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La Repubblica Rassegna Stampa
04.06.2013 A. B. Yehoshua: i palestinesi hanno diritto a un loro Stato
intervista di Cesare Pavoncello con titolazione totalmente sbagliata

Testata: La Repubblica
Data: 04 giugno 2013
Pagina: 48
Autore: Cesare Pavoncello
Titolo: «Ritorno. L’appello di Yehoshua: i palestinesi hanno diritto a riunirsi in una patria»

Riportiamo da REPUBBLICA  di oggi, 04/06/2013, a pag. 48, l'intervista di Cesare Pavoncello a A. B. Yehoshua dal titolo " Ritorno. L’appello di Yehoshua: i palestinesi hanno diritto a riunirsi in una patria ".


A. B. Yehoshua

Il titolo dell'articolo è totalmente scorretto e stravolge il senso delle parole di Yehoshua.
Quello che sostiene Yehoshua nell'intervista è che i palestinesi hanno diritto a un loro Stato. Il termine 'ritorno' è usato nel titolo in maniera ambigua, ricorda la pretesa assurda e inaccettabile del 'diritto al ritorno' dei profughi palestinesi.
Anche Yehoshua usa il termine 'ritorno', ma in questo senso : "
La giusta logica di spartizione del territorio fra i due popoli stabiliva che come esiste una Legge del ritorno riservata agli ebrei che vogliano tornare alla propria patria storica, così lo Stato palestinese – che non è mai sorto, ma che auspicabilmente sorgerà – abbia una propria legge del ritorno, a beneficio dei palestinesi che vogliano tornare nella loro patria. ".
Invitiamo i lettori di IC a scrivere a Ezio Mauro, direttore di Repubblica per protestare contro lo stravolgimento delle parole di Yehoshua contenuto nella titolazione dell'intervista: rubrica.lettere@repubblica.it

Ecco l'intervista:

