade ogni fotogramma, e include il piazzamento sempre impeccabile e discreto della macchina da presa, una grande economia della trama, anche la più complessa, dialoghi frizzanti sempre sbiechi, trasversali, mai diretti, che tutto dicono senza essere illustrativi, ovvi. Anche la direzione degli attori mostra il tocco alla Lubitsch. Jack Benny, protagonista di “Vogliamo vivere”, disse in un’intervista che il maestro mostrava in maniera succinta e dettagliata come voleva che si facesse ogni scena. Sapeva che un asso della comicità come Benny avrebbe tradotto i suggerimenti a modo suo. In un saggio del 1972, Peter Bogdanovich osserva che di sicuro lo faceva con tutti. “Si vedono i risultati del suo tocco in ogni attore, poiché tutte le star dei suoi film – Benny stesso, Gary Cooper, Lombard o Kay Francis, Maurice Chevalier o Don Ameche, Jeanette MacDonald o Claudette Colbert – recitano nello stesso, inconfondibile stile”. Sarebbe un metodo raccapricciante per i seguaci dell’Actors Studio e del metodo Stanislavskij, ma Lubitsch mai conculcava la personalità degli attori: riusciva a trasmetter loro la sua personale visione della vita, di come si sta al mondo; perciò si comportavano diversamente che in altri film. Molti hanno cercato di imitarlo, nessuno ci è riuscito. Billy Wilder – che Lubitsch lanciò nel breve periodo in cui per miracolo dirigeva uno studio – aveva un cartello nel suo ufficio con la scritta: “Che cosa avrebbe fatto Lubitsch?”. Ma l’anima del suo spirito raffinato e terragno, realista e fiabesco, sfuggiva anche al tifoso più ardente. Le impronte di Lubitsch sono dappertutto nelle migliori commedie romantiche, un genere che, scrive A. O. Scott del New York Times, è stato lui a inventare e perfezionare. E a contrassegnare con temi adulti e giocosità infantile, allusioni sessuali sottili e spiritose, e un’allure urbana sofisticata e di mondo quant’altri mai. Lubitsch – attore, regista, sceneggiatore e produttore cinematografico – nasce a Berlino nel 1892, da madre tedesca e padre bielorusso, ebrei ashkenaziti. Per poco tempo tiene la contabilità dell’atelier del padre sarto, ma presto fugge verso le luci della ribalta. Inizia come attore di teatro nel 1911 con la compagnia del Deutsches Theater diretto dal monumentale austriaco Max Reinhardt. Il regista e direttore viennese riunisce intorno a sé, specie durante la Repubblica di Weimar, registi, musicisti e pittori come Bertolt Brecht, George Grosz, Richard Strauss, Hugo von Hofmannsthal, Kurt Weill, Karl Kraus e tanti altri che ruotano intorno a Vienna, Monaco e Berlino. Fonda una scuola-teatro, il Kammerspiel, che laurea artisti come Marlene Dietrich, Greta Garbo, Leni Riefenstahl, Friedrich Wilhelm Murnau, Georg Pabst e Fritz Lang. Lubitsch brilla di luce propria in questa costellazione, e insieme agli altri esporterà il modello continentale a Hollywood, dove più tardi molti espatrieranno. A Berlino Ernst si dedica quindi al cinema. Dopo una quarantina di film come attore, passa alla regia, dove si specializza in commedie leggere e drammi storici in costume. Dopo l’enorme successo di pubblico e critica di “Madame DuBarry” (1919) e “Anna Bolena” (1920) gli si schiudono le porte di Hollywood, dove lo chiama Mary Pickford nel 1921 per “Rosita”, accolto bene dalla critica e dal pubblico. Inanella una serie di ottimi film muti di successo, facendosi conoscere per l’abilità con commedie sofisticate come “Matrimonio in quattro (1924), “Il ventaglio di Lady Windermere” (1925) e “La vita è un charleston” (1926). Ma è quando passa alla Mgm, e poi con l’arrivo del sonoro, che spiega le ali e si dedica con profitto ai musical, come “Il principe consorte” (1929), “Montecarlo” (1930) e “L’allegro tenente” (1931). Salutato come un genio assoluto del nuovissimo genere musicale emergente, inizia a collezionare candidature all’Oscar (alla fine ne riceverà uno solo, un Oscar speciale “per il suo contributo al cinema”). “Vogliamo vivere” è la storia di una compagnia di teatro popolarissima in Polonia per il suo sgangherato repertorio che spazia da Shakespeare al vaudeville. Il simpatico carro di Tespi, diretto dal guittoin- capo Josef Tura (Jack Benny) si trova a doversi inventare mille stratagemmi pericolosi per sventare un complotto nazista, prima e dopo l’invasione dell’esercito tedesco. Il film inizia con una sorprendente apparizione di Hitler a passeggio nelle strade di Varsavia, prima