Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 06/06/2013, a pag. 1-31, l'articolo di Enzo Bettiza dal titolo " Erdogan e la trappola dell'islamismo morbido ". Da REPUBBLICA, a pag. 36, l'articolo di Lucio Caracciolo dal titolo "Se la Turchia in rivolta realizza la vera primavera " , preceduto dal nostro commento, a pag. 14, l'articolo di Marco Ansaldo dal titolo " Turchia, 25 arresti per un tweet ".
Ecco i pezzi:
La STAMPA - Enzo Bettiza : " Erdogan e la trappola dell'islamismo morbido"
Enzo Bettiza Recep Erdogan
Non esistono solo primavere arabe. Da alcuni giorni esiste e dilaga anche un precoce e tempestoso autunno turco, con le folle che, partendo dalla piazza Taksim di Istanbul, manifestano con contagiosa impetuosità contro la distruzione del parco Gezi. Il parco è così diventato il simbolo di una laicità leggendaria che il premier Recep Tayyip Erdogan, ritenuto da tanti un islamico moderato, vorrebbe poco a poco «liberare» dal mantello secolare imposto con rigore novanta anni fa alla Turchia musulmana dal «padre dei turchi»: Kemal Atatürk Mustafa. Alto ufficiale del temibile seppur sconfitto esercito ottomano, Atatürk, dopo il crollo del 1918 e la fine dell’impero, depose l’ultimo sultano e ristabilì l’unità mononazionale di una Turchia amputata e ormai ridotta alla sola Anatolia.
La Turchia geografica che vediamo sulla carta è, territorialmente, sempre quella della repubblica postimperiale fondata nel 1923, con pugno di ferro, dal grande occidentalista Kemal. Egli, quando non indossava l’uniforme, amava sottolineare questa sua occidentalità europea vestendo un frac elegantissimo; ne ricordo tuttora i gemelli dorati, il cravattino immacolato, le ghette di felpa grigia, conservati come reliquie sacre nella trasparente penombra di un mausoleo di Istanbul. Spirava da quei pochi vestiari ricercati, spazzolati, senza granello di polvere, l’aura di una venerazione assoluta. Quasi metafisica.
Il vivente Erdogan, in parte apprezzato da molti, ma in parte tollerato con sospetto da altrettanti, di sicuro non può sperare di accogliere oggi neanche un terzo di una simile venerazione nazionale. La Turchia moderna non dimentica di dovere tanto, quasi tutto, al pervasivo autoritarismo secolare del grande «padre» in frac ostile alle leggi e ai costumi dell’islamismo. La sharìa esulava dalla sua ottica. Eletto presidente della nuova Repubblica, possiamo ben dire che Atatürk la costruì sbarazzandola dei lacci e lacciuoli ottomani e rovesciandola come un calzino. Abolì il califfato, laicizzò lo Stato, riconobbe la parità dei sessi, istituì il suffragio universale, adottò l’alfabeto latino, il calendario gregoriano, il sistema metrico decimale. Una modernizzazione a tappe forzate, spesso spietate, che molti non a torto chiamarono rivoluzione. Non furono pochi i fondamentalisti a perdere, oltreché il fez, anche la testa. Il «padre dei turchi» era insomma un tiranno illuminato che non andava troppo per il sottile.
In diversi saggi politologici si usa descrivere la modernizzazione della Turchia come una parabola che, scavalcando effimeri putsch militari, sarebbe nell’insieme consequenziale. La Turchia, partendo da Atatürk e dal kemalismo a volte golpista delle forze armate (Stato nello Stato), giungerebbe oggi con una certa logica imprevista fino a Tayyip Erdogan: un islamico moderato paragonato a una sorta di «De Gasperi turco». Secondo il mio giudizio, nulla di più opinabile. Erdogan non è un De Gasperi da moschea, né il partito Akp («Giustizia e Sviluppo») da lui ideato è una versione esotica e velata della Democrazia cristiana. Egli, a ben scrutarne la biografia, le mosse, le pulsioni pubbliche e meno pubbliche, è un islamista «moderato» a doppio fondo, sempre pronto sia alla ritirata tranquillizzante sia allo scatto inquietante. Diversi turchi laicizzanti, riferendosi al suo islamismo radicale ma velato, dicono: «Non possiamo vivere come in fondo vorrebbe Tayyip: facendo tre figli, non bevendo alcol, non fumando. Il messaggio che desideriamo lanciare dal parco Gezi è che ciascuno sia libero di fare ciò che meglio risponde alla sua personalità».
In breve, il pericolo per la Turchia che vorrebbe avvicinarsi all’Europa, e di cui l’Europa diffida, non è certo il passato aspro alla Atatürk. Forse non ci si pensa fino in fondo. Ma il vero rischio, la separazione prolungata della Turchia dall’Europa e viceversa, è forse principalmente nella trappola narcotica dell’islamismo alla Erdogan: islamismo morbido che promette a parole dialoghi, intese, compromessi, affari, coesistenze intercontinentali, nel momento stesso in cui nessuno sa più dove Ankara vuole andare e con chi veramente vuole stare. Certamente il futuro della Turchia si profila economicamente e politicamente sempre più incisivo e promettente: una grande nazione emergente che viene quasi subito dopo il Bric di Brasile, Russia, India e Cina. Ma, circa il suo rapporto con l’Europa, non s’intravede purtroppo granché: in definitiva, più lontananze opache che vicinanze chiare.
