Riportiamo da LIBERO di oggi, 04/06/2013, a pag. 19, l'articolo di Carlo Panella dal titolo " Più che primavera araba questo è l'autunno dell'islam «moderato»". Dal CORRIERE della SERA, a pag. 14, l'articolo di Monica Ricci Sargentini dal titolo " Pentole contro lacrimogeni. Le due Turchie si affrontano ". Dalla STAMPA, a pag. 14, l'articolo di Marta Ottaviani dal titolo " Noi, i ragazzi di piazza Taksim. Così è nata la rivoluzione ", l'articolo di Marco Zatterin dal titolo " La Ue spiazzata mentre stava aprendo la porta ", l'intervista di Maurizio Molinari a Soner Cagaptay dal titolo " La nuova classe media creata dal premier ora vuole più libertà ".
Ecco i pezzi:
LIBERO - Carlo Panella : " Più che primavera araba questo è l'autunno dell'islam «moderato» "
Carlo Panella Recep Erdogan
«Non è una primavera turca»: il premier Tayyp Erdogan non ha torto nel rifiutare la troppo facile definizione dell'ondata di proteste che sta scuotendo il suo Paese. Ma sbaglia drammaticamente nel non comprendere che - per lui - queste proteste segnalano l'avvio di una fase ben peggiore: l'inizio dell'autunno del suo islamismo al potere. La Turchia, a differenza dei Paesi arabi del 2010, non è governata da un regime: è una democrazia piena, le elezioni sono effettive ed è stato attuato più volte il "regime change", i cittadini godono di standard di libertà e di vita assimilabili a quelli occidentali. Ma o le piazze infiammate di Istanbul, Ankara e Smime segnalano l'inizio di un processo ancora più interessante delle "primavere arabe". Erdogan e il suo Akp sono infatti andati al potere nel 2003, non tanto per meriti propri, ma soprattutto a causa dello sfarinamento suicida dei partiti laici di centrodestra e di centrosinistra che per trent'anni si erano alternati al governo, raccogliendo insieme più dell'80% dei consensi elettorali. Così la Turchia che Kemal Atatiirk aveva trasformato nel 1924 in uno Stato totalmente laico, espellendo l'Islam e i religiosi dall'agone politico e ghettizzandolo in quello culturale (aveva persino latinizzato l'alfabeto, per segnare una cesura con la tradizione coranica), con le elezioni di dieci anni fa iniziò un processo di rei-slamizzazione guidata da un Erdogan che vinse poi le elezioni del 2007 e ne12011 trionfò col 50% dei suffragi. Merito della sua capacità di proporre un volto moderato e moderno al Paese, premio alla sua capacità di trainare l'economia grazie agli imprenditori islamici dell'Anatolia, ma anche e soprattutto demerito dei partiti laici incapaci di parlare alla Turchia, dopo aver dato prova di corruzione infinita e incapacità di governo dal 1990 in poi. Un vuoto di alternativa politica che ha fatto perdere ogni remora ad Erdogan, il quale ha sempre più abbandonato il volto della moderazione e che - in parallelo non casuale con la rottura dell'amicizia storica della Turchia laica con Israele - ha scelto la strada di una islamizzazione forzata della vita dei suoi concittadini (lotta al fumo e all'alcool incluse). Ma orala rivolta di Gezi Park colma il vuoto di proposta politica dei partiti laici, e attorno alla difesa di quei poveri 600 alberi si è rapidamente formata una mobilitazione che ha trovato il suo obbiettivo politico esplosivo e condiviso in un "No a Erdogan nuovo califfo" Questa è la grande novità: l'islamismo, sia pure nella sua veste moderna e moderata, viene ora rifiutato dal basso in un Paese a democrazia piena, da un movimento popolare che è scoppiato ora in una fiammata, che probabilmente si ritirerà, ma che non tarderà a trovare una sua dimensione politica generale, rendendo le prossime elezioni difficili, molto difficili per Erdogan. Un fenomeno tanto evidente che lo stesso Abdul -lah Giil, il presidente della repubblica, che è del -lo stesso partito di Erdogan, se ne è reso conto, paventandone gli effetti e auspicando, invano, moderazione nei confronti della piazza Dunque, anche in Turchia, la "vecchia talpa laica" ha ripreso a scavare, e metterà in non poche difficoltà un premier tracotante e incapace di capire le ragioni della parte più moderna e non islamista del suo paese. Eccellente occasione per l'Europa per mettere sul tavolo della trattativa con Erdogan, per l'ingresso della Turchia nelle Ue, paletti chiari e netti sulla laicità dello Stato e sulla difesa dei diritti umani. A partire dal diritto di manifestare senza essere arrestati a migliaia.