dell’invasione del 1939. Scopriamo che si tratta di Bronski, un attore della troupe di Tura che ha il ruolo del Führer in una nuova satira antinazista. Più tardi a teatro vediamo per la prima volta un tormentone che dà il titolo originale al film. Maria Tura (Carole Lombard) prim’attrice e moglie di Josef, dà appuntamento al suo spasimante, il tenente Stanislav Sobinski (Robert Stack), un aitante pilota dell’aeronautica militare polacca. Gli suggerisce di sgattaiolare via dalla platea per recarsi nel suo camerino non appena il marito intonerà il celebre soliloquio di Amleto, “Essere o non essere”, momento di massimo impegno per l’attore, una garanzia che i piccioncini non saranno scoperti. La faccia di Benny quando l’improvvido pilota, seduto al centro della platea, costringe i vicini ad alzarsi rumorosamente, è la perfetta rappresentazione di un classico della comicità di tutti i tempi, e in particolare degli entertainer di vaudeville: lo slow burn. Consiste in una prima espressione di stupore per un’offesa; e quando l’uscita si prolunga, distraendo tutti dalla declamazione dei versi del Bardo, l’espressione di Tura-Benny lentamente si trasforma in una maschera di ghiaccio bollente, con uno sguardo-lanciafiamme che sprizza odio e indignazione: lo slow burn è servito. In seguito un montaggio mostra i carri armati tedeschi che invadono la Polonia. Si passa a una riunione di aviatori patrioti della divisione polacca della Royal Air Force a Londra. Il nuovo capo della resistenza polacca, il professor Siletsky, indica che presto rientrerà a Varsavia. Sobinski gli prega di portare una lettera all’amante Maria Tura. Il pilota s’insospettisce quando il professore mostra di non sapere chi è Maria, celebre diva del palcoscenico in patria. I superiori di Sobinski lo spediscono allora di gran carriera a Varsavia, preoccupati che il finto partigiano faccia cadere nelle mani della Gestapo la lista di partigiani che operano nella Polonia occupata. Di lì parte una trama complessa a orologeria, talmente esemplare che ci si rende conto di quanto sia complicata e perfetta anche solo nel cercare di ricostruirla. E’ una serie di travestimenti (tornano utili i teatranti, esperti in materia) tradimenti, inganni, rivelazioni, invenzioni comiche e tragicomiche che toglie il fiato per l’insieme di divertimento assoluto e paura che si scopra il contro-complotto che coinvolge gli attori. Il più a rischio è Tura, che s’incarica di uccidere Siletsky con una serie di trucchi e doppi giochi azzardati esilaranti. L’umorismo sottile e il witz visivo da sublime virtuoso sono tipici del “Lubitsch touch”. Il film è uscito in piena guerra e con la Polonia occupata, ma il 1942 – sappiamo con il senno di poi – era l’anno in cui i nazisti misero in atto i piani per la Soluzione finale. In occidente a quell’epoca si sapeva dei campi di concentramento, ma nessuno – certo non a Hollywood – sospettava nulla di camere a gas e forni crematori. Il film riscuote l’entusiasmo del pubblico ma ci sono critici e opinionisti furiosi perché il cineasta si è permesso di offendere, secondo loro, le vittime della tragica aggressività tedesca. I perbenisti che alimentarono la controversia non coglievano il genio satirico di Lubitsch. Per lui, Hitler e i suoi gauleiter e sgherri erano dei miserabili soprattutto perché tremendamente maleducati. Se “Vogliamo vivere!” sopravvive oggi, è perché conserva intatta la pungente presa per il culo di spaventosi invasori, mentre onora ed esalta uomini e donne che, a tu per tu con una macroscopica minaccia, conservano il buon umore e un’indomabile fiducia nelle proprie risorse. (Nel film Tura travestito da Hitler dà all’attore Bronski l’occasione per realizzare il suo sogno: recitare finalmente il monologo di Shylock dal “Mercante di Venezia”: “Ma un ebreo non ha occhi?”). Sono stata una bambina fortunata. Ho visto per la prima volta “Vogliamo vivere!” nel rumpus room della nostra azienda agricola al centro della California. Eravamo lontanissimi da centri con un cinema, e da noi anche la televisione è arrivata con molto ritardo. Ma gli amici attori di Hollywood dei miei genitori ci regalarono negli anni Quaranta un proiettore 16 mm. Studiavamo sui cataloghi delle major i film da noleggiare, e poi li ordinavamo, probabilmente per telefono. (Rammento tuttora il nostro numero: 651). Venerdì sera andavamo con mia madre alla Greyhound station di