Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 05/06/2013, a pag. 1-17, l'articolo di Bernard-Henri Lévy dal titolo " Da dieci anni perdoniamo tutto a Erdogan ". Dal FOGLIO, a pag- 1-4, gli articoli di Paola Peduzzi e Splenger titolati " Se Erdogan perde la testa " e " Nella grande bolla turca ". Dalla STAMPA, a pag. 14, l'articolo di Marta Ottaviani dal titolo " L’altro volto di Piazza Taksim: Erdogan? Ci ha fatto grandi". Da REPUBBLICA, a pag- 1-24, l'articolo di Ian Buruma dal titolo " Le democrazie islamiche e i ribelli di Istanbul ", preceduto dal nostro commento, a pag. 14, l'articolo di Marco Ansaldo dal titolo "Le donne protagoniste: Vogliamo essere libere " .
Ecco i pezzi:
CORRIERE della SERA - Bernard-Henri Lévy : " Da dieci anni perdoniamo tutto a Erdogan "
Recep Erdogan
È strano come la Storia esiti, balbetti, si intrecci, acceleri e, improvvisamente, si cristallizzi.
Da dieci anni, del premier turco Recep Tayyip Erdogan veniva tollerato tutto: gli arresti di giornalisti e intellettuali, l'arbitrio e il terrore quotidiani. Veniva tollerato che fossero chiuse le rivendite di bibite alcoliche con il pretesto di salvaguardare la salute pubblica, e che si condannassero per reato di blasfemia scrittori, umoristi, pianisti.
Si accettavano, in nome dell'«islamismo moderato» che si riteneva rappresentasse, gli accessi di febbre antisemiti e il rifiuto ostinato, quasi folle, di riconoscere il genocidio armeno, a pochi mesi dal suo centenario.
Ci si rifiutava di vedere la repressione dei curdi e delle altre minoranze. Di ammettere che Erdogan, prima che l'Unione europea gli ricordasse le condizioni non solo economiche, ma anche politiche e morali, poste a qualsiasi nuovo membro, aveva scelto di voltare le spalle all'Europa e ai valori che essa presuppone e incarna.
Poiché Ankara val bene una predica, era stato costruito il mito di un «modello Akp» fondato su un islamismo di Stato, controllato e, quindi, ponderato, e che doveva assomigliare — in modo un po' più energico, ma appena! — a una democrazia cristiana all'italiana o alla tedesca.
In nome della Nato (e anche, bisogna dirlo, dei futuri oleodotti e condutture dell'Asia centrale che, si pensava, avrebbero permesso di sfuggire, un giorno, alla mano di Mosca sul rubinetto energetico da cui dipendono le capitali europee) ci si chiudeva pudicamente gli occhi davanti al soffocamento della piccola, vicina Armenia, all'espansionismo nelle repubbliche musulmane dell'ex Urss, all'appoggio senza riserve e senza scrupoli a tutti i potentati locali.
La stessa società turca, una società musulmana che pensava di avere definitivamente esorcizzato, da un secolo, i cattivi demoni dell'islamismo radicale, assisteva, impotente, apparentemente rassegnata, o forse senza crederci del tutto, al disfarsi lento ma metodico dell'eredità kemalista e delle sue belle conquiste di civiltà.
Ed ecco che un progetto immobiliare, un semplice se pur faraonico progetto immobiliare, mette fuoco alle polveri e accelera una rivolta che covava in segreto, ma non aveva trovato né le parole per dirlo, né il coraggio di affermarsi.
Chi sono i manifestanti di piazza Taksim e quelli che, nelle altre città del Paese, hanno seguito le loro orme? Ecologisti mobilitatisi per salvare alberi centenari? Laici consapevoli che la loro città ospita già alcune delle più belle moschee del mondo e non vedono perché costruirne ancora un'altra in un luogo simbolo non solo della contestazione, ma del vivere insieme degli abitanti di Istanbul? Kemalisti spaventati all'idea che questa moschea, oltre a un centro commerciale che sarà identico a una vecchia caserma ottomana, rimpiazzi il Centro culturale Atatürk che costeggia il parco Gezi, di cui erano così fieri? Aleviti secondo i quali battezzare il futuro, terzo ponte sul Bosforo col nome di Selim I, il sultano responsabile dei massacri che li decimarono cinque secoli fa, è una provocazione che, aggiungendosi a tante altre offese e stigmatizzazioni, supera la soglia dell'intollerabile? Democratici che, nel centro commerciale e religioso progettato da un nuovo sultano in via di putinizzazione in versione ottomana, vedono l'immagine esatta dell'affarismo dal volto islamico che è al centro di questo regime e ne è la firma?
