Il commento di Stefano Magni
Stefano Magni, giornalista de L'Opinione
Dopo il viaggio di Informazione Corretta nei Territori, ci si può rendere perfettamente conto che è tutta una questione di prospettive. No, non sto parlando dei soliti discorsi salomonici del multiculturalismo, che mettono sullo stesso piano morale le “prospettive” ideologiche di aggressori e aggrediti. Parlo proprio di prospettive, senza virgolette. Mettiti a guardare Hebron dal suo suq (mercato) e griderai contro gli israeliani, come fanno tutti i politici “impegnati” e gli attivisti che si rispettino. Poi giri l’angolo. E ti accorgi che c’è poco o nulla da dire contro gli ebrei. Il suq di Hebron è un incredibile confine verticale, forse un caso unico nel mondo. Il piano terra, a livello della strada e del mercato è palestinese. Il primo piano delle stesse case è israeliano. Una rete protegge il suq dai lanci di pietre rifiuti (ma non da liquidi “di ogni genere”) che arrivano dagli israeliani. “I soliti coloni malvagi che si divertono a perseguitare i palestinesi”, dicono fior di servizi giornalistici. Ma siamo mai andati oltre quella rete? Abbiamo mai allargato lo sguardo oltre quella strada? Tutt’attorno al suq c’è una città palestinese, amministrata da palestinesi. Gli ebrei sono chiusi in un piccolo ghetto, ampio quanto una strada e poco più. Nel 1929 erano stati tutti massacrati dagli arabi, avevano subito una pulizia etnica più che un pogrom. Nel 1967 sono tornati, in una delle città più antiche (la più antica secondo certe ricostruzioni) e non hanno più voluto andarsene, pur accettando una condizione di assedio perenne. La via che porta dal cimitero ebraico alla Tomba dei Patriarchi (il più antico luogo di culto ebraico) è terra di nessuno: i palestinesi, nel 2000, avevano iniziato ad ammazzare tutti gli ebrei, come nel 1929. Alla fine, per ragioni di sicurezza, quelle case sono state abbandonate. Resta la strada sopra il suq, circondata, in alto e in basso, da abitanti ostili, che scrivono sui muri “Zionism is Racism” e si preparano a rifare quel che fecero i loro nonni. Quel primo piano di case dalle cui finestre, in tempi di disordini, volano oggetti e liquidi “di ogni genere” contro i palestinesi, è l’unica cosa che gli ebrei conservano. Un piccolo castello assediato e senza mura. Definire quegli ebrei come degli “aggressori” è possibile? Sì, se si considerano aggressori anche i ribelli del Ghetto di Varsavia della Seconda Guerra Mondiale: osavano persino reagire ai nazisti. Se non è ancora successo il peggio, è solo perché, contrariamente a quel che si pensa questa non è una guerra di popoli. I palestinesi del piano terra avrebbero ottime possibilità di salire al primo piano e sgozzare gli israeliani. Un attacco massiccio renderebbe quel 3% di città ebraica indifendibile. Se non succede, è perché i palestinesi locali, a parte minoranze politicizzate, non vuole far la guerra. Hebron, come ci spiegano i carabinieri della forza di osservazione (Fidh) riflette i conflitti che scoppiano altrove, a Gaza o in altri territori. Nella città e dalla città scoppia ben poco. Tradotto in soldoni: i militanti palestinesi locali fanno la guerra quando viene detto loro di farla. In caso di disordini, non solo gli ebrei tirano sassi dalle loro finestre, ma anche e soprattutto i palestinesi tirano pietre (e ci scappa anche qualche proiettile) contro i bus carichi di ebrei che vanno a pregare alla Tomba dei Patriarchi. Si rischia la vita, solo se si vuole andare a pregare in uno dei più sacri luoghi di culto ebraici. (Tra parentesi: la Tomba dei Patriarchi, nel corso della lunga occupazione araba e giordana, è stata trasformata in moschea, come da tradizione di persecuzione dei dhimmi e cancellazione delle minoranze religiose. Nonostante tutto, l’Unesco riconosce quel luogo di culto come musulmano e non come ebraico. Chiusa la parentesi)
Perché mi sono soffermato così tanto su Hebron? Perché è sintomatico di come viene trattata (distorcendola) la tensione nei Territori. Prendiamo un altro esempio, usato e abusato: il muro. La prospettiva gioca un ruolo importantissimo anche qui. Piazzati dietro il muro e guarda verso il Giordano: vedrai che le case palestinesi sono molto vicine. Ora guarda verso il Mediterraneo, vedrai che le case israeliane sono molto lontane. Ecco, allora, il “muro dell’apartheid”: se è vicino ai palestinesi e non agli israeliani, vuol dire che non è stato costruito per proteggere, ma per chiudere le comunità più povere della Palestina. Errore di prospettiva. Grossolano errore. A parte il fatto che è muro, in cemento armato, solo in alcuni tratti. Nel resto del percorso è una rete dotata di sensori. Ma poco importa. L’errore