Sulla STAMPA di oggi, 15/06/2013, a pag. 41/27, con il titolo "Putin sfida le esitazioni di Barack", Maurizio Molinari commenta l'inconcludente politica estera di Barack Obama.
Maurizio Molinari
Con la decisione di armare i ribelli Barack Obama vuole impedire a Bashar Assad di riconquistare Aleppo, annientare l’opposizione e restare al potere di una Siria trasformata in atollo iraniano. Se lo scorso anno il Presidente americano aveva messo il veto sugli aiuti militari ai ribelli ed ora cambia idea, chiedendo alla Cia di consegnarli in fretta, è perché allora Assad barcollava mentre adesso vede concretamente la possibilità di imporsi nello scontro militare. L’affluire di migliaia di Hezbollah libanesi, soldati del regime e miliziani del Baath attorno ad Aleppo è l’avvisaglia della battaglia forse decisiva nella guerra civile che dura da oltre due anni ed ha superato le 90 mila vittime.
Dallo scorso luglio l’antica perla dell’Impero Ottomano sulla Via della Seta è per il 60 per cento in mano agli insorti. Si tratta della città più popolosa della Siria, nodo strategico della dorsale sunnita. Assad vuole riprenderla ripetendo in grande stile la tattica con cui ha espugnato l’assai più piccola ma altrettanto strategica Qusayr: accerchiamento asfissiante con le truppe regolari e i miliziani, massicci bombardamenti da cielo e terra, offensiva frontale della fanteria di Hezbollah, che non prende prigionieri.
Le analisi militari che Pentagono e intelligence hanno recapitato nella «war room» della Casa Bianca non danno troppe speranze ai ribelli, male armati e ancor peggio organizzati. C’è però una finestra di tempo per scongiurare la restaurazione di Assad perché i 190 kmq di quartieri densamente popolati Aleppo suggeriscono che la battaglia sarà più lunga e cruenta di quanto avvenuto nei 35 kmq di una Qusayr semideserta. Questa finestra di tempo era l’«ultima opportunità per evitare un altro Ruanda, una nuova Bosnia», come ha detto Bill Clinton memore degli errori compiuti alla Casa Bianca, e Obama ha deciso di sfruttarla facendo propri i suggerimenti dei suoi consiglieri liberal neo-interpreti dell’interventismo umanitario degli Anni Novanta: Susan Rice, Samantha Power e John Kerry. Il superamento della «linea rossa» dell’uso dei gas contro i civili come motivo per armare i ribelli si richiama proprio ai precedenti dei Balcani: l’America si muove per proteggere i civili quando il dittatore di turno è determinato a compiere le stragi più orrende. Ma quella di Obama è una scelta venata dall’incertezza sulle armi da fornire perché il Presidente che ha posto fine alla guerra in Iraq e farà altrettanto con quella in Afghanistan si oppone ad un coinvolgimento dell’America in un altro conflitto. E’ frenato dall’altra anima dell’amministrazione: la realpolitik di Chuck Hagel e Tom Donilon che lo ammoniscono sui rischi che le armi Usa possano finire al Fronte Nusra, affiliato ad Al Qaeda. Obama non vuole inviare soldati, limita i tipi di armamenti da consegnare ed esita sulla «no fly zone» invocata con forza dal repubblicano John McCain perché implicherebbe massicci bombardamenti sulle difese anti-aeree di Damasco, frutto di 40 anni di cooperazione militare russa.
La scommessa di Obama è di far leva sulla necessità di proteggere i civili dai gas di Assad per dar vita ad una coalizione internazionale a sostegno dei ribelli composta da europei, turchi e arabi sunniti - a partire dal summit del G8 che lunedì si apre in Irlanda del Nord. La presenza in Siria, secondo insistenti indiscrezioni, di consiglieri francesi e britannici che addestrano i ribelli all’uso delle armi saudite e qatarine arrivate attraverso Giordania e Turchia lascia intendere che la cooperazione militare è più avanzata di quanto si possa immaginare. Ma ad ostacolare il tentativo di Obama di salvare Aleppo c’è il più determinato degli alleati di Assad: la Russia di Vladimir Putin ironizza sui gas inesistenti, paragona queste «bugie» e quelle «dette da George W. Bush sulle armi di distruzione in Iraq» e lascia intendere che al G8 ripeterà senza remore il veto pro-Damasco già più volte espresso all’Onu.
L’energia con cui Mosca protegge Assad svela un progetto strategico ambizioso. «Putin sta dimostrando al Medio Oriente che difende i suoi alleati mentre Obama li liquida, come fatto con l’egiziano Mubarak» riassume un alto diplomatico arabo a Washington, secondo il quale il Cremlino sfrutta la crisi siriana per tornare protagonista in una regione dove ha continuamente perso terreno sin dalla fine della Guerra Fredda. D’altra parte Teheran, regista politico-militare del sostegno ad Assad, ha un obiettivo da potenza regionale: sconfiggere i ribelli per consegnare la Siria di un Raiss indebolito nelle mani di Hezbollah e farne il tassello di un’alleanza filo-sciita che inizia a Beirut, passa per Damasco, continua nella Baghdad governata da Nuri al-Maliki e termina proprio in Iran. Sostenendo Assad, Putin si candida interlocutore privilegiato di questa potenziale alleanza, destinata a mettere sulla difensiva alleati e interessi di Washington dal Canale di Suez agli Stretti di Hormuz.
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