È tutto questo al tempo stesso, naturalmente. È come un velo che si strappa o una maschera che cade. È la verità di uno Stato che, dopo quasi undici anni di un potere sempre più soffocante ma che beneficiava di una crescita economica eccezionale facendo della Turchia la nona potenza mondiale, scoppia davanti agli occhi di tutti. È il re Erdogan a esser nudo ed è il mito del suo islamismo sorridente a dissolversi come un miraggio.
Non esistono solo le primavere arabe. Esiste, esisterà, una primavera turca guidata dallo stesso popolo di studenti, intellettuali, rappresentanti delle professioni liberali, europeisti, innamorati delle città e della democrazia che, sei anni fa, dopo l'assassinio del giornalista Hrant Dink, manifestavano gridando: «Siamo tutti armeni».
La Turchia entrerà, un giorno o l'altro, nell'Unione europea. Sarà una fortuna per il Paese come per l'Europa che sprofonda nella crisi. Ma dovrà riprendere la sua marcia verso la democrazia. Dovrà convertirsi pienamente al rispetto dello Stato di diritto e dei diritti dell'uomo. Ed Erdogan non è più — in realtà non è mai stato — il dirigente di cui la Turchia ha bisogno per arrivare a tal fine. Andava bene alle cancellerie e alla Realpolitik dell'Occidente. Ma è diventato il nemico di una società civile che non si lascerà confiscare tanto facilmente la parte nobile della sua memoria e che, oggi, gli dice: «Anche tu, Erdogan, vattene via!».
Il FOGLIO - Paola Peduzzi : " Se Erdogan perde la testa "
Milano. Finché c’è la Turchia, con il suo miscuglio di islam e democrazia, c’è speranza per il medio oriente: se regge il modello creato da Recep Tayyip Erdogan, l’islam al potere continua ad avere la sua chance. La comunità internazionale s’è aggrappata al premier turco, l’ha nominato suo broker mediorientale, corteggiandolo maldestramente con una membership europea mai davvero voluta, e ignorando i lati oscuri dentro la Turchia degli ultimi dieci anni – i blitz contro il potere laico incarnato dai militari, i processi ai tycoon legati all’élite kemalista, la minirivoluzione islamica nelle università e nei centri culturali, contro i giornalisti e gli scrittori “critici”, le revisioni costituzionali, tutti quei veli nelle foto ufficiali. La presenza della Turchia nella Nato ha trasformato Ankara nell’alleato più importante nella regione mediterranea, per la sua posizione – è lo sbocco di tutte le risorse energetiche in arrivo dall’Asia – e per la sua politica “neottomana” di dominio ma anche di stabilità inaugurata da Erdogan poco dopo il suo arrivo al potere. La Turchia è stata decisiva nella guerra in Iraq per gli americani, li ha grandemente illusi quando ha pensato di diventare la madrina della gran pace con l’Iran nucleare, ed è poi diventata centrale per Barack Obama. Il presidente americano è persino riuscito a convincere uno tosto come il premier d’Israele Benjamin Netanyahu a scusarsi con Erdogan per i morti della Mavi Marmara (la nave battente barriera turca che voleva violare l’embargo dal mare imposto da Israele ai palestinesi e arrivare a Gaza: 9 morti nel blitz delle forze speciali israeliane, alla fine del maggio del 2010) mentre il segretario di stato, John Kerry, un globetrotter che da gennaio è già stato tre volte in Turchia, modella la sua strategia in medio oriente – soprattutto in Siria – sull’intelligence raccolta dai turchi, e sulle loro ambizioni. Per questo Kerry è intervenuto di persona, due sere fa, sulla piazza turca e sulle proteste che vanno avanti dalla sera del 28 maggio, esprimendo “profonda preoccupazione”: soltanto tre settimane fa Erdogan era a Washington per portare le prove dell’utilizzo delle armi chimiche in Siria e discutere del futuro (della conferenza stampa congiunta forse ricorderete solo il marine che teneva l’ombrello sulla testa di Obama). Il presidente americano è davvero preoccupato: non può permettersi di ritrovarsi un’altra volta dalla parte sbagliata della piazza – come accadde in Egitto, e ancora prima della primavera araba al voto in Iran, nel 2009 – né può perdere il suo migliore (unico?) alleato del mondo islamico. Soprattutto il pragmatismo che permea tutte le decisioni di Washington si regge sullo status quo: ogni cambiamento è visto con terrore dall’ex re del cambiamento. E più Obama si preoccupa, più Damasco ride. Non ci fossero dietro quasi 100 mila morti e un governo che da più di due anni reprime il suo popolo con violenza crescente, le dichiarazioni che arrivano da Damasco sarebbero davvero