Tipton, borghetto forte di circa 300 anime, per ritirare le ambite scatole marroni, piatte e quadrate che contenevano i rulli magici, legate con cinture di stoffa resistente. Di solito c’erano due film per fine settimana, tre se c’erano le feste lunghe. Dopo cena arrivavano nel rumpus (letteralmente “stanza della baldoria”, obbligatoria nelle villette di quegli anni) gli altri campagnoli: il fattore John Watanabe con moglie e sette figli. Kinuko aveva un anno più di me ed era la mia amica del cuore. Poi c’era l’altro fattore, l’oriundo tedesco August Prinz, la moglie Molly e la figlia June. Da un’azienda agricola distante una trentina di chilometri venivano gli zii Kermit e Millie Ellefson con le figli Arlene, Mitzi, Edna e Lois (detta Butch per scherzare sul maschio mancato). I rumpus erano ambienti più lunghi che larghi, a volte con un tavolo da biliardo o da refettorio, e sempre con un bancone da bar con gli sgabelli, e dietro la cucina a giorno e i frullatori per fare milkshakes, e contenitori di vetro pieni di patatine e popcorn. Si piazzava il proiettore davanti al bancone con sedie e panchine messe in fila. Dall’altra estremità si srotolava lo schermo sul suo treppiedi, si abbassavano le luci, e la mamma proiezionista avviava lo spettacolo. Così abbiamo visto centinaia e centinaia di film d’ogni genere, ma i preferiti erano le commedie. “Vogliamo vivere” era particolarmente caro perché Benny lo adoravamo. Benjamin Kubelsky (1894-1974), alias Jack Benny, inizia come violinista di professione. Giovanissimo scopre di guadagnare meglio fingendo di suonare male negli spettacoli di vaudeville che facendo concerti. Al primo lavoro si trova in cartellone con i fratelli Marx. La loro madre e manager Minnie vuole portare il diciasettenne Benny in tournée con loro, ma mamma Kubelsky rifiuta di dargli il permesso. Più tardi sfonda in radio con “The Jack Benny Program”, ed è uno dei pochi a riscuotere lo stesso successo nella transizione alla tv. Era noto per il timing comico impeccabile e le pause pregnanti. Era forse l’unico comico che riusciva a far ridere con il silenzio – in radio, dove notoriamente il vuoto di parole è castigato con la temibile frase “dead air”, aria morta. Tra i tormentoni c’erano i ricorrenti sfottò per la sua proverbiale (e fantomatica) tirchieria. Lo sketch partiva con un rapinatore che lo minaccia con la pistola e sibila la classica frase: “O la borsa o la vita!” La lunga pausa che si prende Benny per riflettere sulle diverse opzioni scatena un’ilarità irresistibile, immancabilmente. Un altro suo classico tormentone ruotava proprio intorno a “Vogliamo vivere”, in quanto unico film di qualità che aveva interpretato. Benny raccontava che quando Lubitsch gli telefonò per invitarlo a partecipare al suo prossimo film, gli rispose subito di sì senza chiedere alcuna informazione sul progetto. E a Peter Bogdanovich che gli chiedeva perché, rispose: “Io e Bob Hope e altri comici abbiamo sempre fatto dei film bruttini, girati da mestieranti. Se uno come Lubitsch ti chiama, accetti a scatola chiusa, punto”. La bionda Carole Lombard aveva fatto la gavetta nei demenziali corti di Mack Sennett. Erano straordinari la mobilità comica del bellissimo viso luminoso a forma di cuore, del corpo sinuoso e flessibile, gli occhioni che passavano in un battibaleno da oblò innocenti a sguardi maliardi da seduttrice navigata. Giocava con i suoi ruoli come un bambino con il pongo. Era l’avis più rara immaginabile: una dea dello slapstick di sublime avvenenza. Era anche molto amata. L’ex marito William Powell rifiutava anche un film importante se non aveva lei accanto. Morì in un incidente aereo al ritorno da un giro degli Usa per vendere le obbligazioni di guerra. Il marito Clark Gable fu devastato dalla sua morte e, pur risposandosi due volte, volle essere sepolto accanto a lei. Lubitsch, cardiopatico, le sopravvisse meno di cinque anni. Il sesto infarto lo coglie nel 1947 sul set del film “La signora in ermellino”, che sarà completato da Otto Preminger. Aveva 55 anni. Ha lasciato una trentina di film muti, e altrettanti sonori da vedere e rivedere, ogni volta scoprendo nuovi dettagli geniali. Dopo il suo funerale, si racconta che Billy Wilder disse mogio a William Wyler: “Mai più Lubitsch”. “Peggio ancora”, gli rispose il regista di “Vacanze romane”: “Mai più film di Lubitsch…”.

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