Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 07/06/2013, a pag. I, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " La festa di Assad ", l'articolo di Daniele Raineri dal titolo " I jihadisti sciiti sono la novità del conflitto siriano. Ne sono arrivati almeno il doppio rispetto ai jihadisti sunniti ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 15, l'articolo di Lorenzo Cremonesi dal titolo " Lampi di guerra sul Golan, feriti anche due caschi blu ".
Ecco i pezzi:
Il FOGLIO - Carlo Panella : " La festa di Assad "
Carlo Panella
La vittoria militare delle Brigate internazionali sciite a Qusayr segna una novità assoluta nella storia del medio oriente. In 65 anni di confronti militari nella regione mai prima d’ora un esercito arabo alleato di Mosca era riuscito a conseguire una netta vittoria in uno scontro militare di valore strategico. Sulle rive del Mediterraneo poi, con conseguenze cruciali per un’Europa impacciata come raramente nella sua storia. Questa svolta avrà profonde conseguenze sul piano militare, ma ha soprattutto una valenza politica: là dove gli alleati di Vladimir Putin – Bashar el Assad e il regime di Teheran – nonostante tutti i pronostici riescono a imporsi sul terreno in uno scontro forse decisivo, gli arabi che guardano con fiducia al campo occidentale sono costretti a ripiegare. Si vedranno nei prossimi giorni le conseguenze della controffensiva che le truppe di Assad sotto il comando di ufficiali iraniani del generale Suleimaini – che avevano ottenuto un mese fa una vittoria tattica a Khirbet Ghazaleh – porteranno verso Homs e Aleppo. Ma è già evidente che la previsione del dicembre scorso dell’intelligence tedesca e dell’ambasciatore americano in Siria, Robert Ford, su una rapida caduta del regime di Assad, “forse prima di Natale”, era destituita di ogni fondamento. Sul terreno in Siria continuano a operare (stime dei servizi francesi) circa 200 mila ribelli, più o meno armati e inquadrati. Ma a oggi essi controllano soltanto una delle 14 capitali provinciali, Raqqa, e la perdita di Qusayr chiude un cruciale canale di approvvigionamento di armi e logistica dal confinante Libano. In un contesto in cui ogni previsione si è dimostrata fallace, non si può certo rispondere positivamente al quesito che i giornali francesi avanzano apertamente (“E se Bashar el Assad vincesse la guerra?”), ed è più prudente attendere gli avvenimenti. Non è escluso che si consolidi uno scenario di “ghepardizzazione” della Siria, con ampie sacche periferiche in mano ai ribelli, una sostanziale tenuta del regime a Damasco e nelle zone costiere (densamente popolate da alawiti e strategiche per le mire russe sui porti di Tartous e Latakia, basi navali di Mosca) e una cronicizzazione della guerra di usura a Homs e ad Aleppo.
Quello che è certo è che la Siria resterà epicentro di una formidabile instabilità regionale, come testimonia la battaglia di ieri tra ribelli e lealisti per il valico sul Golan che collega Siria a Israele. L’elemento più grave della vittoria di Assad a Qusayr trascende però la stessa dinamica della crisi siriana. E’ diretta conseguenza di una strategia vincente di Vladimir Putin cui si è contrapposto un vuoto di strategia da parte di Stati Uniti, Europa e – non per la prima volta – del loro alleato arabo: l’Arabia Saudita. Con lucidità che gli va ora riconosciuta, Bashar el Assad si è mosso dentro una “visione” vincente, così ben sintetizzata in una sua intervista a Repubblica il 24 maggio del 2010: “I russi non hanno mai creduto che in medio oriente la Guerra fredda fosse finita. E neppure noi. Ha soltanto cambiato forma, s’è evoluta. La Russia sta riaffermandosi”. Assad ha agito forte di questa convinzione, che ha avuto forte conferma nel pervicace appoggio ottenuto da Mosca in sede Onu. Senza i veti di Mosca nel Consiglio di sicurezza, senza la fornitura degli S300 a Damasco (poco importa se siano arrivati o no: pesa il messaggio politico, soprattutto sul piano interno), il complesso politico-militare del regime che ha gettato tutta la sua potenza di fuoco su Qusayr sarebbe risultato perdente. Dentro questa logica di Guerra fredda, Putin ha poi dato fondamentale impulso all’Internazionale sciita che in Teheran (altra “protégée” di Mosca) ha il suo perno. I 12 miliardi di dollari che l’Iran ha investito in Siria, riversati da Assad in un welfare che ha contenuto l’espandersi della protesta, provengono dal réseau di alleanze internazionali del regime degli ayatollah che arriva sino al Venezuela. In una Siria in cui il 30 per cento degli occupati riceve uno stipendio statale, il rifluire di questi sussidi e dei finanziamenti all’agricoltura, risorsa di larga parte del territorio, ha giocato un grande ruolo nel recupero del consenso al regime. A fronte di questa lucida strategia russosiriana, l’occidente ha risposto secondo la logica definita – di nuovo – da Assad: “Se vogliamo parlare di strategie, il fatto è che gli Stati Uniti adottano l’approccio empirico del ‘trial and error’”.