divertenti. Il ministero degli Esteri siriano ha rilasciato un comunicato che dice così: “Consigliamo ai cittadini siriani di non viaggiare in Turchia in questo periodo perché temiamo per la loro incolumità, a causa delle condizioni di sicurezza deteriorate in alcune città turche dopo gli ultimi giorni e dopo la violenza praticata dal governo di Erdogan contro le proteste pacifiche”. Il ministro dell’Informazione siriana, Omran al Zoubi, è andato persino oltre: ha condannato l’uso della violenza “eccessivo” da parte delle forze di sicurezza di Ankara e ha dichiarato che Erdogan dovrebbe fermare la violenza, lasciare il paese e cercare l’esilio. Il regime change a Damasco è una delle due grandi ambizioni di Erdogan (la seconda è far fare la pace ai palestinesi tra di loro e poi con gli israeliani, il suo tanto anticipato viaggio a Gaza è in realtà stato posticipato sotto le pressioni degli americani: è previsto comunque entro giugno, dicono le fonti turche) ma ha anche esposto la Turchia a pericoli finora evitati. James F. Jeffrey e Soner Cagaptay hanno pubblicato un minisaggio per il Washington Institute for Near East Policy con un capitoletto dedicato alle “conseguenze non volute”: Ankara ha deciso di sostenere i ribelli contro Bashar el Assad, ma per farlo “la Turchia ha lasciato che combattenti stranieri, inclusi i jihadisti, entrassero in Siria per indebolire il regime di Damasco. Questo pone un grave rischio per la Turchia. I jihadisti che transitano sul territorio turco lasceranno inevitabilmente il segno, con i contatti personali e i network che si sono creati, con le abilità logistiche sviluppate in loco (come i conti correnti sotto falso nome per finanziare le operazioni o come gli investimenti in strumenti di comunicazione) e con l’attività di arruolamento e proselitismo”. C’è il rischio che questi fondamentalisti un giorno decidano di attaccare la stessa Turchia, e non sarebbe la prima volta che al Qaida compie operazioni sul suolo turco. Assad, con i suoi alleati (Iran, Hezbollah e Russia), gioisce nel vedere la crisi di Erdogan, non soltanto perché così diminuisce l’influenza del suo peggior nemico nella regione, ma anche perché si allenta la pressione occidentale che passa per la Turchia. Per tutti gli altri la crisi del modello turco è la crisi dell’unica esperienza di islam al potere di un certo successo.
Il FOGLIO - Spengler : "Nella grande bolla turca "
Le battaglie in corso da molti giorni tra i manifestanti antigovernativi e la polizia turca in piazza Taksim a Istanbul sono sintomo di una rivolta popolare contro la dittatura islamista – ancora in forma embrionale – di Recep Tayyip Erdogan. Domenica decine di migliaia di oppositori del regime hanno assunto il controllo del cuore di Istanbul, mentre la polizia si è ritirata. Le difficoltà economiche delle famiglie turche sono un fattore importante nello sconvolgimento politico del paese. I mezzi di informazione hanno già definito le proteste “primavera turca”. Si tratta di un’inversione di tendenza, in quanto il “modello turco” è stato indicato due anni fa come la soluzione ai problemi economici e sociali degli stati di polizia del nazionalismo arabo in via di fallimento. L’islamismo apparentemente moderato di Erdogan e una politica economica dinamica offrivano a prima vista una via d’uscita per l’Egitto e altre economie fallite del medio oriente. Erdogan non ha presieduto a un miracolo economico – al contrario delle credenze di molti osservatori occidentali – ma ha gestito una bolla creditizia tipica del terzo mondo, che ha costretto i consumatori turchi a stringere i cordoni della borsa per far fronte al devastante peso del debito. I problemi economici domineranno l’agenda politica, e le pretese di Erdogan sulla leadership del mondo islamico – per non parlare del suo paese – sembreranno molto meno credibili, avevo già avvertito ad aprile, appena prima che Moody’s assegnasse alla Turchia un “investment grade rating”, forse il peggiore giudizio dall’agenzia di rating da quando mise una tripla A ai titoli garantiti da mutui subprime. I problemi della Turchia non possono essere confrontati con le rivolte del 2011 nel nord Africa musulmano: l’economia del paese continuerà a funzionare, benché al di sotto delle aspettative dei turchi, e il sistema politico del paese è robusto. Ma le manifestazioni segnano un punto di svolta per le sorti dell’islamismo turco. La rabbia dei manifestanti si rivolge contro la dittatura strisciante di Erdogan: l’imposizione