Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 04/06/2013, a pag. 1-30, l'articolo di Sergio Luzzatto dal titolo " Quel suicidio non si lega ai partigiani ", a pag. 31, la replica di Alberto Cavaglion dal titolo " Cavaglion: ma la 'voce' raccolta dal curato è realistica ".
Primo Levi
Sergio Luzzatto - " Quel suicidio non si lega ai partigiani "
Sergio Luzzatto
Domenica scorsa, La Stampa ha dato grande rilievo a un intervento di Alberto Cavaglion (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=49390) che pretenderebbe di spiegare il «segreto brutto» di Primo Levi: l’episodio più traumatico della sfortunata sua esperienza di partigiano nella Valle d’Aosta dell’autunno 1943. Nel diario di un curato la chiave del «segreto brutto» è il titolo di una ricostruzione lanciata in prima pagina come «la verità» riguardo all’esecuzione di due giovani ribelli, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, appartenuti alla banda di Levi e fucilati dai compagni. In realtà, un po’ tutto in questo dossier storiografico autorizza a pensare che le cose siano andate diversamente da come Cavaglion e La Stampa vorrebbero credere.
Il sedicente scoop di Cavaglion è ricalcato (senza dirlo) sopra un articolo uscito qualche settimana fa su un periodico online di Torino, Civico20News. Dove un medico torinese, il dottor Gian Carlo Pavetto, figlio del medico condotto di Brusson negli Anni 40, garbatamente ipotizzava che una spiegazione del «segreto brutto» andasse ricercata dentro una Petite Chronique di vita parrocchiale pubblicata nel 1970 dall’arciprete di Brusson, don Adolphe Barmaverain. In particolare, riuscirebbe decisiva un’allusione del sacerdote al suicidio di una sessantacinquenne signora ebrea viennese, «Mme Polkorny Elsa», che il 17 dicembre 1943 si sarebbe tolta la vita dopo essere stata minacciata e vessata da alcuni partigiani: «La voix courut que ces partisans auraient été fusillés par leur chef venu à la connaissance de ces vexations...».
Ed ecco che Cavaglion si getta sulle cinque righe della Petite Chronique come su una manna piovuta dal cielo. Erroneamente, chiama «diario» qualcosa che non è affatto un diario, ma una rielaborazione a posteriori di registri parrocchiali e appunti personali. E si affida al «corse voce» di don Barmaverain (ignorando il successivo verbo al condizionale e i puntini di sospensione finali) come se contenesse la chiave di volta dell’intera faccenda. «Il parroco di quei luoghi ci racconta dunque un altro pezzo della storia mancato a Luzzatto: i partigiani furono fucilati dal loro capo perché avevano vessato e minacciato un’anziana ebrea viennese rifugiata in Valle fino al punto di spingerla al suicidio».
Se soltanto Cavaglion si fosse dato la pena di leggere, oltre alle cinque righe sulla morte di «Mme Polkorny Elsa», le tre pagine dedicate dalla Petite Chronique ai venti mesi dell’occupazione tedesca, si sarebbe accorto che il fantomatico «diario» di don Barmaverain ridonda di formule analoghe a «la voix courut», e altrettanto impalpabili, riguardo a questo o quell’abitante di Brusson travolto dalle vicende della guerra civile: «l’on raconte», «l’on parle», «le public en conclut», «le bruit courut», eccetera. Sicché qualsiasi storico minimamente avvertito farà bene a maneggiare le tre pagine dell’arciprete per niente di più né di meno di ciò che sono: una raccolta dei rumors che i drammatici eventi del 1943-45 poterono alimentare in una lacerata comunità di villaggio della val d’Ayas.
Nulla Cavaglion conosce del contesto locale che produsse gli eventi di inizio dicembre ’43, salvo quanto io stesso ho ricostruito nel libro Partigia (Mondadori). L’autore del falso scoop si trova dunque nell’incapacità di distinguere quanto riesce plausibile e quanto no nella testimonianza a posteriori di don Barmaverain. Di plausibile, per esempio, c’è un nesso diretto fra le vicende della banda di ribelli casalesi raccoltasi a Brusson e la famiglia Revil, presso cui alloggiava la signora ebrea originaria di Vienna. La padrona di casa, Cecilia Revil, gestiva infatti nella frazione di Arcesaz l’osteria dei Tre Cavalli, che serviva da base operativa dei partigiani e che fu militarmente investita, il 13 dicembre, da un rastrellamento nazifascista nel quale venne catturato anche Primo Levi.