CORRIERE della SERA - Monica Ricci Sargentini : " Pentole contro lacrimogeni. Le due Turchie si affrontano "
Monica Ricci Sargentini
ISTANBUL — Salina, 58 anni, è seduta su una panchina di Süleymen Seba Caddesi, la strada nel quartiere di Besiktas, a Istanbul, che di notte diventa un campo di guerra. Sbocconcella del pane insieme alla figlia che è al sesto mese di gravidanza mentre attende l'arrivo dei manifestanti: «Tayyip (il premier Erdogan, ndr) se ne deve andare — dice al Corriere — lui ha ucciso la Turchia, ci ha tolto il verde per costruire le sue opere faraoniche e le sue moschee che sono ovunque». Casalinga, tre figli ormai grandi, un marito pensionato, ex impiegato del Comune, Salina vive di stenti: «I soldi che prendiamo per la pensione ci bastano a pagare luce, gas e poco altro». Quando l'altra sera ha visto la gente sfilare davanti a casa sua questa donna dal viso tondo e dallo sguardo bonario non ci ha pensato due volte: ha preso una padella e ha cominciato a fare rumore con una forchetta davanti alla porta di casa, un appartamento a pianterreno arredato modestamente e dalle pareti spoglie dove l'unica nota di colore è la foto del matrimonio della sua bambina. Lo stesso ha fatto Berrin, 63 anni, malata di cancro, un marito in pensione e la figlia archeologa. Ci offre un té mentre ci mostra la finestra della cucina da cui si è affacciata: «Erdogan vuole cancellare Atatürk e noi non glielo permetteremo» dice convinta. Il tam tam di queste donne è risuonato per le strade di Istanbul e di tutta la Turchia: sono state tante le madri di famiglia che hanno appeso la bandiera del Paese ai balconi e si sono mostrate con le pentole in mano. Un gesto coraggioso perché così facendo sono diventate l'obiettivo della polizia che ha sparato i lacrimogeni fin dentro le case.
Da Taksim a Besiktas Istanbul sembra una città fantasma, le strade sono bloccate dalle barricate e i turisti raggiungono gli alberghi a piedi trascinandosi i bagagli, su un furgone della polizia mezzo carbonizzato i dimostranti hanno scritto «Siamo i soldati di Atatürk» ma il panorama non è desolante, le strade sono pulite, ogni due metri c'è un sacchetto dove buttare l'immondizia perché i rivoltosi ne hanno fatto un punto d'orgoglio: «Erdogan ci ha chiamato vandali, ecco la nostra risposta», dice una ragazza che frequenta il Marmara Fine Arts College e ha steso un lenzuolo per terra su cui ha scritto: «Quando siamo sordi creiamo una rima, quanto siamo ciechi dipingiamo un'opera d'arte e quando siamo vandali diventiamo l'opposizione». Poco più in là alcune persone distribuiscono, gratis, generi di conforto: acqua, pane, biscotti. Si pagano, invece, le mascherine per proteggersi dai lacrimogeni: «Bisogna coprirsi anche il corpo perché fa bruciare la pelle», spiega in tono paterno un signore anziano completamente sdentato.
Istanbul oggi è una città in cui la gente di giorno lavora e la sera protesta. Verso le sei di pomeriggio fiumi di persone convergono verso piazza Taksim. Ci sono un'avvocata ancora in completo da ufficio e un uomo d'affari sulla cinquantina. Non vogliono dire i loro nomi. «Abbiamo paura — spiegano — perché il premier è vendicativo, se sa che siamo qui ci fa licenziare». L'atmosfera, però, è quella di una grande famiglia: «Pensavo di essere così sola — dice Seda, una donna bionda dall'aspetto curato, truccatissima — invece ho scoperto che siamo in tanti. Erdogan ha fatto anche del bene ma non ha senso del limite. Questa non è una democrazia e non voglio che mia figlia cresca in un Paese del genere. Dobbiamo cambiare, o adesso o mai più».