di prospettiva, in questo caso è storico. Per condannare la barriera senza alcun dubbio, dovremmo resettare la nostra memoria di almeno 7 anni. La barriera si può spiegare meglio come un frangi-flutti contro la marea del terrorismo che, fra il 2000 e il 2005, quasi finiva per sommergere del tutto lo Stato ebraico. E’ stata costruita lì dove arriva il pericolo, con criteri militari. Per comprenderne meglio la natura, facciamo un esempio nostrano e molto meno drammatico. Da un cavalcavia vicino a una cittadina di provincia, gruppi di tamarri lanciano sistematicamente sassi dal cavalcavia, ammazzando e ferendo gente a caso. Dopo uno, due, tre, quattro lanci, il comune decide di chiudere il cavalcavia e di piazzare una rete che divide la strada dalla cittadina da cui arrivano i tamarri, con il tacito accordo delle autorità del comune. I tamarri protestano perché la rete impedisce i loro movimenti. Comitati cittadini si riuniscono e organizzano proteste contro la “rete della vergogna”. Per dimostrare ai giornalisti che quella è fatta per discriminare e non per proteggere, fanno loro notare che è stata eretta a ridosso delle loro case, mentre, per difendere le auto, il comune avrebbe dovuto pagare la blindatura di tutte le auto di passaggio, per evitare morti e feriti. Daremmo retta a quei comitati cittadini? No. A parte qualche buonista di professione, li manderemmo a quel tal paese e chiederemmo misure ancora più severe contro i lanci di sassi. Ora, in Israele non abbiamo solo un problema di sassi dal cavalcavia. Abbiamo la memoria di 1000 e passa civili uccisi dai palestinesi in meno di cinque anni di Seconda Intifadah. Il muro ha abbattuto del 99% il numero di attentati. Val la pena pensarci, prima di demonizzarlo? Mentre passavo sull’autostrada per Gerusalemme e guardavo, dal basso all’alto, un tratto di barriera, personalmente mi sentivo molto più al sicuro. Dall’alto, senza la barriera, arrivavano sassi e proiettili di ogni calibro.
Altro frequente errore di prospettiva: Gaza. Ponendosi in un punto di vista palestinese non possiamo non notare vistosi segni di una massiccia presenza militare israeliana alle porte della città. Palloni frenati controllano l’area dall’alto. Non sono più quelli della Prima Guerra Mondiale, non hanno più il loro cestone con l’ufficiale d’artiglieria munito di binocolo che controlla la zona (e spesso diventa la prima vittima di ogni conflitto a fuoco), ma portano radar e sensori in aria, in modo da controllare ogni movimento e dare le coordinate dei lanci nemici in tempo reale: stesso ruolo di quelli della Prima Guerra Mondiale, ma aggiornato con i mezzi moderni. Sempre come ’14-18, la prima linea è presidiata da mitragliatrici. Ma anche qui sono aggiornate. Ci spiegano che non sono azionate sul posto, ma da 26 km di distanza: un soldato (più spesso una soldatessa, in questo caso) monitora con le telecamere di sorveglianza le attività sul suo tratto di fronte. Se c’è un attacco, può chiedere l’autorizzazione al comando locale e aprire il fuoco a distanza. E all’orizzonte svettano le torri dei radar e dei centri d’ascolto. Gaza, vista da questa prospettiva, è spiegata allo straniero sprovveduto come un gigantesco campo di concentramento. Al posto del filo spinato, c’è la barriera difensiva fatta di reti, sensori e tratti in cemento armato. Al posto delle guardie armate, ci sono le mitragliatrici azionate a distanza che ti possono fulminare in ogni momento. Al posto delle torrette di guardia ci sono radar e palloni frenati. Da quella posizione, gli israeliani “si divertono a torturare Gaza” quando vogliono e come vogliono. Descrizione pittoresca e molto suggestiva, sparata da tutte le fonti “impegnate”. Peccato che sia completamente sbagliata. Un grossolano errore di prospettiva, anche qui. Basta andare oltre la striscia di Gaza e vedere quel che avviene in Israele, per capire come mai ci siano quei palloni frenati, quelle mitragliatrici e quei sensori. Non serve andare indietro nella storia, ricordare quel che di male fece Hamas a Gaza (ai palestinesi di Gaza) e il rapimento di Gilad Shalit e molto altro ancora. Basta andare 800 metri più in là e vedere quel che avviene in territorio israeliano. gli stessi strumenti di sorveglianza e guerra elettronica sono gli unici che possono dare un certo senso di sicurezza agli uomini, alle donne, ai bambini che vivono e lavorano in queste campagne israeliane. Certo, Hamas e la miriade di associazioni terroristiche proliferate a Gaza si nascondono bene, portano i loro rudimentali (ma letali) razzi Qassam ovunque, anche a spalla. I lanci avvengono molto di frequente. E a questo punto la corsa verso i bunker, è l’unico modo di salvarsi la pelle.