Molto meno plausibile risulta l’ipotesi di un nesso diretto fra il suicidio della signora viennese e l’esecuzione dei due giovani partigiani. Non foss’altro, perché la cronologia non è materia d’opinione. Numerose fonti archivistiche da me reperite e analizzate in Partigia indicano nel 9 dicembre 1943 il giorno in cui Oppezzo e Zabaldano vennero giustiziati dai compagni della banda. Mentre lo stesso don Barmaverain indica nel 17 dicembre il giorno in cui «Mme Polkorny Elsa» fu trovata cadavere in casa Revil. Se queste furono le date, veramente i due ragazzi poterono essere fucilati – per punizione di soprusi da loro compiuti – otto giorni prima che la signora ebrea si suicidasse?
L’ipotesi suona talmente strampalata che se ne accorge perfino Cavaglion. Il quale sente allora il bisogno di aggiungere: «Barmaverain non dice quando sia realmente morta l’anziana ebrea». In altre parole, Cavaglion deve immaginare che «Mme Polkorny Elsa» si sia uccisa con largo anticipo sul giorno in cui fu trovata cadavere. E deve suggerire, implicitamente, che il corpo della signora sia rimasto per una decina di giorni ignorato (o addirittura occultato) in casa Revil. Il che presumerebbe fra l’altro che il medico condotto, dottor Andrea Pavetto, abbia sottaciuto nel referto mortuario il carattere risalente del decesso: poiché (sia detto per informazione di Cavaglion) presso gli uffici anagrafici del comune di Brusson la morte della signora risulta ufficialmente datata al 17 dicembre 1943.
Di là da questioni di cronologia e di necrologia, altri elementi del dossier consentono di ipotizzare una diversa ricostruzione degli eventi rispetto a quella brandita da Cavaglion come la chiave esplicativa del «segreto brutto». Segnatamente, spinge a immaginare uno scenario diverso la vicenda biografica di quell’anziana signora ebrea di cui Cavaglion ignora tutto, ma proprio tutto («Chi era Elsa Polkorny?», si domanda con spensierata franchezza). Se l’autore del falso scoop avesse meglio esercitato i suoi talenti di studioso, sarebbe pervenuto a conclusioni meno affrettate – ma non per questo meno tragiche – su quanto probabilmente accadde a Brusson in quei giorni di dicembre del ‘43.
«Mme Polkorny Elsa» si chiamava in realtà Elsa Pokorny, ed era nata a Vienna nel 1878. Proveniva da una famiglia israelita della Mitteleuropa asburgica: ebreo boemo il padre, ebrea slovacca la madre, ebreo viennese originario della Galizia il marito, l’avvocato Leopold Amster, da cui aveva avuto due figlie e di cui era rimasta vedova nel 1932. Dopo l’annessione dell’Austria al Reich hitleriano, Elsa Pokorny Amster aveva giudicato prudente lasciare Vienna per l’Italia, fosse pure l’Italia di Mussolini e poi delle leggi razziali: era andata ad abitare presso la figlia primogenita, sposata con un italiano non ebreo residente sulle rive del lago Maggiore. E dopo l’8 settembre 1943, la signora viennese si era ritrovata a Brusson come per il forzoso prolungamento autunnale di una villeggiatura cominciata in estate con la figlia e le due nipotine.
Inquilina in casa Revil, Elsa Pokorny portava sulle spalle il fatale destino di una famiglia di ebrei asburgici della sua generazione. La sorella, Helene Pokorny, vedova di un dottor Rudolf Hatschek già medico di buona fama nell’ Austria Felix di inizio secolo, era stata arrestata a Vienna nel giugno 1942 insieme con il figlio minore, Wilhelm: deportati entrambi nel campo di concentramento di Maly Trostinec, in Bielorussia, erano stati sterminati all’arrivo con gli altri mille «pezzi» del «trasporto n. 24». Mentre il cognato di Elsa Pokorny, il dottor Hatschek, era morto probabilmente suicida (come centinaia e centinaia di ebrei viennesi degli anni trenta) nell’agosto 1939, cioè al precipitare delle cose verso la guerra mondiale e la Soluzione finale.
La figlia e le due nipotine di Elsa Pokorny erano restate con lei a Brusson fino agli ultimi giorni di settembre del ’43. Per l’inizio dell’anno scolastico avevano fatto ritorno sul Lago Maggiore, ma riuscendo a tenersi in contatto con l’anziana signora rimasta sola in Val d’Ayas. Ancora nel mese di novembre, scrivendo alla figlia, Elsa Pokorny non si era mostrata più che tanto inquieta per il suo proprio avvenire. La situazione dovette precipitare dopo il 1° dicembre 1943: cioè dopo che da Salò fu emanato l’«ordine di polizia n. 5», che prescriveva l’arresto e la deportazione di tutti gli ebrei italiani o stranieri presenti sul territorio della Repubblica sociale.