La REPUBBLICA - Lucio Caracciolo : " Se la Turchia in rivolta realizza la vera primavera "
Lucio Caracciolo
Notiamo con soddisfazione come Lucio Caracciolo sia uscito con questo articolo dai soliti commenti che avevano accolto in maniera acritica la nascita di quelle che erano state definite 'primavere arabe' mentre ci voleva poco a capire che si trattava solo di una sostituzione di poteri, da quelli dittatoriali-laici a quelli dittatoriali-religiosi.
In Turchia sono scesi in piazza i laici e in Iran si è sentito il grido di 'Morte al dittatore' (Marg bar Diktator) rivolto ad Ali Khamenei.
Ecco l'articolo:
Il marchio “primavera” non porta bene. Da Praga a Damasco, passando per Tunisi, Il Cairo e Bengasi, evoca enormi aspettative e risultati deludenti, contraddittori, spesso tragici. Ma se c’è un paese in fermento dove tale slogan può avere qualche senso, ebbene questo è la Turchia. Se “primavera” vuol dire risveglio di una popolazione consapevole dei propri diritti e stufa di governanti autoritari o paternalisti, non v’ha dubbio che quanto sta accadendo a Istanbul, Ankara e decine di altre città turche risponda a questa definizione. Recep Tayyip Erdogan è da quasi undici anni il capo democraticamente eletto del governo di una potenza in ascesa da quasi ottanta milioni di abitanti, che fino allo scorso anno ha avvicinato le performance economiche dei Brics, gode (e soffre) di una collocazione geopolitica cruciale fra Medio Oriente, Russia, Europa e Mediterraneo, è un nostro alleato chiave in ambito Nato e non nasconde (forse troppo) vaste ambizioni d’influenza regionale e globale. Il leader del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp), nel quale confluiscono varie correnti islamiste, il più delle quali moderate, può vantare di aver modernizzato un paese instabile e tuttora segnato da visibili sacche di arretratezza, di aver sedato con polso fermo le velleità golpiste delle Forze armate, un tempo prevalenti sui poteri politici, di aver esplorato con coraggio il sentiero della pace con la minoranza curda. Da qualche tempo però, come capita a chi resta troppo a lungo al timone, Erdogan ha perso il senso della misura. Il suo stile di governo ricorda quello di un dittatore — o aspirante tale — che consulta solo se stesso. Quasi un nuovo sultano, dai modi sprezzanti, incapace di capire e di farsi capire da buona parte della sua gente, compresi diversi elettori e militanti dell’Akp. Un leader che secondo i suoi critici intende rovesciare le basi laiche dello Stato fondato nel 1923 da Kemal Atatürk per affermare la sua idea islamica della società e delle istituzioni. E pretende di imporre ai cittadini turchi un treno di vita piuttosto rigido e regolamentato, con misure largamente impopolari — soprattutto sulla scena metropolitana di Istanbul e nelle più ricche regioni costiere — come la limitazione nel consumo di alcolici. Quando nella notte fra il 30 e il 31 maggio la protesta di alcune migliaia di dimostranti contro la “ristrutturazione” del Gezi Park si è trasformata da raduno ambienmila talista in manifestazione contro il “dittatore fascista” ed è stata repressa con esibita violenza dalla polizia, la scena politica turca è entrata in fibrillazione. Non che la leadership di Erdogan sia oggi in questione, né che le sue prospet- tive politiche ed elettorali siano compromesse. Il consenso per lui e il suo partito resta forte soprattutto nell’Anatolia profonda, anche se la sua baldanzosa sicumera — «porterò in piazza un milione di miei sostenitori ogni cento- mobilitati dagli estremisti» che lo contestano — appare ad oggi poco fondata. Tanto che dall’interno stesso del suo partito e del governo si levano pubblicamente voci che lo invitano a calmare i toni, a considerare le obiezioni dei manifestanti, a riportare la polizia nelle caserme. Il presidente Abdullah Gül, suo antico sodale, ha preso le distanze dalla retorica del primo ministro. E persino alcuni giornali in genere inginocchiati davanti a Erdogan ne hanno criticato le megalomanie urbanistiche e denunciato la mano dura delle forze di sicurezza, mentre l’influente Hürriyet titolava sulla “sconfitta” del “non più onnipotente” capo del governo. Sarebbe semplicistico classificare lo scontro in atto solo come espressione della frattura laici/islamisti. Certo, il principale partito di opposizione, il neokemalista Chp, ha cercato di cavalcare la protesta. Ma fra le centinaia di migliaia di persone scese in piazza anche nelle roccaforti dell’Akp, come Konya e Kayseri, oltre alla stessa Ankara, c’erano manifestanti d’ogni colore, dagli islamo-ecologisti alla sinistra radicale o moderata, dai curdi agli aleviti