In molti casi la situazione è disperata e le autorità locali non sanno come fare: “Dopo l’operazione Colonna di Fumo (campagna aerea contro Hamas, novembre 2012, ndr) il governo ha suggerito di rafforzare le difese di una fascia di territorio profonda oltre i 7 km dal confine prescritti in precedenza – ci spiega Tamir Idan, sindaco del comune di Sdot Negev, uno dei più esposti in assoluto – ma solo il 50% delle case è riuscito a dotarsi di una stanza blindata. L’altra metà è tuttora esposta al rischio di distruzione. La mia è una popolazione anziana e non sempre ha i mezzi per difendersi al meglio. In questi giorni, un signore in pensione è venuto a chiedermi aiuto, perché abita oltre la fascia dei 7 km, entro la quale il governo finanzia le difese dei privati e non ha abbastanza soldi per farsi il suo bunker. È riuscito a racimolare 45mila shekel (circa 9mila euro) ma gliene servono almeno il doppio. Io purtroppo non ho potuto dargli alcun aiuto, perché sono troppi gli uomini e le donne nelle sue stesse condizioni”. La pioggia di razzi è iniziata nel 2001, cinque anni prima che Hamas vincesse le elezioni a Gaza, sei anni prima che gli israeliani imponessero il blocco alla città. E non è mai finita. “Il novembre scorso, prima e durante Colonna di Fumo, per noi è stato un incubo: 148 razzi, solo in questo comune in un solo mese – ci spiega il sindaco di Sdot Negev – È una situazione indescrivibile, che non ti lascia respirare: un allarme dietro l’altro, sempre a correre nei bunker, mollando tutto quello che si sta facendo. Dopo Colonna di Fumo stiamo vivendo un periodo relativamente più tranquillo, che noi siamo soliti chiamare ‘pace’. In realtà i razzi arrivano ancora, meno di frequente. Solo che, fortunatamente, non hanno ammazzato nessuno”. In caso di allarme, “hai solo 15 secondi per andare nel rifugio più vicino, o correre nella stanza blindata. Nelle case che non riescono a dotarsi di una di queste, la gente si deve riparare infilandosi sotto i tavoli”. E sperare di non essere colpiti, perché un Qassam o, ancora peggio, un più avanzato razzo Grad, possono distruggere completamente un edificio.
Incontriamo il sindaco Tamir Idan nel kibbutz di Saad, a pochi chilometri da Gaza (che si vede, oltre i campi di girasole). “Non è il confine fra Francia e Svizzera – ci spiega – qui è lotta di sopravvivenza, tutti i giorni”. I bambini del kibbutz studiano in una scuola-fortezza, senza finestre: da ogni apertura possono entrare le schegge. Muri spessi poco più di mezzo metro: “ci riparano anche dai razzi Grad” – ci spiegano. Giocano a calcio, fra un bunker e l’altro. Nonostante tutto giocano, si divertono, gli abitanti del kibbutz fanno di tutto per vivere una vita normale. I bunker sono molto colorati e danno un tocco di creatività al paesaggio rurale. I giardini e gli immensi spazi verdi del kibbutz sono un tripudio di fioriture primaverili: fra un allarme e l’altro, evidentemente, c’è ancora chi ha la pazienza di curare il verde pubblico. Ovunque si percepisce una grandissima voglia di vivere. “Il 95% della gente ha deciso di restare, non c’è una grande fuga – ci spiega il sindaco – è difficile spiegare il perché. La gente di qui è molto credente e anche molto ottimista. Sentono intimamente il senso della comunità. Ci sentiamo protetti fra di noi. E inoltre i razzi arrivano anche a Beersheva, ad Ashkelon, persino a Tel Aviv, come abbiamo visto a novembre. E quindi dove potremmo mai scappare per sentirci più al sicuro?”.
E’ anche questa una questione di prospettiva. Guardando con la lente di ingrandimento dentro Israele, vediamo una nazione che cerca di essere benestante, nonostante le crisi economiche e militari, con un esercito potente che ha vinto tutte le guerre. Ma se ci togliamo quella lente e allontaniamo lo sguardo, vediamo un piccolo Paese, interamente sotto tiro, che in aereo puoi attraversarlo in due minuti, completamente circondato da Paesi ostili. Un Paesino con meno di 10 milioni di abitanti, circondato da popolazioni arabe 15 volte più numerose e pronte a sommergerlo. Una piccola nazione che, ad ogni mossa, subisce boicottaggi, che se cerca amici li trova oltre il Mediterraneo, oltre l’Atlantico, nel lontanissimo continente americano. E forse, in un futuro non remoto, viste le tendenze ideologiche emergenti da quelle parti, non li troverà nemmeno più laggiù. A furia di errori di prospettiva, sempre più gente inizia a pensare che quel Paesino debba sparire dalla carta geografica. Almeno possiamo dire: noi lo abbiamo visto, noi c’eravamo.