graduale della legge islamica in uno stato turco fondato su princìpi laici, la galera per centinaia di oppositori del regime e l’assorbimento di un enorme potere economico in monopoli corrotti controllati dal partito di Erdogan. Alcuni “cable” della diplomazia statunitense dicono che nel 2010 Erdogan ha accumulato un’enorme fortuna personale con la corruzione e ottenuto commissioni sulla vendita di asset turchi a investitori stranieri. La guerra civile siriana ha reso più evidenti le divisioni settarie della Turchia. Circa un quinto dei turchi appartiene all’alevismo, una corrente dell’islam “moderata”, e che vota per i partiti secolari. Solo una piccola minoranza della base dell’Akp è a favore del programma islamista del partito. Secondo un sondaggio del Pew Institute dell’aprile del 2013, il 12 per cento dei turchi vuole la sharia contro l’84 per cento dei musulmani nell’Asia del sud, il 77 per cento nel sud-est asiatico e il 74 in medio oriente e nord Africa. E’ per questo che il mandato di Erdogan si fonda sui progressi economici. Il suo programma di fondamentalismo sunnita non è gradito alla maggioranza dei turchi, ma ha drenato voti dai turchi laici grazie alla presunta forza delle sue politiche economiche. I cittadini turchi vedono a ragione un inizio di sharia nelle nuove leggi del governo che vietano la vendita di alcol dopo le 22 e bandiscono ogni rappresentazione di consumo di alcolici nei mezzi d’informazione. Come ho scritto per il Middle East Quarterly: “La bolla di Erdogan richiama le esperienze dell’Argentina nel 2000 e del Messico nel 1994, quando l’impennata del debito estero produsse brevi bolle di prosperità, seguite da una svalutazione della moneta e da profondi crolli. Entrambi i governi latinoamericani guadagnarono consenso fornendo facile credito al consumo come ha fatto Erdogan nei mesi precedenti alle elezioni del giugno 2011”. La generosità politicamente interessata di Erdogan ha finito per danneggiare i consumatori turchi. I consumi dei privati stanno crollando in termini reali. La crescita del pil è vicina allo zero, sostenuta da un tasso di crescita della spesa pubblica del 20 per cento. Con la spesa pubblica a dominare l’attività economica, non è sorprendente che il tasso d’inflazione della Turchia sia al 7 per cento. I dati economici aggregati mostrano un affaticamento progressivo dell’economia turca. I dati del governo distinguono il lavoro dipendente dal “lavoro famigliare non pagato” e dall’“auto- impiego”. Nell’ultimo anno, il lavoro nell’economia reale si è ridotto del 5 per cento, mentre il “lavoro famigliare non pagato” è cresciuto del 5. Questo significa semplicemente che i lavoratori del settore manifatturiero e dei servizi sono tornati a casa a lavorare nelle fattorie dell’Anatolia centrale o sono stati assorbiti in piccole attività famigliari: questa è disoccupazione camuffata. Una riduzione del 5 per cento della forza lavoro è un risultato devastante. L’economia della Turchia, curiosamente considerata come la prossima Cina, poggia su piccole e medie esportazioni di tecnologia verso l’Europa, il mondo arabo, e l’ex Urss. E’ cresciuta come fornitrice di manodopera a basso costo per alcuni produttori europei e asiatici ed è affondata quando la crisi europea, la stagnazione russa e lo scompiglio tra i partner commerciali islamici hanno ridotto il suo mercato. Ha un tasso di diplomati alle scuole superiori più basso del Messico e un’enorme economia sommersa. Alcune università turche soddisfano alti standard internazionali, ma la Turchia non ha niente che l’avvicini alla fucina di talenti di Cina, Taiwan o Corea. Per sostenere la bolla del consumo, la Turchia ha creato un disavanzo delle partite correnti che ha raggiunto il 10 per cento nel 2012, finanziato in maniera preponderante con debito a breve termine concesso in larga misura dagli stati sunniti del Golfo che vedono la Turchia come un baluardo contro l’Iran. Il debito a breve termine della Turchia sta ancora crescendo a un tasso annuo del 30 per cento (e a un tasso annuo del 70 per cento nel corso dei primi tre mesi del 2013). Il rallentamento economico avrebbe dovuto ridurre i prestiti esteri della Turchia; al contrario, li ha aumentati. La pazienza dei finanziatori della Turchia nel Golfo Persico è lunga ma non illimitata. Il debito dei consumatori è decuplicato dal 2006, ed è aumentato del 40 per cento lo scorso anno. E’ difficile conciliare un incremento di questo dato con un incremento annuo del 5 per cento della