fino ai seguaci del piuttosto esoterico movimento di Fethullah Gülen, classificato come islamico temperato. Sicché l’obiettivo di Erdogan — riformare in senso presidenziale le istituzioni e farsi eleggere capo dello Stato — non è più così a portata di mano come poteva sembrare fino alla scorsa settimana. Allo stesso tempo, non è emersa un’alternativa credibile all’egemonia dell’Akp. Tanto meno si profila all’orizzonte un leader della statura di Erdogan. Ironia della storia: il leader turco che due anni fa cercava inutilmente di convincere l’allora “fratello” siriano Bashar al Assad, ad ascoltare la voce del popolo e a inaugurare una stagione di riforme, oggi sembra incapace di capire le ragioni di chi gli si oppone. E mentre Assad resiste armi in pugno contro ribelli che in molti casi fanno riferimento ad Ankara, Erdogan non appare più intoccabile. Forse le sue ambizioni geopolitiche e la sua idea di Turchia sono morte a Gezi Park? Presto per stabilirlo. Di certo la rivolta in corso ha esposto i limiti di un capo fin troppo battagliero e carismatico, che sognava un impero a propria immagine e somiglianza, in cui specchiare il suo formidabile ego. Un sogno che per molti turchi, non solo laici, era e rimane incubo.
La REPUBBLICA - Marco Ansaldo : " Turchia, 25 arresti per un tweet "
Turchia, un manifesto contro Erdogan
ISTANBUL — Può un tweet essere considerato così pericoloso da causare l’arresto di chi l’ha inviato? La risposta è affermativa, nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan, se è vero che a Smirne, la città più cosmopolita del Paese, l’unica non governata dal partito del premier islamico, 25 persone sono state sbattute in cella. L’accusa: «Avere incitato i cittadini ai disordini — riferisce Hurriyet online — e fatto propaganda». La notizia è ancora più rimarchevole per il fatto di arrivare dal centro che si affaccia sull’Egeo, tradizionalmente il più laico della Turchia («gavur», l’infedele, viene bollata Smirne dai seguaci della compagine al potere), dove i dimostranti si sono trovati in piazza per chiedere leggi meno legate ai dettami religiosi. C’è un po’ più di calma, ma la tensione nel Paese resta forte. Mentre Erdogan (che ha definito Twitter «una cancrena della società ») oggi rientra dal suo viaggio nel Maghreb — e vedremo le reazioni della piazza al suo ritorno — Istanbul e Ankara sono tornate a manifestare per le strade. E la polizia a disperdere i dimostranti a suon di gas urticanti. Il vice premier Bulent Arinc — il quale aveva tentato martedì di disinnescare la tensione su invito del capo dello Stato, il vero moderato della situazione, Abdullah Gul — ha infine incontrato gli organizzatori della manifestazione contro l’eliminazione del Gezi Park a Istanbul. Era stato il taglio dei 600 alberi e la sostituzione dell’area verde con un grande centro commerciale a far scattare l’altra settimana la rivolta popolare. Ad Arinc è stata chiesta la testa dei capi della polizia di varie città, tra cui le due principali, per aver fatto un uso eccessivo della forza contro i manifestanti. Migliaia di persone hanno poi aderito allo sciopero di due giorni indetto dai sindacati dei lavoratori. In Italia il regista Ferzan Ozpetek, nato in Turchia, ha anch’egli aderito via Twitter all’astensione dal lavoro. Secondo gli osservatori più smaliziati, il picco delle proteste potrebbe essere stato già raggiunto. Occorrerà però vedere la reazione della gente al ritorno in patria di Erdogan. Si va comunque verso una linea di dialogo e si dovrà trovare un eventuale punto di accordo. La soluzione potrebbe essere quella della ricerca di un «compromesso sociale» tra le parti. Risultato tuttavia non facile, visto la durezza e l’intransigenza espresse da Erdogan, e la resistenza manifestata dalla piazza, non solo a Taksim ma in diverse località del Paese. Una proposta interessante giunge dal vice ministro degli Esteri italiano, con delega sulla Turchia, Marta Dassù. La linea seguita da Roma di un’apertura verso Ankara per il suo possibile ingresso nell’Unione Europea andrà avanti. Dassù afferma che «l’apertura dei negoziati con la Turchia, avvenuta nel 2003, si è trascinata molto lentamente», ma costituisce «in realtà la leva d’influenza che abbiamo». Difatti, «molti dei capitoli negoziali sono bloccati da vari veti europei e due di questi — il 23 e il 24 — riguardano esattamente i diritti civili e la democratizzazione». La posizione italiana è dunque quella di «aprire questi capitoli» per influire sulla Turchia: «Il processo di adesione alla UE serve a questo, e bloccarlo sarebbe da parte nostra un vero errore».
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