Un'analisi sul futuro israeliano che non tiene conto del 'fattore' palestinesi firmata Lucio Caracciolo
Testata: La Repubblica Data: 14 giugno 2013 Pagina: 29 Autore: Lucio Caracciolo Titolo: «Israele, il sogno della normalità»
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 14/06/2013, a pag. 29, l'articolo di Lucio Caracciolo dal titolo "Israele, il sogno della normalità".
Lucio Caracciolo
Caracciolo ha espresso le sue opinioni sul futuro di Israele e, come sempre, ha escluso la benché minima analisi sull'altro partner in gioco, i palestinesi. Un'esclusione grave per chi pretende di essere credibile quando alza il dito per ammonire Israele.
Israele è l’unico Stato al mondo che non vuole fissare i suoi confini. Perché? Perché la sua cifra è l’indeterminazione. Israele si offre come rifugio per tutti gli ebrei, eppure oltre metà di loro resta in diaspora. Vuole vedersi riconosciuto dagli arabi e dal resto del mondo come Stato ebraico, ma non si riconosce ufficialmente per tale. Non riesce a stabilire chi sia e chi non sia ebreo – motivo per cui non si è dotato di una costituzione – mentre considera ogni ebreo un israeliano in potenza. È sionista per definizione, dunque considera Gerusalemme (Sion) la sua capitale una e indivisibile, eppure una quota importante dei suoi cittadini – la cospicua minoranza araba, ma anche l’iperortodossa ebraica refrattaria allo Stato laico — non lo è né intende diventarlo. Aspira a tenere insieme democrazia, Terra d’Israele ( Eretz Israel) ed ebraicità, e tuttavia la demografia sembra condannarlo. Israele deve scegliere. Può essere ebraico e democratico – nei limiti di una peculiare democrazia etnica – rinunciando a installarsi su ogni spicchio dello spazio variamente collocato fra Mediterraneo, Mar Rosso ed Eufrate e abdicando persino alle terre conquistate nella guerra dei Sei giorni. Può invece associare spazio e democrazia annettendo i Territori occupati, con ciò abiurando il sionismo in favore di un caleidoscopio multiculturale a prevalenza numerica arabo-levantina. O può rinunciare alla democrazia, sposando espansione geopolitica ed ebraismo. Un Grande Israele in regime di apartheid, con gli ebrei in veste neo-boera e gli arabi come neri ghettizzati. Ma Israele può anche scegliere di vivere alla giornata, con il fucile al piede. Per sempre. Pronto a sempre nuove guerre, pur di scongiurare l’incubo del ritorno in diaspora. L’indeterminazione determinerà la fine dello Stato ebraico, che pure esita ad attribuirsi tale marchio? O forse è la condizione stessa della sua esistenza? La scelta di aprire il nuovo volume di Limes con la biografia geopolitica di Netanyahu intende marcare l’importanza di questa personalità nella configurazione dell’Israele attuale. Studiare Bibi e la sua famiglia aiuta a capire perché lo Stato ebraico sia oggi in mano a un’élite spiritualmente e spesso biograficamente americana, liberista in economia, culturalmente orientalista (nel senso di Edward Said: l’arabo e il musulmano sono incurabilmente arretrati, inaffidabili e fanatici) e geopoliticamente occidentalista. Tale corrente, inizialmente minoritaria, ma ben radicata nella diaspora americana, assurge a protagonista della scena israeliana sul finire del secolo scorso, subito dopo il disastro dei negoziati di Camp David e di Taba e lo shock della Seconda Intifada. Ma le origini della teoria e della prassi del nuovo Likud e dei suoi alleati affondano assai più indietro, nel revisionismo di Ze’ev Jabotinsky (1880-1940), il teorico del “muro di ferro” come unica strategia atta a domare gli arabi. Tesi cui si ispira il Gush Emunim, il movimento nato negli anni Settanta che offre copertura teologica all’insediamento dei coloni nelle terre conquistate durante la guerra dei Sei giorni. Né mancano i riferimenti al sionismo religioso fondato da rav Avraham Yitzchak Kook (1865-1935), conciliante Legge religiosa e Stato. Ramo teopolitico ben distinto dall’ultraortodossia dei “timorati di Dio”, i charedim in visibile crescita demografica (8-10% degli ebrei israeliani), che irritano la comunità laico-sionista in quanto “parassiti” dediti solo allo studio dei sacri testi. Il pragmatismo di Netanyahu verte su princìpi indeclinabili, perché georeligiosi. Il suo credo comincia e finisce in questa frase, pronunciata il 27 settembre 2012 davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite: «Lo Stato ebraico vivrà per sempre». Essa riflette la convinzione che Israele sia legittimato non dall’Olocausto, ma da Davide. Come scrive uno degli intellettuali che meglio esprimono la visione nazionalreligiosa di Netanyahu e affini, l’ebreo di origine russa Natan Sharansky: «Non c’è sionismo senza giudaismo, né c’è mai stato. Non c’è mai stato un popolo d’Israele che abbia avuto diritto alla Terra d’Israele. Essa spetta solo al popolo ebraico. (…) La differenza fra l’identità israeliana secondo Yehoshua e l’identità ebraica è esattamente la differenza tra il fatto di esistere e il diritto a esistere. (…) Se, il Cielo non voglia, [...] rinnegassimo il fatto di aver realizzato la speranza coltivata dagli ebrei per duemila anni, allora perderemmo il diritto di esistere. Perdendolo, saremmo perduti». Se Israele fosse normale, sarebbe turbato dalla frammentazione degli spazi geopolitici d’intorno. Oltretutto, guerre e instabilità alle porte di casa non gli consentono di sfruttare appieno, ramificandolo nella regione, il suo potenziale economico. Tanto più imponente, in prospettiva, dopo la scoperta di enormi giacimenti di gas nel bacino del Levante, che dispute economiche e frontaliere permettendo nel giro di un decennio garantirebbero a Israele l’indipendenza energetica e lo eleverebbero al rango di paese esportatore, quale hub regionale. Quest’ultimo scenario sconta una rivoluzione culturale, prima che geopolitica. Implica considerare lo stato d’eccezione permanente come problema, non risorsa, coinvolgersi nella gestione della pace e dell’ordine in Medio Oriente, non contribuire a destabilizzarlo. E immaginare possibile integrarsi – non assimilarsi! – nella regione: diverso fra diversi, nemico di nessuno. Herzl ci credeva: “Se vorrete, non è una favola”, scolpiva sulla copertina di Vecchia Terra Nuova. Quando ciò accadrà, Israele sarà a suo modo uno Stato fra gli Stati. Confesseremmo tuttavia la nostra sorpresa se a battezzare l’Israele normale fosse il leader che meglio di ogni altro ne protegge l’eccezionalità.
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