spesa nominale dei consumatori (l’inflazione è pari al 7 per cento, per cui la spesa reale è in calo del 2). I dati indicano che i consumatori turchi stanno chiedendo in prestito enormi quantità di denaro per rifinanziare gli interessi che già hanno sui propri debiti. Le spese folli di Erdogan del 2011 hanno lasciato ai turchi i postumi di una sbornia. Quando la baldoria finirà, le famiglie turche dovranno ridurre i loro consumi. I consumatori oberati dal debito sanno che ciò accadrà presto, e questo presentimento aiuta a inasprire gli animi della nazione. Ci sono rischi a lungo termine. Un paese in via di sviluppo non può sostenere un tasso di fertilità che porta a un rapido incremento di anziani non autosufficienti, ma il tasso di fertilità di quanti parlano turco come prima lingua è in costante declino negli ultimi 15 anni, la sua popolazione sta invecchiando quasi alla stessa velocità di quella dell’Iran, lasciando la previdenza sociale del paese con un deficit vicino al 5 per cento del pil. “Se continuiamo con l’attuale trend di fertilità, il 2038 sarà l’anno del disastro per noi”, ha ammonito Erdogan in un discorso del 2010. “Nel giro di una generazione, metà dei turchi in età di leva verrà da case in cui si parla curdo”. In retrospettiva, potrebbero concludere gli analisti della politica turca, l’islamismo di Erdogan non è un nuovo inizio per la Turchia ma un tentativo tardivo di mettere mastice islamico tra le crepe che minacciano di disgregare la società turca. Erdogan potrebbe avere già fallito. Molti turchi hanno compreso di aver fatto un patto col diavolo, e che il diavolo non ha mantenuto la sua parte dell’accordo.
La REPUBBLICA - Marco Ansaldo : " Le donne protagoniste: Vogliamo essere libere "
ISTANBUL — «La ragazza con la giacca rossa? Quella che resiste in piedi agli idranti della polizia turca? Tutti la cercano. Nessuno sa dov’è». A Piazza Taksim il tamtam è in atto da giorni. Non solo qui, ma sui social network, sui blog, Facebook, Twitter, tutta la galassia della comunicazione usata dai giovani che, seduti in cerchio, digitano di continuo con i polpastrelli sui loro telefonini. Ma la donna simbolo della rivolta contro il governo islamico sembra scomparsa. Anche Sinem Babul, la fotoreporter che l’ha immortalata nell’attimo in cui la giovane si opponeva al getto d’acqua delle forze dell’ordine, la cerca. «Non credo che sia stata portata via dalla polizia — dice nella redazione di T24, il giornale online autore in questi giorni non facili di un gran lavoro di informazione sul terreno — forse è tornata a casa e non vuole farsi vedere». Eppure, a Istanbul, le sue immagini sono un po’ ovunque. La foto di lei con la sua giacca grondante d’acqua e le scarpe da tennis rosse è diventata un’icona sui manifesti, sugli sticker, pure come un fumetto. Ci sono poster, addirittura, in cui la sua figura appare ingigantita rispetto a quella degli agenti dotati di caschi e scudi. Sotto, la scritta: “Più spari, più diventa grande”. «Questa foto incarna l’essenza della protesta — commenta Esra, che studia matematica all’università — e cioè la violenza della polizia contro manifestanti pacifici, persone che cercano di proteggere sé stesse e i valori in cui credono ». Del resto, basta guardarsi intorno, qui, e vedere quante sono le ragazze di Piazza Taksim, giovani turche belle e determinate nella difesa dei propri diritti. Indossano magliette delle marche di moda, come le loro coetanee a Parigi o Berlino. Ma dal loro colletto penzola con disinvoltura la garza con la mascherina antigas, mentre sulle spalle portano la bandiera rossa con la mezzaluna e la stella. C’è Hasine che, come una moderna Erinni, non nega di aver lanciato, «per esasperazione» ammette, qualche pietra contro un blindato. E Secil, con una piccola fascia bianca attorno al capo, che guata con occhi feroci una foto del premier Tayyip Erdogan: «Lui dice che noi siamo dei “vandali”. Non ha proprio capito, anzi forse uscirà da questa crisi senza aver imparato nulla. Il governo non può intromettersi nella vita privata delle persone, impedendogli, come sta cercando di fare, di bere, fumare, persino di baciarsi in pubblico. Ma stiamo scherzando? ». Tutte rigorosamente non velate («ci mancherebbe pure — ironizzano, tornando subito serie — quello è un simbolo dell’Islam politico, noi siamo musulmane laiche »), ai polsi braccialetti e perline, con le loro sciarpe leggere al collo vengono da Nisantasi, Sisli, Levent, i quartieri della Istanbul bene. Lavorano come