Può darsi fra il 1° e il 9 dicembre alcuni partigiani della banda di Arcesaz – forse anche Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano – abbiano preso di mira la «tedesca» che alloggiava in casa Revil, che non sapeva una parola di italiano, e che gli squattrinati ribelli potevano immaginare danarosa. Di sicuro, il 9 dicembre i due giovani furono giustiziati dai compagni della banda: secondo le carte d’archivio del 1943-44, perché il giorno prima a Saint-Vincent avevano compiuto un «colpo» troppo azzardato, perché parlavano o straparlavano di «comunismo», perché minacciavano di scappare e di tradire.
Seguì, il 13 dicembre, il rastrellamento nazifascista che scompaginò la banda dei casalesi, provocò la cattura di Primo Levi, Luciana Nissim e Vanda Maestro, costrinse altri ebrei nascosti in val d’Ayas a un periglioso fuggi fuggi nelle nevi. La mia ipotesi è che Elsa Pokorny non abbia retto alla terribile accelerazione degli eventi, e si sia data la morte in un giorno compreso fra il lunedì 13 e il venerdì 17.
Quanto al «segreto brutto» che a lungo Primo Levi si porterà dietro dopo la Resistenza e dopo il Lager, fino al Sistema periodico del 1975, io credo che facciano torto proprio a Levi coloro che vorrebbero oggi ridurre tale segreto alle dimensioni di una pseudo «verità» sopra presunti delitti di Oppezzo e Zabaldano. Partigiani che uccidono partigiani: il «segreto brutto» ci colpisce e ci interpella perché sollecita dilemmi di altra misura e natura. Il problema del male che si annida anche nel bene della storia. E il sospetto che – in una guerra civile come in un campo di sterminio – infinite sfumature di grigio uniscano il nero dei colpevoli al bianco degli innocenti.
Alberto Cavaglion - " Cavaglion: ma la 'voce' raccolta dal curato è realistica"
Alberto Cavaglion
Stupisce che Sergio Luzzatto, conoscendo la vicenda dell’ebrea di Vienna morta suicida al col de Joux e degli altri ebrei là rifugiati e vessati dai partigiani ne abbia taciuto nel suo libro così ricco di dettagli e testimonianze, alcune delle quali decisamente meno rilevanti. Resta il fatto che alla data del 17 dicembre il parroco di Brusson scrive del suicidio della signora e lo mette in rapporto alla fucilazione di partigiani decisa dal loro capo perché colpevoli di averla minacciata. Per quanto il parroco riflettesse una «voce», è piuttosto singolare che quello stesso 17 dicembre il sacerdote fosse già al corrente della fucilazione e ne sapesse dare una spiegazione che collimava con un fatto storico, sia pure avvenuto qualche giorno prima, che noi abbiamo appreso soltanto molti anni dopo. Lo stesso autore di Partigia – d’altra parte – non esclude che i due avessero partecipato alle minacce dell’anziana ebrea, contraddicendo in parte la dettagliata e assertiva ricostruzione appena compiuta.
Quando ho saputo di Barmaverain in un primo tempo avevo creduto si trattasse di un manoscritto non facilmente accessibile. Poi ho appreso che si trattava di un libro stampato. Non inseguo scoop, ma non aspetto nemmeno la manna dal cielo. Cerco e qualche volta trovo un libro in biblioteca. La risposta di Luzzatto al mio articolo conferma – a mio parere - che la sua ricostruzione è stata selettiva: il «segreto brutto» era un segreto più ampio, l’averlo circoscritto al «rimorso» per l’esecuzione dei due partigiani rimane il frutto di una manipolazione delle citazioni di Levi. In particolare di quella tratta da Se questo è un uomo , dove Levi parla di arresto «conforme a giustizia» riferendolo alla sua intera per quanto breve esperienza di partigiano, compresa – forse – la scoperta che nella sua banda vi era chi «minacciava e vessava» gli ebrei. La storia non si fa con i «corse voce che…» (salvo poi riscontrare che riferivano un fatto realmente accaduto), ma nemmeno con i «non ricordo» collezionati da Luzzatto nella sua indagine. Soprattutto se poi su di essi si costruisce un’interpretazione arbitraria delle piccole frasi di Levi. La storia è dolorosa per tutti.
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