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" In viaggio nei Territori contesi " Cari amici, continuo a parlarvi del nostro viaggio in Giudea e Samaria. Di fronte all'esperienza, almeno se si tengono gli occhi aperti, molti pregiudizi spariscono. Per esempio la “povertà” palestinese di fronte alla “ricchezza” israeliana. I villaggi palestinesi che si attraversano sono di solito assai disordinati e confusi sul piano urbanistico, con molta spazzatura sulle strade. In alcuni casi la povertà è evidente e aggressiva, come abbiamo visto nel suk di Hebron, soffocante, sporco, pieno di odori forti e frequentato da ragazzini al primo contatto sorridenti e poi molto aggressivi se non ricevono l'elemosina che pretendono e magari propensi anche a prendersi dalle tue tasche quel che non è abbastanza sorvegliato, come nei vecchi film sul “ventre di Napoli”. Ma tutte le città e i villaggi hanno anche grandi condomini nuovi, vistose ville dei boss con tetti a pagoda o colonne palladiane e altre caratteristiche di pessimo gusto. Ho visto un paio di volte dei carretti trainati da animali, una volta un ragazzo che cavalcava fiero un asino in mezzo al suk di Hebron; ma le macchine nuove e anche di lusso con la targa verde non mancano affatto. La seconda impressione che smentisce i luoghi comuni riguarda l'organizzazione del territorio. Che di natura è tutto a saliscendi, a curve e a valli, coperto da un fitto intreccio di strade e molto abitato, salvo i tratti veramente desertici. Quel che colpisce sul piano della riflessione politica è il modo in cui le popolazioni sono inestricabilmente mescolate. Si ha un bel parlare di linea verde, di zona A amministrata dell'Autorità Palestinese, zona B condivisa e zona C tutta gestita dagli israeliani. Ma non bisogna figurarsi che queste zone siano larghe fette geometriche, come i confini delle nostre province. In realtà si intrecciano, si mescolano, si sovrappongono quasi. Per cui non c'è quasi pezzo di strada o vetta di collina da cui non si vedano due o tre villaggi palestinesi, con i serbatoi d'acqua neri sui tetti, le moschee, pochi alberi e nessuna pianificazione urbanistica e altrettanti villaggi israeliani, con le casette a schiera coi tetti rossi macchiati dai pannelli solari, molti alberi e fiori, il segno di un progetto di edificazione ben studiato. Separarli con una linea coerente sarebbe impossibile, stabilire dove incomincia la Palestina e dove finisce Israele si potrebbe fare solo al prezzo di espulsioni di massa di dimensioni intollerabili. E bisognerebbe spiantare anche campi che sono altrettanto mescolati fra le diverse comunità, industrie, strade che congiungono villaggi e cittadine che andrebbero distrutte... Per chi gira un po' per questi territori l'impressione sempre più forte è che i due Stati separati territorialmente siano un'illusione insostenibile, resa impossibile dall'adattamento geografico reciproco delle due società, che hanno in comune le strade principali, molti servizi, un paesaggio affascinante quanto compresso e limitato. L'indizio più chiaro si ha guardando le fermate degli autobus, protette da blocchi di cemento in direzione della strada per evitare quella forma di terrorismo diffusa qualche tempo fa che consisteva nel travolgere con macchine e camion i “sionisti” in attesa. Queste fermate, almeno quelle collocate lungo le grandi arterie e ai loro incroci, sono frequentatissime: le frequentano soldati in verde oliva, donne velate, ebrei ultrareligiosi tutti neri, ragazzi dall'aria molto casual che non sai identificare come arabi o ebrei. Esempio perfetto di convivenza, si direbbe, se non si sapesse che a una di queste fermate, su un incrocio dove siamo passati tre o quattro volte, solo due settimane fa un israeliano scelto a caso o forse solo per il suo aspetto è stato ucciso da un terrorista. Questo è il segno di questi luoghi, così pieni di spiritualità e di pace. Il paesaggio dei patriarchi, pietre bianche e terra rossastra e ulivi e colline spoglie che diventano deserto è cosparso di memorie di sangue. In quella vecchia casermetta della polizia inglese sono morti in undici, qui è stata uccisa una bambina piccola, su quella strada si ricordano spari continui fino a che è stata protetta da una barriera di cemento, ma più in là ancora si lanciano pietre. La logica urbanistica lo racconta molto bene. I villaggi israeliani sono compatti, almeno quelli piccoli, come tartarughe