Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 11/06/2013, a pag. 33, l'articolo di Marco Neirotti dal titolo "1938: per gli ebrei l’America diventa Terra Promessa".
Gianna Pontecorboli, America. Nuova Terra Promessa (Francesco Brioschi editore)
«Sapevamo come andavano le cose ed eravamo coscienti che c’era qualcosa nell’aria... Mia sorella è arrivata con il giornale in mano. Tutti abbiamo detto: ci siamo, comincia anche qui». Era il 14 luglio 1938, la nube nera del «Manifesto della razza» e poi del Regio Decreto copriva di imminente orrore l’Italia. Per la comunità ebraica si chiude la scuola pubblica, scompaiono le cattedre universitarie, si serrano gli studi professionali. Fra le classi più abbienti e colte - se pur qualcuno rimane frastornato e attendista, nell’illusione che non si vada oltre - incomincia la ricerca di riparo all’estero, dapprima in Svizzera, Francia, Inghilterra, poi verso le Americhe e anche l’Australia.
Gli ebrei italiani in fuga dal fascismo furono circa cinquemila. Le voci, i racconti, le sfide costituiscono il coro di America. Nuova Terra Promessa (Francesco Brioschi editore) di Gianna Pontecorboli, giornalista che vive a New York. Non soltanto un denso documento storico, ma un cammino materiale e dell’anima dentro le vite in viaggio, in lotta per un domani da ricostruire, fra i tortuosi passaggi della diffidenza americana e le grandi prove di solidarietà.
Sono uomini d’affari, giornalisti, medici, scienziati, musicisti, artisti. Sono scampati per tempo alla vicina ferocia dei lager. Ma sono parte di una profonda tragedia. I grandi bastimenti come il Saturnia li «affidano» alle banchine del porto di New York, qualcuno dopo che è riuscito a perforare i controlli contro la messa al riparo di patrimoni, qualcuno atteso da colleghi, amici, parenti, qualcuno ancora pronto a reinventarsi una sopravvivenza in un Paese che appena comincia a riprendersi dalla Grande Depressione, dove ancora sono scarsi i posti di lavoro e aprono solchi le divisioni sociali, dove molti guardano con occhio malevolo non soltanto i rifugiati politici o religiosi ma anche l’immigrazione tradizionale, dove il sospetto (vittime o spie?) e la burocrazia innalzano ostacoli e i fuggitivi dalla Germania, partiti prima, già occupano spazi. La «Terra promessa» non è comune, è diversa per ciascuno secondo carattere, mezzi, cultura, età. Ma il libro è corale, l’avventura di cognomi illustri, qualcuno destinato al Nobel (Fano, Luria, Segrè, Momigliano, Modigliani, Rieti, Cagli, Donati) e altri meno noti, accomunati dallo spirito di adattamento e dall’inventiva. Si parte sperando in una cattedra e ci si ritrova a vender pentole, si sogna la ricerca medica e ci si inoltra nella notte delle visite urgenti ai poveracci.
Gianna Pontecorboli racconta gli stratagemmi per abbandonare l’Italia, come la signora che va spesso a trovare una parente in Francia, vestita di pellicce e gioielli, e torna dimessa e di nuovo riparte agghindata e ancora rientra dimessa sotto gli occhi della sbirraglia, così da aver domani di che sostenersi all’estero. Ma è il momento dell’emergenza fuga. Poi viene il calarsi nella nuova realtà, come l’ha dipinto Giuseppe Prezzolini: «Arrivati non si misero a chiedere soccorsi, e perfino invece ne dettero, aiutandosi gli uni con gli altri... Per gli ebrei erano italiani, per gli italo-americani ebrei».
La fuga nella nuova Terra promessa è anche la narrazione di una fuga dei cervelli, è parte della Storia della Scienza, dell’Economia, della Cultura: Ugo Fano, Salvador Luria, Franco Modigliani, Massimo Calabresi. Si cerca una cattedra, come in Italia, e si finisce in pianeti ancora più grandi: con l’ingresso dell’America nel conflitto, Emilio Segrè è chiamato da Oppenheimer al progetto della bomba atomica. Oppure, nonostante gli appoggi, non si ha fortuna e ci si inventa una vita. Aiutati da Toscanini, arrivano musicisti come Vittorio Rieti, Mario Castelnuovo Tedesco, Dario Soria. Bisogna accontentarsi, Rieti - illustre in patria - diventa un travet delle colonne sonore del cinema. Vengono gli artisti come Corrado Cagli, che così sintetizza il viaggio, la vita ricostruita: «Un essere umano è come un albero: soffre a essere trapiantato». Poi, guardando la figura del suo disegno intitolato «Lo sgombero», commenta amaro: «Poveraccio, deve andare avanti, ma ha tanta voglia di tornare indietro». Finisce la guerra, ma l’incubo della realtà non è come quello del sonno, non si sgretola di colpo. Comincia la lacerazione dell’animo di fronte alla scelta, del misurare dentro di sé la distinzione tra rifugiato ed immigrato. E, se si torna, c’è di fronte l’incognita del «dove». Non è più lo stesso posto. È, forse, emigrare una seconda volta. Nella prefazione dove scolpisce in poche parole il dramma delle vittime e la vergogna del silenzio, scrive Furio Colombo: «Le vittime, finché vivono, finché esistono e testimoniano, non possono guardare all’orrore come al passato. Sanno che non è il passato».
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