Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 03/06/2013, a pag. 1-12, l'articolo di Roberto Toscano dal titolo " L’Iran al voto dall’oligarchia alla dittatura ", a pag. 13, l'articolo di Maurizio Molinari dal titolo " I duellanti in tv. La campagna copia il nemico americano " .
Ecco i pezzi:
Roberto Toscano -" L’Iran al voto dall’oligarchia alla dittatura "
Roberto Toscano
Come scrive anche Roberto Toscano, in realtà, nelle elezioni iraniane l'unico a scegliere sarà la Guida Suprema Khamenei. Non esiste un'opposizione.
Non condividiamo il giudizio di Toscano per quanto riguarda i candidati 'riformisti', presenti e passati.
Dal momento che anche la scelta dei candidati passa attraverso Khamenei, è difficile credere che qualche vero 'riformista' possa accedere alle elezioni e sperare di venire eletto.
Ecco il pezzo:
Gli ultimi eventi politici in Iran, e in particolare l’annuncio dei risultati del vaglio delle candidature alle elezioni presidenziali del 14 giugno, rendono ancora più esplicita la crisi di un regime preso nella contraddizione fra conservazione del potere e gravi sfide politiche sia interne che internazionali. Persa ormai da tempo la «spinta propulsiva» della rivoluzione del 1979, il regime trovava una sua residua credibilità e consistenza in un sistema di alternanza oligarchica, in un seppur limitato pluralismo capace di raccogliere - nella convergenza resa necessaria dall’imperativo principale, quello della sopravvivenza – tendenze e personalità sostanzialmente divergenti.
Perno di questo sistema era il Leader Supremo, arbitro ultimo fra le tendenze, da lui incoraggiate o ostacolate di volta in volta a seconda delle esigenze della fase politica. Questo spiega, dopo la scomparsa del fondatore della Repubblica Islamica, Khomeini, l’alternarsi sotto il suo successore Khamenei di presidenze diverse programmaticamente e anche diverse come stile di leadership: la normalizzazione economica di Rafsanjani, l’apertura riformista di Khatami, il populismo di Ahmadinejad. Nel 2009, con le proteste contro la contestata (e per molti fraudolenta) rielezione di Ahmadinejad, questo sistema di equilibri è entrato in crisi nel momento in cui Khamenei ha irreversibilmente intaccato il suo ruolo di mediatore schierandosi a favore di Ahmadinejad.
Il vaglio da parte del Consiglio dei Guardiani, annunciato il 22 maggio, della lista degli aspiranti candidati presidenziali segna un’ulteriore rottura degli equilibri interni del regime, con il prevalere della finalità di consolidamento del potere del Leader Supremo attraverso esclusioni che non solo azzerano ogni pretesa di democrazia, ma risultano anche politicamente controproducenti.
Eliminare le alternative Come si può infatti immaginare che la coesione interna dell’oligarchia risulti rafforzata dall’esclusione di Akbar Hashemi Rafsanjani e Esfandiar Rahim Mashai? Il primo, uno dei padri fondatori della Repubblica Islamica, ha sempre riscosso l’appoggio dei tecnocrati del regime ad un tempo politicamente conservatori e modernizzatori in campo economico (in una miscela che non manca di ricordare l’evoluzione del comunismo cinese) e soprattutto della parte più dinamica di un mondo economico privato che opera in un sistema di tipo corporativo di cui risente le limitazioni e vorrebbe la liberalizzazione.
Non solo, ma gli stessi riformisti, che pure avevano respinto Rafsanjani come simbolo di corruzione e potere cinico, avrebbero probabilmente deciso, quanto meno in parte, di votare per lui, fra l’altro seguendo l’indicazione di Khatami, un leader che ormai si è ritirato dalla competizione politica ma conserva un certo prestigio soprattutto negli strati più istruiti e aperti della popolazione.
Mashai, poi, era la bandiera del populismo di Ahmadinejad, che nel corso dei suoi due mandati presidenziali si è insediato all’interno della burocrazia, e soprattutto rimane radicato in vasti strati della popolazione, quelli dove prevalgono il risentimento e il sospetto verso tutte le élite, non solo quelle modernizzanti e filo-occidentali, ma anche quelle clericali.
Se sommiamo l’effetto politico della duplice esclusione vediamo come essa aumenti da un lato gli antagonismi all’interno del regime, escludendo alcune sue componenti tutt’altro che trascurabili e, soprattutto, non potrà se non alienare milioni di cittadini che oggi si stanno chiedendo che senso abbia andare a votare su una lista così profondamente mutilata.