La domanda che si pongono in tanti è come far crescere la protesta, come convogliare tutti questi rivoli di persone in un'unico movimento: «Non vogliamo essere un partito — spiega Sadi, 32 anni, mentre sorseggia un bicchiere di vino bianco — ma abbiamo bisogno di un rappresentante, tra dieci mesi ci saranno le elezioni e cosa succederà? Si rende conto che potrei non essere più in grado di bere alcolici all'aperto? O di baciare la mia ragazza?».
È proprio su questo che conta Erdogan quando, prima di partire per una visita ufficiale in Marocco, dice «state tranquilli, passerà tutto. Qui la primavera turca c'è già stata ma c'è chi vorrebbe trasformarla in inverno», concludendo che «la situazione sta tornando alla normalità». Il premier, insomma, non abbandona i toni di sfida neanche nel giorno in cui si contano i primi due «martiri» della rivolta: un giovane manifestante colpito alla testa ad Ankara e un ventenne investito da un taxi a Istanbul durante l'occupazione di una superstrada.
Molto più concilianti i toni del presidente della Repubblica Abdullah Gül che, invitando alla calma i manifestanti, ha assicurato: «Democrazia non vuol dire soltanto elezioni, se ci sono obiezioni è più che naturale esprimerle in modo pacifico». Un messaggio indiretto al premier che aveva invitato i manifestanti a esprimere nelle urne il loro dissenso.
Chi è in piazza, però, non ha intenzione di tornare a casa, nonostante i lacrimogeni che ieri sera sono tornati a fioccare su Istanbul. Anzi, la protesta si allarga. Ieri la Confederazione dei sindacati dei lavoratori pubblici ha proclamato uno «sciopero» di due giorni, a partire da oggi, per protestare contro il comportamento della polizia. E preoccupazione per l'eccessivo uso della forza viene espressa anche dal segretario di Stato americano John Kerry e dal portavoce della Casa Bianca, Jay Carney. Erdogan è avvisato.
La STAMPA - Marta Ottaviani : " Noi, i ragazzi di piazza Taksim. Così è nata la rivoluzione"
Marta Ottaviani
Sono loro che hanno dato vita alla «rivoluzione di piazza Taksim». La loro sede si trova in una strada laterale dell’Istiklal Caddesi, il viale pedonale di Istanbul cuore della vita notturna cittadina. In una di quelle strade dell’antica Costantinopoli dove i colori antichi delle facciate dei palazzi e i loro stucchi convivono pacificamente con i pergolati e i chiassosi locali alla moda.
L’ingresso è discreto, ma qui discrezione è la parola d’ordine. I giovani dell’Associazione Taksim Gezi Parki non vogliono fare sapere i loro nomi, perché temono ripercussioni da parte del governo. Per una questione di sicurezza, i nomi nell’articolo sono di fantasia.
«Non è per paura – tiene a sottolineare Yusuf, 28 anni - è prudenza, perché qui il clima non è per niente buono e noi sappiamo di essere nel mirino. Quello che sta succedendo è qualcosa di storico. Siamo riusciti a portare in strada persone che vengono da storie diverse e che temono per la democrazia».
Un lavoro lento e meticoloso, l’organizzazione della rivolta, preparato per mesi. «Il nostro segreto - racconta Sule, giovanissima e sulle prime molto diffidente - è stata la conoscenza del territorio. Decine di persone hanno passato settimane a fare un lavoro di connessione con gli abitanti del quartiere discreto, in modo da non dare nell’occhio. I lavori in Piazza Taksim sono partiti sei mesi fa. Erdogan sarà anche stato sindaco di Istanbul ma non ha capito quanto sia importante quella Piazza e che può toccare tutto, a Taksim e il Gezi Parki li deve lasciare stare».