Ma gli errori americani e occidentali sono stati troppo cruciali. I democratici americani – in testa l’ex speaker Nancy Pelosi, l’attuale segretario di stato John Kerry e la ex segretaria di stato Hillary Clinton – sino a protesta siriana già deflagrata non solo erano certi delle “potenzialità riformiste” di Assad, ma proprio sul suo ruolo di mediazione fattiva basavano tutta la “nuova strategia” per il medio oriente enucleata al Cairo da Obama il 4 giugno 2009. Preso infine atto della natura oltranzista di Assad e incapaci di intendere le logiche di Guerra fredda in cui Siria e Russia si muovono, Casa Bianca ed Europa si sono poi mossi alla ricerca di una “soluzione politica”. Ma è possibile dare una “soluzione politica” a una rivoluzione? La risposta negativa è ovvia, ma non è affatto scontata l’errata percezione di una crisi che in Siria non si combatte una “guerra religiosa tra sciiti e sunniti” (come valutano troppi analisti), che lo scontro non ha per nulla valenze teologiche (se non da parte dei jihadisti wahabiti, che considerano gli sciiti apostati), e che ha tutte le caratteristiche di una rivolta di poveri contro ricchi. La rivolta iniziò a Daraa a opera di contadini affamati dalla siccità e inurbati caoticamente, senza alcun sostegno del governo. Il suo contagio si è diffuso – decisivo è il caso di Damasco – nei quartieri popolari e periferici. In questa dinamica lo scontro tra sciiti e sunniti ha essenzialmente un connotato economico, è privo di quelle feroci connotazioni settarie e teologiche che caratterizzano invece lo scontro tra le due fazioni dell’islam nella storia passata e recente. In primis nello scontro frontale e tutto religioso – iniziato peraltro da Khomeini nel 1979 – tra l’Iran e l’Arabia Saudita wahabita-salafita, poi in Iraq, in Afghanistan e Pakistan.
Prova ne sia che il sunnita Hamas è sempre stato protetto sino al 2012 dall’alawita Assad e che la loro rottura è avvenuta per via indiretta, a causa del ruolo politico, non religioso, dei Fratelli musulmani. Non solo: il blocco sociale che sostiene oltre ogni aspettativa Assad, coinvolge nel network del suo cugino miliardario Rami Makhlouf, padrone di mezza Siria, molte ricche famiglie sunnite (radicate da sempre nella finanza, nel commercio e nel latifondo), così come cristiane. Il combinato disposto tra la non percezione del carattere rivoluzionario della rivolta siriana, della continuazione della logica di Guerra fredda da parte del padrino russo, della mancanza di legami storici degli Stati Uniti con l’opposizione al “riformista Assad” e dell’attendismo di Barack Obama ha infine prodotto l’ultimo errore occidentale: la delega totale ad Arabia Saudita, Qatar e Turchia della gestione della “opposizione siriana”. Così s’è prodotta la sconfortante frattura tra la leadership interna dei gruppi ribelli e la rappresentanza istituzionale estera. Queste sono le premesse alla conferenza di pace “Ginevra 2”, di cui ancora non si sa la data. Facile prevederne l’esito.
