Riportiamo da La NUOVA BUSSOLA QUOTIDIANA l'articolo di Valentina Colombo dal titolo "La parola che libererà le donne".
Valentina Colombo Amina Tyler
Sin dal 2005, quando pubblicai per Mondadori l’antologia di scrittrici arabe contemporanee “Parola di donna, corpo di donna”, ho affermato che solo attraverso la parola le donne arabe avrebbero riconquistato il loro corpo ovvero la loro libertà.
Solo una donna che descrive se stessa in prima persona è una donna libera di esprimere i propri sentimenti, nel bene e nel male, di denunciare le violenze e i soprusi ricevuti, in poche parole di essere veramente libera.
Nell’ultimo decennio, attraverso la scrittura le donne arabe hanno superato i limiti imposti non solo dalla sharia, ovvero dal diritto islamico, ma anche da una tradizione che vede l’uomo come fisiologicamente superiore alla donna.
A seconda dei paesi le scrittrici hanno combattuto la propria battaglia per conquistare i diritti fondamentali primo fra tutti la parità, nei diritti e nei doveri, tra uomo e donna. La cosiddetta primavera araba e la conseguente ascesa politica di movimenti legati all’estremismo islamico ha portato la donna nuovamente alla ribalta.
Alla fine del 2012 si scatena su Facebook la straordinaria campagna “Uprising of Women in the Arab World” che ha visto, e vede ancora, migliaia di donne arabe, velate e non, postare le proprie fotografie sul social network e dichiarare la propria partecipazione alla battaglia per tutelare e in alcuni casi conquistare i propri diritti senza se e senza ma.
Prima ancora, il 1° agosto scorso la Commissione Diritti e Libertà dell’Assemblea Costituente, preposta a elaborare la costituzione della Tunisia “libera”, aveva approvato, grazie ai nove voti dei membri del partito legato ai Fratelli musulmani al-Nahdha e tre voti di altri deputati, il nuovo articolo 28 che così recitava: “Lo Stato garantisce la protezione dei diritti della donna, ne consolida le acquisizioni, considerandola come la vera compagna dell’uomo nella costruzione della patria e con il quale svolge ruoli complementari in seno alla famiglia”.
La protesta delle associazioni femminili e delle femministe tunisine riesce, il 24 settembre 2012, a fare sì che la Commissione mista dell’Assemblea costituente eliminasse il riferimento alla “complementarietà” che nell’interpretazione dell’estremismo islamico va ben al di là della complementarietà biologica, ma diventa sinonimo di controllo della donna da parte dell’uomo.
Già verso fine del 2011 si era assistito a un’ulteriore svolta, un’ulteriore modalità nel condurre la lotta per l’emancipazione femminile innanzi alla pericolosa avanzata di chi vuole coprire e nascondere la donna e in primis il suo corpo.
Nel novembre 2011 la giovane blogger egiziana Alaa Magda Elmahdy posta le sue fotografie senza veli per “gridare contro una società di violenza, razzismo, sessismo, molestie sessuali e ipocrisia”. È una vera provocazione in un Egitto che da anni vede le proprie donne velate in nome dell’islam politico che individua, come ha affermato più volte il teologo Gamal al-Banna, nel velo il proprio simbolo.
A seguito di un acuirsi delle minacce la blogger è stata costretta a chiedere asilo politico in Svezia.
Il marzo scorso anche in Tunisia si assiste a un caso simile. Amina Sboui, diciannovenne, posta su Facebook le proprie fotografie a seno nudo con un cartello recante la scritta “Il mio corpo mi appartiene, e non è la fonte dell’onore di nessuno”. La protesta di Amina non si ferma e lo scorso 19 maggio sfida, in maglietta e pantaloncini, i salafiti a Kairouan e viene arrestata.
La giovane non ha mai negato la propria ammirazione per il movimento Femen che si scatena in sua difesa. Il 29 maggio tre attiviste Femen europee sono state arrestate mentre manifestavano a seno nudo davanti al tribunale di prima istanza di Tunisi dove ieri è iniziato il processo.
È evidente che tutta la solidarietà vada ad Alaa e Amina, ma i loro casi impongono una riflessione. In paesi come l’Egitto e la Tunisia in cui mancano le libertà fondamentali, prima fra tutte quella di espressione e religione, ha senso una tale provocazione e ha senso che donne europee manifestino denudandosi provocando ulteriormente?
In paesi dove i sentimenti anti-occidentali sono molto accesi ha senso proporre un modello di donna visto come estraneo anche da alcune femministe laiche? Non sarebbe meglio avviare una mobilitazione internazionale volta a tutelare, ad esempio, i diritti della donna tunisina conseguiti nel 1956 e messi a repentaglio dall’avanzata dell’estremismo islamico?
Una mobilitazione internazionale volta a fare sottoscrivere da tutto il mondo arabo il CEDAW, la Convenzione per l’eliminazione della discriminazione nei confronti della donna delle Nazioni Unite, documento bollato di recente come anti-islamico dall’Unione Internazionale degli Studiosi Islamici guidata dal teologo dei Fratelli musulmani Yusuf Qaradawi. Una mobilitazione internazionale volta a fare sottoscrivere la Convenzione di Istanbul dal mondo arabo senza alcuna riserva.
Sono comunque convinta che una vera libertà per le donne arabe potrà arrivare solo nel momento in cui la parola, quella di tutti i cittadini, uomini e donne, musulmani e non, sarà emancipata e solo quando si comprenderà appieno il significato dei versi della poetessa del Bahrain Hamda Khamis: “Ogni corpo è un essere vivente. Ogni poesia è femmina”.
Per concludere, solo attraverso la parola, il corpo, coperto o meno, otterrà rispetto e dignità e giovani come Alaa e Amina provocheranno con l’arma più naturale e al contempo più micidiale: le parole.
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