Mesi di attività porta a porta, quindi, di caffè offerti, di scuse per attaccare bottone e capire quanto si potesse contare sull’interlocutore di turno, soprattutto le donne, che soprattutto all’inizio erano maggioranza nel movimento. Prima a Beyoglu, l’antico quartiere di Pera, un tempo regno dei Greci di Costantinopoli. E infine le università, dove il passaparola è dilagato alla velocità della luce. «Con il tempo - continua Yusuf - ci siamo accorti che eravamo sempre di più, sempre più strutturati e che la gente non era arrabbiata solo per la questione della piazza e degli alberi. Era preoccupata per la libertà, per questa Turchia che sembra diventata più ricca, ma dove i poveri sono ancora più poveri di prima, per il diritto a esprimere le proprie opinioni».
E così, quando la data della distruzione di Gezi Park è arrivata non si è fatto altro che passare alla parte B del piano: i social media. «Twitter ci ha aiutato - continua Sule -. Ma penso che vadano sottolineate due cose, la prima è che siamo arrivati con una base che comprendeva già svariate centinaia di persone, la seconda è che la risposta è stata immediata la gente era già pronta di suo».
Adesso il futuro, secondo loro, è tutto da scrivere. «Tagliando gli alberi la gente ha sentito che stavano tagliando la loro libertà - chiosa Yusuf -. In un certo senso è stata liberata la loro voglia di fare sentire la propria voce».
Sul premier Erdogan il giudizio è senza appello. «Ha pensato - spiega Yusuf - di poter fare come meglio credeva perché solo una minoranza gli era contro. Non ha pensato a chi lo ha votato per mancanza di alternative. La situazione è seria ma ne usciremo. Molta colpa hanno anche l’Europa e gli Stati Uniti, soprattutto i secondi che non gli hanno mai fatto mancare l’appoggio. Spero che adesso Obama glielo ritiri».
«La verità è che Erdogan ha gli stessi metodi repressivi dei militari – irrompe Can, uomo di mezza età e che guarda da lontano i due ragazzi quasi a volerli proteggere -. Si è presentato come il nuovo e molti, dentro e fuori la Turchia se la sono bevuta».
E adesso cosa faranno i ragazzi di Gezi Parki? «Non possiamo rivelare le nostre mosse future - conclude Yusuf ma una cosa l’assicuriamo: non ci fermeremo. Prima o poi Erdogan capirà che deve fare un passo indietro».
La STAMPA - Marco Zatterin : " La Ue spiazzata mentre stava aprendo la porta "
Marco Zatterin
Due settimane fa, al ritorno da una missione lampo a Ankara, Herman Van Rompuy non ha avuto esitazioni nel rivelare un certo ottimismo sulla possibilità di rilanciare il dialogo coi turchi per una (pur sempre lontana) adesione all’Unione europea. C’erano spazi per ripartire, constatava il presidente del Consiglio Ue. Immaginava si potesse porre fine allo stallo negoziale dovuto alla combinazione fra la crisi, il «no» francese di Sarkozy, la posizione ondivaga dei tedeschi e, delizia finale, la presidenza dei Ventisette finita nel 2012 ai refrattari ciprioti. «L’assenza di progetto - diceva - mina le basi della fiducia». La prospettiva annunciata d’una visita del premier Erdogan «entro l’estate» a Bruxelles corroborava le migliori speranze. Ora tutto s’è fermato. «Presto per valutare gli effetti politici degli scontri», confessano i portavoce della Commissione. L’alto responsabile per la politica estera Ue, Cathy Ashton, ha naturalmente condannato «lo sproporzionato uso della forza» e ha auspicato «una soluzione pacifica». I suoi analisti cercano di capire se le ebollizioni di piazza renderanno più facile o più difficile trattare con un Erdogan al momento indebolito. «Ogni soluzione è possibile - ammette una fonte europea -. È qualcosa che nessuno si attendeva e le conseguenze ancora complesse da prevedere».