Il FOGLIO - Daniele Raineri : " I jihadisti sciiti sono la novità del conflitto siriano. Ne sono arrivati almeno il doppio rispetto ai jihadisti sunniti "
Daniele Raineri
Roma. Vali Nasr è stato consulente al dipartimento di stato dell’Amministrazione Obama ed è l’autore di un saggio imprescindibile sul medio oriente del 2007, “The Shia revival”, in cui spiega la battaglia interna all’islam tra gli sciiti e i sunniti e l’importanza che avrà nel futuro. Sono passati sei anni e il momento è arrivato: il gruppo sciita e straniero Hezbollah (viene dal Libano) è alla testa della campagna militare del governo di Bashar el Assad contro i ribelli siriani, che appartengono alla maggioranza sunnita. Due giorni fa Hezbollah ha preso il controllo della città di Qusayr dopo una battaglia violentissima durata tre settimane (anche se ancora ci sono sacche di resistenza nella zona nord) e ora sta per muovere contro Aleppo, che è la prima città del paese per numero di abitanti ed è divisa a metà tra ribelli e governo dal luglio 2012. Questa rimonta militare di Assad è aiutata, organizzata e finanziata dal governo sciita dell’Iran e altri volontari sciiti arrivano a migliaia dall’Iraq. Sull’altro lato del fronte, i ribelli sono aiutati da paesi con governi sunniti: la Turchia di Erdogan, il Qatar, l’Arabia Saudita. Al Qaida, che è un movimento sunnita, si è schierata dalla parte dei ribelli (anche se ieri è arrivata l’anticipazione di un messaggio audio del capo, Ayman al Zawahiri, che con un colpo di spugna annuncia la cancellazione di “al Qaida in Iraq e in Siria”, la cui esistenza era stata annunciata appena due mesi fa). Come previsto nel saggio di Nasr, la divisione vecchia di 1.400 anni sta prevalendo su tutto il resto, e lo dimostra la rottura dell’alleanza tra il gruppo palestinese Hamas, sunnita, e il governo Assad – che prima di questa guerra erano uniti dalla causa comune della lotta contro Israele. Due giorni fa Vali Nasr ha scritto una breve analisi per Bloomberg Businessweek per spiegare che l’Iran “outmaneuvers” – vale a dire manovra meglio sul campo e sconfigge – l’America nella guerra siriana. “La ribellione in Siria offriva la possibilità di una sconfitta strategica dell’Iran. In quello scenario l’Iran sarebbe stato indebolito dal collasso del regime di Bashar el Assad, il suo unico alleato arabo e legame vitale con Hezbollah in Libano. Isolato, l’Iran sarebbe stato più vulnerabile alla pressione internazionale che intende limitare il suo programma nucleare. E se la sua influenza fosse sparita, quella dei suoi rivali, gli alleati dell’America: Turchia, Qatar, Arabia Saudita – si sarebbe espansa”. Non sta andando così. L’occidente sembra paralizzato dall’attesa di una soluzione diplomatica che sembra sempre più improbabile e mercoledì Stati Uniti, Russia e Nazioni Unite sono usciti da una riunione per fissare la data della Conferenza di Ginevra 2 senza un nulla di fatto – era stata annunciata per il 10 giugno, poi è scivolata a luglio, ora chissà. E gli eventi in Siria invece stanno girando a favore di Assad, in una guerra – scrive Nasr – che ridefinirà tutti i rapporti di forza in medio oriente, a beneficio degli alleati del governo di Damasco, Iran e Russia, che di fatto hanno formato un consorzio militare per tenere il presidente siriano al suo posto. In questa rimonta non c’è soltanto la novità geopolitica – la decisione di America e alleati occidentali di non esercitare la propria influenza se non in misura molto blanda e quindi di lasciare il campo al consorzio Iran-Russia, c’è anche la novità islamica del jihad sciita. Come spiega Hassan Hassan, giornalista del quotidiano del Golfo il National, è la prima volta che nello sciismo c’è una chiamata alle armi internazionale per combattere una guerra in un paese straniero. Alcuni studiosi – scrive Hassan – ritenevano che nella teologia sciita il jihad fosse più localizzato geograficamente, o che addirittura fosse sospeso fino alla ricomparsa dell’Imam nascosto. La Siria, invece, sta diventando per il jihad sciita quello che l’Afghanistan fu per i combattenti sunniti dal 1979 in avanti, un risveglio comunitario che ignora i confini nazionali (anche questo incoraggiato per interessi militari). “State combattendo battaglie vecchie di 1.400 anni. State combattendo dalla parte dell’imam Hussein”, dicono in alcuni video i capi di milizie alawite, facendo riferimento alla figura carismatica dell’islam sciita. Se secondo il registro compilato da Aaron Zelin per il Washington Institute for Near East Policy, i volontari stranieri, anche europei, arrivati in Siria per combattere assieme ai sunniti sono non più di 7.000, quelli sciiti sono almeno il doppio.