impiegate, nelle scuole, o sono iscritte all’università. Adorano i film di Nuri Bilge Ceylan, il pluripremiato regista turco, ascoltano il rock-pop dei Mor ve Otesi (i Viola e oltre), e si abbeverano ai libri di Orhan Pamuk, il premio Nobel nazionale. Rappresentano l’elite della Turchia repubblicana e moderna, come le loro colleghe scese in strada in queste giornate drammatiche a Smirne, Ankara e persino nella Cipro turca divisa a metà. Appartengono, come la ragazza con la giacca rossa, ai ranghi della borghesia più articolata, che teme di soccombere sotto l’ombra autoritaria e poco tollerante dell’invadente premier. Erdogan è il bersaglio dei loro strali. «Ha fatto una legge per impedire l’aborto — dice Hasine, che studia chimica — Invita le famiglie a fare almeno tre figli. Si fa forte di essere stato votato dal 50 per cento degli elettori. Bene, io appartengo a quell’altro 50 per cento, la metà della popolazione per la quale lui non mostra né rispetto né considerazione, quelli che vuole stroncare. Ma io voglio avere un futuro qui, una carriera, libertà totale. Tutti concetti adesso minacciati». Questa sera, in piazza, sotto al monumento ad Ataturk, il fondatore laico, si prepara un’altra notte di resistenza. Può fare freddo, e la polizia turca ha la mano piuttosto dura. Le ragazze si sono attrezzate. Indossano cappelli pesanti, sono vestite di nero, hanno comode scarpe da corsa. Esra torna col pensiero al poster con la ragazza che diventa un gigante. Ha un’idea: «E se domani — dice — venissimo tutte a Piazza Taksim con la giacca rossa?». E comincia subito a inviare messaggi alle amiche, ovunque, digitando con i polpastrelli sul suo cellulare.
La STAMPA - Marta Ottaviani : " L’altro volto di Piazza Taksim: Erdogan? Ci ha fatto grandi "
Unico quotidiano di questa mattina a presentare che il punto di vista dei sostenitori di Erdogan è La Stampa, con questo articolo di Marta Ottaviani, presentato, però, accanto a un articolo di Francesca Paci che descrive la diminuzione dei consensi di Erdogan dovuta al suo islamismo.
Ecco il pezzo di Ottaviani:
Sono l’altra faccia di piazza Taksim. Quelli per cui Recep Tayyip Erdogan in Turchia ha fatto un miracolo e ha allargato anziché ristretto la democrazia nel Paese. Al quinto giorno di proteste, dopo tre morti, centinaia di feriti e le scuse del vicepremier Arinc («non abbiamo il diritto e non possiamo permetterci di ignorare la gente. Le democrazie non possono esistere senza l’opposizione»), i giovani dell’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo del premier Erdogan, sono divisi fra un sentimento di fiducia per la ricomposizione della situazione, ma anche preoccupazione per il futuro.
Abdullah Eren ha 29 anni ed è uno dei dirigenti dei giovani del partito. Per lui tutta questa storia della protesta è in parte strumentale. «Penso si sia voluta creare una situazione di atmosfera caotica spiega -. Se avessero avuto a cuore l’ambiente, i manifestanti non avrebbero distrutto 89 macchine della polizia, 42 auto private, 22 autobus pubblici e 99 negozi, ci sono danni per oltre 30 milioni di euro. Non sto dicendo che siano tutti dei facinorosi, sia chiaro, ma c’è da fare una bella distinzione fra veri manifestanti e provocatori».
Ma il punto su cui i giovani seguaci del premier si arrabbiano maggiormente è un altro: il paragone fra le proteste di Istanbul e la primavera araba. «Mi chiedo come si possa usare un’espressione del genere, è completamente sbagliata. La primavera araba ha riguardato Paesi dove c’erano dei dittatori, non governi eletti con votazioni regolari. Nessuno può paragonare la Turchia a questi posti e poi proteste analoghe sono andate in scena anche a Londra e New York perché nessuno ha usato il termine primavera in quel contesto?».
Un governo eletto democraticamente dal 2002, la crescita economica, ma le scene della repressione dei manifestanti sono ancora davanti agli occhi di tutti. Abdullah ne parla, senza nascondere niente, ma senza mettere in discussione nemmeno per un momento la buona fede di Erdogan. «Certo che c’è stata una reazione eccessiva alle prime manifestazioni, ma questo lo ha ammesso senza problemi anche il primo ministro e ha aperto un’indagine, non capisco le critiche, anche al fatto che sia andato in visita ufficiale in Nord Africa subito dopo. Sono impegni organizzati mesi prima. Il premier ha da mantenere l’immagine del Paese, c’è una stabilità economica da salvaguardare e questo lo fa anche nell’interesse dei manifestanti».