fiorite che si difendono dentro il loro guscio e naturalmente sono protetti da reti di sicurezza, sensori, telecamere, filo spinato, ronde di polizia in buona parte pagate dalle comunità. I paesi arabi sono disseminati, le case isolate e i piccoli nuclei aperti non mancano affatto: segno chiaro che nessuno li vuole aggredire. Gli ebrei di Hebron vivono barricati in una sola strada, il 3% della città. Li si incolpa di molestare con lanci di oggetti il suk che passa sotto le loro case, ma se volessero passarvi potrebbero farlo solo con la difesa delle armi, come fanno tutti assieme una volta alla settimana. Se qualcuno di loro fosse colto isolato e senza difesa nella città in cui i suoi antenati hanno vissuto ininterrottamente per tremila e passa anni fino ai terribili pogrom degli anni Venti e Trenta del secolo scorso che resero la città dove c'è la tomba di Abramo judenrein, neanche lui vivrebbe a lungo. E dunque, prima della progettazione, lo ripeto, infinitamente problematica, dei confini fra due stati compatti e ben separati, bisognerebbe porsi il problema di moderare le pulsioni omicide degli arabi nei confronti degli ebrei, cioè bisognerebbe disfare quel che decenni di propaganda ininterrotta all'odio e alla morte hanno fatto e continuano a fare. La separazione completa dei due popoli è probabilmente impossibile, è più facile che l'intreccio si arricchisca e si complichi ancora, com'è stato per secoli non solo in tutto il Medio Oriente, ma nei Balcani, nel Caucaso, in tutte le zone di confine. Chiunque pensa di essere progressista e pluralista dovrebbe apprezzare questa possibile mescolanza, che naturalmente ha come precondizione fondamentale la rinuncia alla violenza, il riconoscimento del diritto all'esistenza dell'altro, la sconfitta definitiva del terrorismo. Ora ci sono certamente stati episodi di violenza anche da parte ebraica, ma è evidente, perfino visibile sul territorio che il terrorismo è stato in grandissima maggioranza esercitato e continua ad esserlo da parte degli arabi sugli ebrei. Un arabo che passeggia nel centro di Gerusalemme non rischia nulla, anzi è un fenomeno ovvio e comunissimo cui nessuno bada; un ebreo a Ramallah o a Jenin entra a rischio della propria vita, come ripetono i grandi cartelli rossi di divieto che si leggono a ogni diramazione delle strade principali che porta verso un insediamento palestinese. E' questo il punto, mi è sembrato di capire finora: sconfiggere la furia omicida e antisemita della società palestinese. Qualche segnale che induce all'ottimismo c'è, i militari che abbiamo incontrato ci hanno parlato di una collaborazione fruttuosa con la loro controparte palestinese, un capovillaggio arabo ci ha detto che a lui e ai suoi non interessa in che Stato dovrà vivere, purché possa vivere a modo suo; responsabili di uffici e di imprese israeliane ci hanno detto di lavoratori e consumatori palestinesi che non si sognano di rispettare i boicottaggi degli ideologi antisionisti in Europa e in America. Gli incidenti che capitano abbastanza spesso, ci hanno spiegato i responsabili del consiglio di Giudea e Samaria, non vengono per lo più dai contadini, che collaborano abbastanza bene fra di loro sulla base di interessi comuni, ma da gruppi estremisti stranieri e israeliani (di estrema sinistra), che cercano di “aiutare” in questo modo i palestinesi, inasprendo in realtà la loro condizione di vita in nome di un'ideologia sedicente rivoluzionaria (ma in fondo antisemita). C'è dunque, forse, qualche speranza, se si pensa fuori dagli schemi. Il benessere che si affaccia, anche se molto ineguale, sulla società palestinese, e l'intreccio con una presenza israeliana che ormai è stabile da generazioni, forse possono produrre degli effetti di pacificazione (o come dicono i suoi nemici di “normalizzazione”) nonostante la volontà contraria delle élites politiche e religiose. Ma bisognerà che anche la politica israeliana sappia abbandonare la pantomima della “pace” fra due Stati, come spiegano quelli che vivono a contatto con i palestinesi, nelle comunità oltre la linea verde. Gli odiatori di Israele traducono la loro definizione inglese (“settlers”) con l'espressione volutamente insultante di “coloni”. Io penso che bisognerebbe chiamarli piuttosto “pionieri”, perché lo sono, indicano una strada nuova e difficile, hanno animo e coraggio. Ne riparleremo. Ugo Volli |
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