Che posto occupa, Abraham Yehoshua, l'identità nazionale nella singolare nascita di Israele, dopo una diaspora durata 2 mila anni? « Il popolo ebraico che ha fondato la moderna Israele contiene in sé molto di nuovo, ma anche qualcosa di antico. È stato esiliato dalla sua terra e per quasi due millenni non ha fatto nulla di serio per farvi ritorno: né individualmente, né collettivamente. (...) Ciò fece sì che l'identità ebraica si distaccasse da qualsiasi caratteristica nazionale, riducendosi esclusivamente a identità religiosa. Tutto questo è durato quasi 2.500 anni: anni in cui gli elementi della terra e della lingua ebraica divennero praticamente virtuali. Questo è il poco che restava ai tempi della nascita del movimento sionistico, il quale iniziò a forgiare una nuova identità ebraica». A cosa si deve questa “resurrezione”? « Per secoli gli ebrei risiedettero presso le varie nazioni come gruppo che professava una fede diversa; la loro vita non fu sempre semplice e non mancarono le persecuzioni. Tuttavia, non sorse nessun re o papa o governo che propose e tanto meno promosse o attuò l'annientamento del popolo ebraico. Ciò è avvenuto solo nella storia più recente con Hitler. L'antisemitismo iniziò a divenire più virale e pericoloso nel XIX secolo, quando emersero due fattori concomitanti: l'indebolimento dell'identità religiosa, avvenuta in quasi tutte le società europee con il diffondersi delle idee illuministiche fatte proprie anche dagli ebrei, i quali svilupparono la loro Haskalà( Illuminismo ebraico); e la nascita del sionismo, avvenuta più o meno parallelamente ai movimenti nazionali nei vari paesi europei, che gradualmente attrasse consensi nell'ambito ebraico (...)». Dunque, l'esperienza ideologica del sionismo... « No, il sionismo non è mai stato un'ideologia. La sua aspirazione – in buona parte realizzata – era far uscire il popolo ebraico dalla innaturale condizione in cui si era trovato nella storia e riportarlo alla normalità: ovvero tornare ad essere un popolo che vive nel proprio Stato, che parla una propria lingua e che è responsabile del proprio destino. Esattamente come i danesi, i norvegesi o gli inglesi. Dentro a questo Stato “norma-le”, ognuno avrebbe potuto promuovere e aderire all'ideologia che più gli si addiceva – religioso o socialista, capitalista, liberale o comunista – sotto un governo che rispondesse alle caratteristiche irrinunciabili di ebraicità e democraticità (...)» Ma le idee sono concepite da persone in carne ed ossa, che influenzano gli eventi e ne sono a loro volta influenzate. Quale peso ha avuto, e ha, la leadership sionista e israeliana sulla formazione della nuova identità ebraica? « La leadership sionista ha mostrato chiaramente la strada. La nascita dello Stato di Israele doveva significare l'abbandono di qualsiasi dualismo e l'accettazione dell'esistenza della sola identità israeliana. Con la sua nascita, l'israeliano diventava 'l'ebreo totale': quello cioè che vive nel proprio territorio, parla la propria lingua, gestisce il proprio futuro con un proprio governo. Questo è Israele (...). È questa la struttura identitaria che il sionismo ci ha tramandato e che noi dobbiamo mantenere nella sua sostanza. Con ciò, è chiaro che l'identità di un popolo è un fatto dinamico e l'influenza della leadership è strettamente legata a fattori personali e a circostanze interne ed esterne». Quale di questi fattori esercita la forza maggiore sulla formazione dell'identità israeliana? « Senza dubbio il conflitto con il mondo arabo e con i palestinesi. Soluzioni diverse porteranno a identità israeliane diverse: basti solo pensare alla soluzione “due popoli, due Stati” rispetto a quella di un “Israele stato bi-nazionale”. Inoltre le dinamiche del conflitto, gli alti e bassi nella ricerca di una soluzione pacifica e le ricorrenti violenze influenzano tutti gli aspetti della vita in Israele: politica, economia, turismo, cultura e la sensazione di maggiore o minore apertura al mondo esterno. A ben vedere, vi è un divario enorme fra il peso della leadership nel passato rispetto ad oggi. Ben Gurion, al di là della grandezza del personaggio, aveva dalla sua di trovarsi a creare dal nulla o quasi; il suo margine di libertà, che gli veniva sia dalla forte personalità che dall'urgenza del contesto, era enor- me. Oggi un primo ministro, come ad esempio Netanyahu, si muove in un campo molto più ristretto; qualche volta la sua funzione è più simile a quella di un direttore generale che a una figura istituzionale capace di dare un'impronta personale allo Stato. Certo, può esercitare la sua influenza sulla spesa, in tal modo rafforzando o indebolendo istituzioni e organizzazioni che veicolano i vari aspetti dell'identità israeliana; tuttavia, mi sembra che la leadership odierna sia troppo occupata a gestire le pressioni esterne e interne – politiche, geopolitiche, demografiche, economiche – per dedicarsi seriamente a dare un contributo originale alla formazione dell'identità israeliana. Credo si debba aspirare a un'identità in cui l'israeliano trovi il giusto equilibrio fra i vari retaggi storico–culturali che compongono il suo mosaico sociale e la sua ormai incontestabile presenza in una regione che fa da ponte fra Oriente e Occidente, fra Sud e Nord del Mediterraneo. Un'identità sostanzialmente mediterranea, in cui tutti questi elementi trovino un loro spazio ed equilibrio ». Molti le rimproverano che questa sua visione dell'identità israeliana sembri ignorare l'importanza dell'aspetto ebraico... « Cosa significa questa distinzione artificiale? Il fatto di essere israeliano (mi riferisco ovviamente all'identità, non alla cittadinanza) non implica forse in sé che io sia ebreo? Come accennavo prima, la nascita di Israele ha fatto dell'israeliano un ebreo totale, che non ha più bisogno di ancorare la propria ebraicità alla religione. Un israeliano laico è forse meno ebreo di chi a Parigi o Roma va in sinagoga una volta l'anno o studia il Talmud una volta a settimana? È proprio questo il senso del passaggio identitario che ci ha trasformato da ebrei a israeliani: siamo legati alla storia ebraica, viviamo in uno Stato governato da una leadership ebraica, paghiamo come ebrei le tasse ad altri ebrei, andiamo in guerra per difendere altri ebrei e cerchiamo le strade della pace per il bene di altri ebrei. Tutto ciò è così ovvio che non meriterebbe neppure di essere discusso». Lei stesso comunque ha prima citato l'ebraicità, insieme alla democraticità, come condizione essenziale dello Stato d'Israele. « Un'ebraicità da intendersi però non come espressione religiosa, bensì come punto di raccordo tra la storia e i valori del popolo ebraico e l'esigenza di garantire il carattere moderno e democratico dello Stato. (...) Israele si trova a vivere e a gestire situazioni molto complesse. Tuttavia, i timori sulla sua democraticità e sulla garanzia di libertà al suo interno hanno spesso origine da un'incomprensione di base delle premesse che hanno portato alla sua nascita. Quest'ultima, perseguita dal sionismo, è stata sancita dall'Onu nel 1947, con la condizione che questo fosse lo Stato del popolo ebraico. Questo è il dato di partenza e ogni riferimento alla democrazia deve considerarlo come premessa. La giusta logica di spartizione del territorio fra i due popoli stabiliva che come esiste una Legge del ritorno riservata agli ebrei che vogliano tornare alla propria patria storica, così lo Stato palestinese – che non è mai sorto, ma che auspicabilmente sorgerà – abbia una propria legge del ritorno, a beneficio dei palestinesi che vogliano tornare nella loro patria. Israele deve continuare nella costruzione di una normalità al suo interno, nel contesto regionale e nell'ambito della più ampia famiglia delle nazioni. Ed è mia convinzione che l'identità israeliana – per il suo retaggio storico, per il percorso che ha portato alla nascita dello Stato e per la tradizione democratica ormai consolidatasi – non potrà mai fare a meno dei valori di libertà e democrazia ».

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