Ieri sera la gente a Istanbul è tornata in piazza in una protesta che, per il momento, non sembra avere intenzione di fermarsi. Sono sempre di più i negozi che espongono la bandiera turca. La gente si sente sempre più padrona della situazione e ieri anche il direttore della Ntv, l’emittente accusata di aver nascosto le proteste dei manifestanti si è scusato per come è stato coperto l’evento. Oggi si concluderà il secondo giorno dello sciopero indetto dalle maggiori sigle sindacali. Se il colloquio con il vicepremier Arinc non dovesse dare frutti concreti, allora potrebbero essere prese altre iniziative.
Ma nonostante tutto, Abdullah è tranquillo. «Se c’è una cosa sulla quale l’Akp non può essere attaccato è proprio questa: sono anni che cerchiamo il dialogo fra diverse parti della società turca. Lo abbiamo sempre fatto e continueremo così, chiedendo opinioni sul nostro operato. Al momento abbiamo ancora il 50 per cento dei consensi, vinciamo le elezioni dal 2002. Non ci vogliono? Benissimo, ma ci mandino via con le urne, non spaccando tutto. Io personalmente sono ottimista, credo che la protesta si esaurirà in qualche giorno, perché la gente si accorgerà che c’è chi va in piazza solo per seminare tensione. Quanto al premier Erdogan, piaccia o no, è un primo ministro di successo e credo diventerà anche un grande presidente della Repubblica».
La REPUBBLICA - Ian Buruma : " Le democrazie islamiche e i ribelli di Istanbul"
Ian Buruma
Ian Buruma cerca di minimizzare ciò che sta succedendo in Turchia e, soprattutto, tenta di negare il fatto che i laici siano scesi in piazza contro l'islamismo di Erdogan.
Buruma, inoltre, sostiene che, per altro, la democrazia non ci fosse nemmeno con Atatürk. I giovani scesi in piazza, quindi, non sarebbero altro che aspiranti dittatori? Meglio tenersi l'islamista Erdogan?
Secondo Buruma la Turchia è ancora una democrazia. Evidentemente, i processi agli scrittori e ai giornalisti e il fatto che in Turchia non ci sia libertà di espressione, non conta nulla.
Per comprendere il suo modo di ragionare, è sufficiente scrivere 'Buruma' nella casella 'cerca nel sito' in alto a destra sulla home page di IC.
Ecco il pezzo:
Le dimostrazioni antigovernative in corso nelle città turche potrebbero essere interpretate come un’imponente protesta contro l’islam politico. Quella che era partita come una manifestazione contro la proposta, appoggiata dallo Stato, di radere al suolo un piccolo parco nel cuore di Istanbul per far posto a un centro commerciale di dubbio gusto, si è rapidamente trasformata in uno scontro di valori. La disputa sembra apparentemente riflettere due concezioni diverse e opposte della Turchia moderna: secolare e religiosa, democratica e autoritaria. Si sono fatti paragoni con “Occupy Wall Street”; si parla addirittura di una “primavera turca”. È evidente che molti turchi, soprattutto nelle grandi città, sono stanchi dello stile vieppiù autoritario del primo ministro Recep Tayyip Erdogan, del pugno d’acciaio con cui controlla la stampa, delle restrizioni al consumo di alcol, del suo vezzo di erigere nuove, grandiose moschee e di arrestare i dissidenti politici. E adesso della sua violenta risposta ai manifestanti. La gente teme che alle leggi secolari possa sostituirsi la shari’a, e che le conquiste dello Stato secolare di Kemal Atatürk vengano sacrificate all’islamismo. C’è poi la questione degli aleviti: una minoranza religiosa legata al sufismo e allo sciismo. Gli aleviti, che lo Stato secolare kemalista tutelava, nutrono una profonda diffidenza nei confronti di Erdogan il quale se li è ulteriormente inimicati decidendo di intitolare un nuovo ponte sul Bosforo a un sultano del XVI secolo che massacrò il loro popolo. All’apparenza, al cuore della questione turca vi sarebbe la religione. L’islam politico è considerato dai suoi oppositori come intrinsecamente antidemocratico. Naturalmente, però, la faccenda non è così semplice. Lo Stato secolare kemalista non era infatti meno autoritario del regime islamista populista di Erdogan. Tutt’al più è vero il contrario. Ed è inoltre significativo il fatto che le prime proteste di piazza Taksim, a Istanbul, non siano sorte a causa di una moschea, ma di un centro commerciale. La paura della shari’a si accompagna alla rabbia suscitata dalla rapace volgarità dei costruttori e degli imprenditori sostenuti dal governo di Erdogan. La primavera turca sembra animata da sentimenti di sinistra. Così, anziché soffermarsi