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Libero - Corriere della Sera Rassegna Stampa
06.06.2013 Deriva islamista e dittatoriale di Erdogan. La responsabilità non è europea
Le opinioni di Carlo Panella, Sergio Romano

Testata:Libero - Corriere della Sera
Autore: Carlo Panella - Sergio Romano
Titolo: «Il 'tiranno Erdogan' è figlio dell'Europa - Crisi del governo Erdogan, l'Europa può solo guardare»

Riportiamo da LIBERO di oggi, 06/06/2013, a pag. 17, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Il 'tiranno Erdogan' è figlio dell'Europa ". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 41, la risposta di Sergio Romano ad un lettore dal titolo " Crisi del governo Erdogan, l'Europa può solo guardare ".

Il rifiuto di permettere l'ingresso della Turchia in Europa, questa sarebbe la causa della deriva islamista e autoritaria di Erdogan.
In base a questa teoria, basterebbe allargare i confini dell'Europa ovunque, all'Iran, per esempio. In questo modo il regime migliorerebbe perché influenzato dalla cultura del diritto dei Paesi democratici. 
Paesi fanatici, dittatoriali, teocratici dove religione e Stato formano un blocco unico di governo devono restare fra gli avversari delle democrazie. In questo modo si aiuta l'opposizione interna che sta dimostrando grande coraggio, come raccontano su Repubblica Vanna Vannuccini (Iran) e Manco Ansaldo (Turchia)  
Ecco i pezzi:

LIBERO - Carlo Panella : " Il 'tiranno Erdogan' è figlio dell'Europa "


Carlo Panella

Ieri, nel sesto giorno di proteste che hanno terremotato lo scenario politico della Turchia, sono scesi in piazza i sindacati. Il Kesk ha indetto uno sciopero generale di due giorni del settore pubblico e un corteo di 10.000 manifestanti si è recato in piazza Taksim con una scenografia impressionante: gli scioperanti erano vestiti in nero e portavano il nastro nero al braccio in segno di lutto per l’uccisione di tre manifestanti. Gravissima la retata all’alba delle forze di polizia che hanno arrestato nel sonno a Smirne 25 persone con l’accusa di «avere turbato l’ordine pubblico » per avere diffuso su Twitter appelli a manifestare. Ennesima manifestazione di autoritarismo in un Paese in cui negli ultimi mesi decine sono gli arresti di giornalisti e cittadini per reati di opinione. Impressionanti le cifre dei feriti diffuse dalla associazione dei medici turchi la quale stima che siano stati ben 4.100 i manifestanti che hanno avuto bisogno di cure mediche a causa della violenza delle forze di sicurezza. In attesa della giornata di venerdì, giorno festivo in Turchia, cortei hanno continuato a sfilare nelle strade di Istanbul, Ankara e ad Hatay, nel segno di una mobilitazione scoppiata all’improvviso venerdì scorso e che non accenna a calare. Ieri una delegazione di manifestanti ha chiesto al vicepremier Bülent Aric di cacciare i vertici della polizia a Istanbul e Ankara. Importanti, una volta tanto, i risultati di un sondaggio che indicano che l’80% dei manifestanti non milita in nessun partito (solo il 17% ha risposto all’appello dei partiti) con una netta maggioranza di ventenni e trentenni. A fronte di un movimento così improvviso ed esteso – interessantissimo è il fatto che si sia mobilitata anche la «profonda Anatolia», base elettorale principe di Tayyip Erdogan - è difficile fare previsioni. È indicativa però la enorme preoccupazione della Casa Bianca, che mai come oggi considera la Turchia un caposaldo del contenimento sia dell’Iran degli ayatollah che del suo alleato siriano Assad. Preoccupazione a cui ieri il ministro degli esteri turco Mehemet Devutoglu ha risposto con toni polemici, in una telefonata con John Kerry che aveva «espresso timori» per un uso eccessivo della forza da parte della polizia turca. «Non siamo una democrazia di seconda classe», ha detto un piccato Devutoglu al suo interlocutore, ma in realtà proprio questa è stata l’impressione data dal premier Erdogan per il modo con cui ha raccolto la sfida dei manifestanti, dando ampia dimostrazione di non sentire più il polso di un Paese che si ribella alla sua volontà di islamizzare non solo la società, ma anche la vita privata dei suoi concittadini. Impressione peraltro rafforzata dalla netta presa di distanza da Erdogan, espressa sia dal presidente della Repubblica Abdullah Gül, che dal suo vice Bülent Aric, segno dell’inizio di una crisi politica che le manifestazioni hanno fatto deflagrare dentro il partito islamista. Gül, che sino a oggi era indicato solo come concorrente, perdente, di Erdogan nelle prossime elezioni presidenziali a suffragio popolare, da ieri ha così marcato una profonda divaricazione nei confronti di Erdogan nella concezione stessa dello Stato laico. Questi, ha infatti abbandonato la moderazione e l’ispi - razione laica dei suoi primi 6 anni di governo e da 4 anni – forte di un risultato elettorale che l’ha premiato nel 2011 col 50% dei suffragi - ha allargato a dismisura il peso della legislazione coranica nella società. Favorito, peraltro, da una dissennata Unione Europea che ha chiesto e ottenuto di eliminare il forte potere politico che Kemal Atatürk aveva attribuito alle Forze Armate, garanti del pieno laicismo dello Stato e della società turca. Spodestate – con gioia - da Erdogan dal potere politico le Forze Armate per ora tacciono. Ma non è escluso che si formi da ora un asse tra i generali e Abdullah Gül, nel nome di un islamismo moderato e alla ricerca di una secca emarginazione politica dello stesso Erdogan.

