Sul CORRIERE della SERA di oggi, 15/06/2013, a pag.18, due cronache da Iran e Turchia di Francesco Battistini e Monica Ricci Sargentini, troppo ottimiste. In Iran a dominare sarà sempre l'ayatollah Ali Khamenei, chiunque esca vincitore dalle urne. In Turchia il centro delle proteste non sono gli alberi di piazza Taksim, sono il simbolo di una protesta molto più profonda contro l'islamizzazione del paese messa in atto da Recep Tayyip Erdogan.
Francesco Battistini: " Iraniani in fila al voto, il candidato moderato riaccende le speranze "

Ali Khamenei, dietro il ritratto di Khomeini
Un'ondina verde sul voto iraniano. Se diventerà lo tsunami delle contestazioni 2009, si vedrà, ma pare già qualcosa in quella palude che è stato l'Iran degli ultimi quattro anni. L'onda porta sulla cresta del voto presidenziale Hassan Rohani, 64 anni: l'unico religioso fra tanti candidati finti laici, l'unica colomba rimasta fra tanti falchi, l'unico a sperare nel ballottaggio con gli ultraconservatori. Più che i dati ufficiosissimi, è l'affluenza alle urne a sostenerlo: comunque vada, il segnale che i riformisti e i liberali si sono ripresi l'iniziativa politica, scegliendo di votare in massa. E' stato un afoso venerdì in coda ai seggi, dicono da Teheran (e ci si deve fidare sulla parola, perché gli osservatori internazionali non sono stati ammessi, i pochi giornalisti stranieri sono stati portati apposta nelle sezioni più affollate, i dipendenti della Bbc hanno ricevuto minacce perfino per le loro famiglie). Le fonti governative raccontano di un'affluenza oltre l'80%, forse inferiore a quella clamorosamente alta del 2009, ma superiore a ogni previsione, tanto da ritardare di cinque ore la chiusura delle urne e da far pensare subito quel che oggi le cifre ufficiali potrebbero confermare: per scegliere il nuovo presidente si metterebbe in cartellone un secondo round, il 21 giugno, Rohani contro il durissimo il più strenuo sostenitore del programma atomico, Said Jalili, o contro il sindaco di Teheran, Qalibaf. La Guida suprema Ali Khamenei, che voleva evitare un doppio turno e fare un dispetto al Grande Satana americano («ho sentito che non accetteranno queste elezioni — commentava ieri mattina l'ayatollah —. Ok, vadano al diavolo!»), aveva invocato un grande afflusso al voto ed è stato accontentato: alla fine si sono mossi anche i giovani di Teheran, per riproporre uno scenario simile a quello che quattro anni fa portò agli scontri di piazza per Mousavi. Singolare bandiera, questo conciliante chierico che dieci anni fa concordò l'unica moratoria nucleare con l'Europa e ora si presenta, dopo l'era incendiaria di Ahmadinejad, come l'uomo d'un possibile, timido dialogo con l'Occidente. Pochi s'illudono: un Rohani da solo non potrà mai promettere nulla, finché a decidere resterà il Khamenei che a questo voto sponsorizzava Jalili, tutt'al più l'eterno Velayati, già ministro degli Esteri. Un eventuale ballottaggio di Rohani però, nell'immobile scena di Teheran, è un ballon d'essai: spetterà al futuro presidente impostare la politica economica, e solo Allah sa quanto le sanzioni per la Bomba pesino sull'umore degl'iraniani. «Votate per una maggiore coesione nazionale», era stato ieri l'appello di Akbar Rafsanjani, il grande escluso, che ha convinto l'altro riformatore (Aref) a ritirarsi e invitato tutte le opposizioni a puntare su Rohani. «Le voci secondo le quali il presidente è già scelto sono solo bugie — aveva avvertito lo stesso Rohani —. Il presidente, ricordatevelo, lo eleggono solo gli elettori». La tensione per la sua rimonta era nei fatti: uno dei capi del suo staff è stato sfigurato con dell'acido, ieri, mentre tornava dal seggio. «Vietato festeggiare in anticipo», ordina adesso il governo, per la paura che proclamazioni anticipate (come nel 2009) scatenino la rabbia di piazza per le possibili frodi. «Un ballottaggio di Rohani potrebbe risvegliare i delusi del 2009 — dice Majid Rafizadeh, analista di Harvard sulle cose iraniane —. Ma si tratterebbe al più di speranze, perché non è immaginabile un reale cambio di politica». Nelle ultime due settimane, l'Iran ha ordinato sui mercati mondiali tre milioni di tonnellate di grano, l'unica cosa che può comprare senza violare le sanzioni. C'entra il cattivo raccolto, chiaro. Ma c'entra la pancia vuota d'un Paese che, soprattutto, vuole liberarsi del loglio.
Monica Ricci Sargentini : " Turchia, marcia indietro sul parco contestato. Ma la piazza non si fida"

Piazza Taksim
DAL NOSTRO INVIATO
ISTANBUL — Alla fine Recep Tayyip Erdogan ha dovuto cedere ai ragazzi di Gezi Park. Giovedì notte, dopo una lunga giornata di tensione, si è deciso ad incontrarli e a promettere loro che le ruspe si fermeranno almeno finché la magistratura non avrà detto la parola finale sul progetto. E, anche in caso di una sentenza favorevole all'abbattimento degli alberi, il premier turco ha assicurato che indirà un referendum cittadino sul rifacimento della contestata caserma ottomana. La svolta, tardiva, arriva dopo la tirata d'orecchie da parte della Ue e dell'Onu che mercoledì avevano criticato l'uso eccessivo della forza da parte della polizia turca. I mercati hanno subito mostrato di gradire i toni insolitamente concilianti usati da Erdogan ma i ragazzi di Gezi Park si sono mostrati scettici. Ieri nel parco si sono tenute decine di assemblee, simili a quelle dei collettivi politici negli anni 70, in cui le promesse del premier sono state messe in discussione. «È tutto un bluff — ha detto Mustafa Nogay, ambientalista dell'Associazione Gezi Park, autrice del ricorso in tribunale che ha fermato le ruspe —. Il prefetto non si è dimesso, il progetto è solo sospeso e gli arrestati sono tuttora in carcere. È solo una scusa per attaccarci di nuovo. Per questo dobbiamo andarcene. Non voglio che ci siano altri morti». Ma non tutti vogliono lasciare il parco. «Tayyip non vincerai mai contro di noi», era il testo di uno striscione ai margini del parco. «La parola del governo non conta nulla, se la sono già rimangiata varie volte in questi giorni», dice un giovane prendendo in mano il megafono. Ieri sera intanto a piazza Taksim si commemoravano le vittime della rivolta, salite a cinque dopo il decesso ad Ankara di un ragazzo di 26 anni. Il parco era ancora affollatissimo a dispetto degli auspici del premier che aveva chiesto la fine della protesta: «Se domattina qualcuno sarà ancora lì faremo quello che dovremo fare», aveva detto. Ieri Erdogan è tornato ad accusare la stampa estera di diffamare il Paese, il ministro della Sanità ha aperto un'inchiesta sui medici che hanno curato i manifestanti feriti e il governo ha annunciato misure per limitare l'uso di Twitter. Oggi e domani, ad Ankara e Istanbul, scenderà in piazza il popolo dell'Akp. La Turchia appare spaccata in due.
Per inviare al Corriere della Sera la propria opinione, cliccare sulla e-mail sottostante