Ankara è in coda per entrare nell’Ue dal 2005 obiettivo previsto per il 2020-25. Il negoziato prevede la firma di 35 capitoli e ne è stato chiuso uno solo (Ricerca). Sino a poco fa si pensava di aggiungerne un secondo durante la presidenza di turno irlandese (entro giugno) e altri due in quella lituana (dicembre). «Ricreare le relazioni sulla base di una fiducia reciproca», ha ammonito Van Rompuy. Ascoltato, questa volta, se non altro perché l’ultima ministeriale a Bruxelles è andato bene. L’ipotesi di una liberalizzazione dei visti pareva dietro l’angolo.
Il nuovo clima aveva molteplici ragioni, i legami economici (115 miliardi di scambi bilaterali) con un paese in gran ripresa e il ruolo esso svolge di fronte alla tragedie in Siria, paese col quale condivide 900 chilometri di frontiere. Il premier Erdogan si tiene in bilico fra mondi che faticano a parlarsi. L’Europa gli riconosce questa e altre doti, lo vorrebbe più vicino, ma vede aspetti preoccupanti. Per dirne una, si chiede come affrontare il capitolo dei diritti fondamentali con chi lamenta i disastri di Facebook. Adesso nessuno può dire se Erdogan verrà davvero a Bruxelles e se i tre negoziati parziali verranno chiusi. Osservatori equilibrati immaginano che l’Ue potrebbe - a differenza di quanto avvenuto nella primavera araba «fargli comunque da sponda». Van Rompuy, ad Ankara, disse di sperare di «porre le basi per costruire un ponte fra Europa e Turchia». Nella confusione generale il taglio del nastro è perlomeno rimandato.
La STAMPA - Maurizio Molinari : " La nuova classe media creata dal premier ora vuole più libertà "
Maurizio Molinari
«L a classe media si rivolta contro il premier Recep Tayyip Erdogan, che è vittima del proprio successo politico»: con questo paradosso il politologo Soner Cagaptay, titolare degli studi sulla Turchia al Washington Istitute e apprezzato analista nei talk show televisivi, interpreta la crisi in atto.
Da dove nascono le proteste?
«Nell’ultimo decennio le politiche economiche dell’Akp, il partito di Erdogan, hanno trasformato la Turchia in una società dove la classe media è diventata maggioranza. Si è alzato il tenore di vita, la povertà è stata arginata, c’è stata crescita economica. Ma adesso tale classe media chiede il rispetto dei diritti individuali, pone al partito al governo la questione di come definire la democrazia».
Perché la rivendicazione di tali diritti emerge adesso?
«Il partito Akp ha varato di recente leggi sulla limitazione della vendita dell’alcol e sulla trasformazione del parco centrale di Istanbul in un centro commerciale che hanno trovato una forte opposizione popolare. Erdogan ha deciso comunque di andare avanti e la percezione della popolazione è stata una voluta carenza di rispetto per i diritti dei singoli cittadini».
Quale può essere l’impatto delle proteste?
«La repressione del sit-in di Istanbul ha portato nel mezzo della notte decine di migliaia di persone a scendere nelle strade e ciò suggerisce che assistiamo alla nascita di una nuova Turchia».
Di che nazione si tratta?
«È una nazione composta da una classe media che crede nei diritti degli individui e dove le élites sono democratiche nel senso che credono in governi legittimati dal voto popolare. Ciò che più conta è che la classe media costruita dall’Akp sta dicendo al partito di governo che democrazia non significa solo vincere le elezioni ma costruire consenso popolare e dunque ascoltare i cittadini, senza forzarli a ingoiare qualsiasi decisione adottata dall’alto. Questo significa che in Turchia la base popolare della democrazia si sta rafforzando».
La Casa Bianca ha chiesto ad Ankara di «contenere l’uso della forza» e «rispettare i diritti dei manifestanti». C’è una crepa nei rapporti finora solidi di Obama con Erdogan?
«Lunedì si sarebbe dovuta svolgere la conferenza del Consiglio AmericaTurchia, uno dei maggiori eventi annuali bilaterali, ma la partecipazione dei ministri turchi all’ultimo minuto è stata cancellata. Ciò lascia intendere che il governo Erdogan ha dei problemi seri di immagine con Washington in questo momento. Credo sia il momento più delicato nei rapporti bilaterali da quando il partito di Erdogan arrivò al governo, nel 2003».
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