CORRIERE della SERA - Sergio Romano : " Crisi del governo Erdogan, l'Europa può solo guardare "


Sergio Romano

È qualche anno che seguo con apprensione la politica turca e i fatti di questi giorni non fanno che aumentare la mia preoccupazione. La Turchia dice di voler far parte dell'Unione Europea... E va bene, ma quali garanzie offre? Ora non si tratta più solo di divenire soci, ma la conferma che il candidato ha mire egemoniche e che passo dopo passo ammette usi e costumi religiosi per noi intollerabili, mi preoccupa oltremodo. La Turchia ha un'enclave in Europa, la Tracia turca, e il mare non ci protegge come avviene per Tunisia, Egitto eccetera. Lei è sempre fiducioso?
Nerio Fornasier
fornasier.nerio@yahoo.fr

Caro Fornasier,

Credo che le sue preoccupazioni non siano giustificate. La Turchia non ha ritirato la domanda di adesione, ma non può ignorare che il negoziato è ormai bloccato, di fatto, da parecchi anni e che vi sono Paesi dell'Unione Europea esplicitamente ostili a una tale prospettiva. Aggiungo che gli sviluppi della crisi siriana hanno reso il nodo ancora più imbrogliato. La Turchia è divenuta una retrovia della guerra. Ospita non soltanto un numero crescente di profughi siriani, ma anche i guerriglieri che attraversano la frontiera per raggrupparsi o cercare assistenza sanitaria. Ed è probabilmente un corridoio per le armi provenienti da altri Paesi sunniti. Pensare che in queste condizioni possa contare su una più favorevole accoglienza dei Paesi dell'Ue mi sembra oggi difficilmente immaginabile. È un Paese sull'orlo d'una guerra che porterebbe con sé, se entrasse nell'Ue, tutti i problemi da cui è afflitto.
Esiste invece, caro Fornasier, un argomento opposto rispetto a quello della sua lettera. Molti osservatori turchi e protagonisti delle manifestazioni, soprattutto fra i più giovani, osservano in questi giorni che i caratteri autoritari del governo Erdogan e certi provvedimenti «islamisti», come quello sul consumo degli alcolici, avrebbero trovato maggiori ostacoli sulla loro strada se i negoziati con l'Europa non avessero subito il brusco rallentamento degli scorsi anni. L'Ue ha assecondato la politica di Erdogan contro i militari e ha chiuso gli occhi anche quando è apparsa a molti persecutoria, perché riteneva che il ruolo delle forze armate voluto da Kemal Atatürk fosse incompatibile con i principi di una moderna democrazia. Ma avrebbe certamente sollevato riserve e obiezioni, se i negoziati avessero qualche prospettiva di successo, quando Erdogan si è dimostrato sempre meno tollerante verso la stampa e ha preso provvedimenti caratterizzati da una forte connotazione religiosa. Lei ha certamente ragione quando sottolinea l'importanza della Turchia per l'Europea. Ma non è colpa della Turchia se noi ci siamo privati della possibilità di esercitare una decisiva influenza sulla evoluzione del suo sistema politico.

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