CORRIERE della SERA - Lorenzo Cremonesi : " Lampi di guerra sul Golan, feriti anche due caschi blu "
Lorenzo Cremonesi Le alture del Golan
ALTURE DEL GOLAN — Il fracasso del combattimento giunge a tratti attraverso gli spazi ampi di questo altipiano puntellato dai coni erbosi degli antichi vulcani spenti. È cominciato rabbioso ieri mattina attorno alle sei. I rombi delle bombe, rumori di cingolati, crepitare di mitragliatrice intervallato dai colpi secchi dei proiettili anticarro. «I ribelli hanno attaccato Quneitra», dicono gli addetti alla sorveglianza armata a Kibbutz Merom Golan, dove si trova uno degli hotel più popolari. Mercoledì avevamo incontrato i caschi blu indiani e filippini di stanza nella grande base Onu sul lato israeliano della vecchia linea del cessate il fuoco. Erano le quattro del pomeriggio, pochi stavano di guardia, la maggioranza dei soldati e gli ufficiali erano in palestra a fare ginnastica. «Gli austriaci stanno nella base più avanti. Ma la strada è chiusa per i giornalisti», ci avevano detto. Ora la novità più rilevante è che i circa 370 caschi blu austriaci (un terzo dell'intero contingente Undof, che sta per United nations disengagement observer force) verranno evacuati entro le prossime cinque settimane. «Troppo pericoloso per i nostri soldati», spiega il governo di Vienna. I portavoce israeliani esprimono la preoccupazione che «ciò possa aumentare la tensione». Gerusalemme ha schierato i carri armati lungo il confine.
Ieri l'area è stata inavvicinabile per tutta la giornata. A quattro o cinque chilometri in linea d'aria da Kibbutz Merom Golan si è consumato lo scontro a fuoco tra milizie ribelli ed esercito del regime di Bashar Assad probabilmente più violento dallo scoppio delle rivolte in Siria nel marzo 2011. Procedendo verso i 2.200 metri della cima del Monte Hermon è stato però possibile vedere il fumo della sterpaglia in fiamme, ogni tanto i lampi delle bombe. Sono i portavoce militari israeliani a fornire dettagli: pare che alcune decine di ribelli siano riusciti a occupare il punto di passaggio di Quneitra per quattro o cinque ore. Ma già prima di mezzogiorno i lealisti della dittatura arrivano in forze con unità di carri armati e riescono a riprendere le posizioni perdute. Due caschi blu sono feriti leggeri. Sconosciuto il numero delle vittime siriane, due di loro sono ricoverate in un ospedale israeliano. Nonostante sia una palese violazione degli accordi del cessate il fuoco del 1974, che vietano ai siriani di introdurre tank sul Golan, Israele lascia fare. «Per noi l'importante è che il confine resti calmo», dice un soldato incontrato a un posto di blocco. I circa venti chilometri di strada lungo la linea del cessate il fuoco tra il kibbutz religioso di Alonei Habashan, l'insediamento di Ein Zivan e la vallata che porta a Quneitra restano chiusi al traffico civile. «Temiamo che qualche bomba sparata dall'altra parte arrivi anche qui», ci dice Dalia Amor, portavoce della trentina di insediamenti abitati da circa 22.000 israeliani. Altri 20.000 drusi vivono nei quattro villaggi rimasti alle pendici dell'Hermon.
Venire sul Golan è come fare un tuffo nella storia pluridecennale del conflitto arabo-israeliano, ma soprattutto significa incontrare una delle regioni più sensibili che rischia di restare destabilizzata dalla guerra civile in Siria. Qui sono le fonti del Giordano, qui dal 1948 al 1967, quando il regime di Damasco controllava tutto il plateau, i militari dei due Paesi si fronteggiarono in una tesa sfida a tratti guerreggiata. Catturate dagli israeliani nei blitz lampo della Guerra dei Sei giorni, furono poi teatro di una delle più formidabili battaglie tra carri armati durante il conflitto dell'ottobre 1973. Da allora tra Damasco e Gerusalemme ha sempre prevalso un tacito accordo: i conti si regolano a spese del confine libanese, il Golan deve restare calmo. E così è stato, sino alle vampate di violenza dell'ultimo anno, che sembrano scardinare le consuete regole del gioco. Ma per ora i residenti israeliani insistono nel comportarsi come se nulla fosse. Sabato verranno da tutto il Paese per una popolare gara di bicicletta. Le aziende vinicole locali promettono vendemmie eccezionali per settembre. E frotte di turisti vengono sui punti di osservazione civili per seguire da lontano gli eventi in Siria.
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