sui problemi del moderno islam politico, che sono certo considerevoli, sarebbe forse più proficuo osservare i conflitti in atto in Turchia da una prospettiva diversa, e oggi decisamente fuori moda: quella legata alle classi sociali. I dimostranti, che si tratti di persone di ampie vedute o di gente di sinistra, appartengono di norma all’élite urbana, occidentalizzata, istruita e secolare. Erdogan, dal canto suo, rimane invece assai popolare nelle zone rurali e provinciali del Paese, tra i cittadini meno scolarizzati, più poveri, più conservatori e più religiosi. A dispetto delle personali tendenze autoritarie di Erdogan, che sono certo evidenti, sarebbe fuorviante credere che le attuali proteste riflettano semplicemente il conflitto tra democrazia e autocrazia. Dopotutto, il successo di “Giustizia e Sviluppo”, il partito populista di Erdogan, così come il diffondersi sempre più capillare di consuetudini e simboli religiosi nella vita civile, non sono che il risultato della diffusione della democrazia nel Paese. Le tradizioni che lo Stato secolarista aveva abolito, come l’usanza delle donne di coprirsi il capo nei luoghi pubblici, sono riemerse perché è aumentata l’influenza esercitata dai turchi delle zone rurali. Le giovani donne religiose oggi frequentano gli atenei delle città. I voti dei turchi conservatori che vivono nelle province contano. L’alleanza tra uomini d’affari e populisti religiosi non è certo un fenomeno esclusivamente turco. Molti dei nuovi imprenditori, così come le donne che si coprono il capo, provengono dai villaggi dell’Anatolia. Sono nuovi ricchi di provincia, e nutrono nei confronti della vecchia élite di Istanbul un risentimento paragonabile all’odio che un uomo d’affari del Texas o del Kansas prova nei confronti dell’élite liberal di New York e di Washington. Affermare che la Turchia oggi è più democratica non equivale però a dire che è anche un Paese di più ampie vedute. Questo è uno dei paradossi evidenziati dalla primavera araba. Assicurare a tutti una voce all’interno del governo è considerato essenziale in ogni democrazia. Raramente però quelle voci sono tolleranti – soprattutto in tempi di rivoluzione. Ciò a cui assistiamo in Paesi come l’Egitto (ma anche in Turchia, e persino in Siria), è quello che il grande filosofo britannico Isaiah Berlin definiva “l’incompatibilità tra beni equivalenti”. È un errore credere che tutte le cose buone arrivino sempre contemporaneamente. Talvolta cose altrettanto buone si scontrano le une con le altre. Ed è questo che accade durante le dolorose transizioni politiche del Medio Oriente. La democrazia è una cosa buona, così come l’ampiezza di vedute e la tolleranza. Certo: idealmente dovrebbero coincidere. Oggi però nella maggior parte del Medio Oriente non è così. Più democrazia può significare, di fatto, minore ampiezza di vedute e minore tolleranza. È facile, ad esempio, prendere le parti dei ribelli che in Siria si oppongono alla dittatura di Bashar al-Assad. Ma quando Bashar se ne sarà andato le classi più agiate di Damasco, gli uomini e le donne in grado di apprezzare la musica e i film occidentali, che in alcuni casi appartengono alle minoranze religiose dei cristiani e degli alawiti, faranno fatica a sopravvivere. Il baathismo era oppressivo, dittatoriale e spesso violento, ma tutelava le minoranze e le élite laiche. È forse questo un motivo per sostenere i dittatori? Solo perché tengono a bada l’islamismo? Non proprio. Poiché la violenza dell’islam politico è in gran parte il prodotto di questi regimi oppressivi. Più rimangono al potere, più le rivolte islamiste saranno violente. Ma non è nemmeno un motivo per sostenere Erdogan e i suoi palazzinari a scapito dei dimostranti turchi. I manifestanti fanno bene ad opporsi alla sua sprezzante noncuranza dell’opinione pubblica e alla repressione che esercita sulla stampa. Ma sarebbe altrettanto sbagliato interpretare gli scontri come una lotta virtuosa contro il manifestarsi della religione. La maggiore visibilità dell’Islam è l’inevitabile conseguenza della diffusione della democrazia. Fare in modo che questa maggiore visibilità non vada a scapito della tolleranza rappresenta il compito più importante a cui i popoli del Medio Oriente devono fare fronte. Erdogan non è certo un liberale, ma la Turchia è ancora una democrazia. C’è da augurarsi che le proteste contro di lui la rendano anche più tollerante.
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