Degli otto candidati «approvati», infatti (di circa 700 che si erano presentati) solo due possono essere considerati come minimamente alternativi alla linea del Leader Supremo: Hassan Rohani, molto vicino alla linea di Rafsanjani, e Mohammed Reza Aref, un riformista moderato. Mentre Aref risulta essere un personaggio politicamente di secondo piano, Rohani potrebbe raccogliere una certa adesione in area centrista e riformista. In sostanza, tuttavia, sembra chiaro che ci si trova ormai di fronte ad un’elezione dove probabilmente non si porrà nemmeno il problema della autenticità dello spoglio elettorale, dato che l’alterazione della volontà democratica del paese è già avvenuta, con l’eliminazione nella fase preliminare del processo elettorale dei due più seri candidati alternativi alla linea di Khamenei.
A questo punto vi è chi dice che il regime sarà costretto, invece che alterare i risultati conseguiti dai singoli candidati, a falsare quelli sulla partecipazione popolare.
Gli interessi nazionali Si suppone, d’altra parte, che la coesione di un regime serva come premessa della realizzazione di un programma politico e del conseguimento di obiettivi concreti. È proprio su questo piano che quanto sta avvenendo a Teheran risulta particolarmente difficile da comprendere se non in chiave di quella ottusità e autoreferenzialità che i regimi non democratici sono maestri nel dimostrare nel momento in cui l’unica loro vera priorità è la gestione di un potere compatto e non contestato.
Due sono infatti i problemi centrali, si potrebbe dire esistenziali, della Repubblica Islamica nella attuale fase. Sono problemi diversi, ma nello stesso tempo collegati. Si tratta in primo luogo di una situazione economica causata in parte dalle sanzioni, ma anche da una gestione economica inefficiente, contraddittoria, irrazionale. Nonostante finora le riserve valutarie del Paese abbiano permesso di evitare una vera crisi, e nonostante i molti modi di eludere le sanzioni (grazie soprattutto alla Cina, partner sempre più importante), inflazione e disoccupazione cominciano a farsi pesantemente sentire. L’Iran, e gli iraniani lo sanno, ha un potenziale economico (per livello di istruzione della popolazione, risorse naturali, produzione agricola, posizione geoeconomica) che potrebbe renderlo un Paese con un ben più alto livello di benessere.
I rapporti con l’America Qui entra in gioco il secondo aspetto fondamentale dell’interesse nazionale dell’Iran: una normalizzazione con il mondo esterno, a partire naturalmente dagli Stati Uniti. Un obiettivo così importante da far sì che storicamente chiunque abbia seriamente cercato di conseguirlo è stato boicottato da altre correnti politiche all’interno del regime, consapevoli del fatto che chiunque sia capace di ottenere il riconoscimento dell’Iran come Paese importante, rispettato e accettato come legittimo interlocutore, risulterebbe poi politicamente imbattibile.
Su questo aspetto le scelte del regime, nella persona del Leader Supremo Khamenei, risultano particolarmente, clamorosamente controproducenti. Vari «pre-candidati» si erano ultimamente espressi a favore di un più costruttivo, più dinamico tentativo negoziale di risolvere la questione nucleare, principale ostacolo a una normalizzazione dei rapporti fra Iran e il resto del mondo: Rohani, ex negoziatore nucleare noto ai suoi interlocutori europei come fermo ma ragionevole («Abbiamo divergenze con gli Stati Uniti su questioni regionali ed internazionali, ma naturalmente amicizia o ostilità non sono dati permanenti»); Rafsanjani , da sempre esplicitamente a favore del dialogo e contrario alle prese di posizione ideologiche e oltranziste; Mohammed Baquer Qalibaf, il sindaco di Teheran anche lui con orientamento moderato, e persino il consigliere di politica estera Ali Akbar Velayati, a lungo Ministro degli esteri e noto sia per la sua professionalità che per la sua concretezza.
Ebbene, appare sempre più evidente come la vera scelta di Khamenei per la successione ad Ahmadinejad sia Said Jalili, attuale negoziatore nucleare: Jalili, senza l’esperienza di Velayati, senza la finezza e la flessibilità di Rohani, senza l’atteggiamento modernizzatore e la capacità manageriale di Qalibaf. Un negoziatore che finora non ha negoziato, limitandosi a ribadire posizioni di principio che, anche se talora non ingiustificate (in particolare quando si tratta di respingere i double standards in tema di diritti derivanti dal Trattato di Non Proliferazione) rimangono sterili e portano a pericolosi punti morti. Per di più si tratta di un personaggio che non manca di impostare la difesa delle posizioni iraniane non sulla base di legittimi interessi nazionali - che in diplomazia devono essere perseguiti pragmaticamente - ma con riferimento alla «resistenza all’imperialismo» , come rivincita contro ingiustizie storiche.
Ma forse è inutile analizzare la personalità del beniamino di Khamenei, dato che è appunto nella sua totale adesione al Leader, nel fatto di essere un autentico «vero credente» in un ambiente di potere che tende all’opportunismo se non al cinismo, che risiede la sua qualità fondamentale. Tutti gli altri candidati sopravvissuti alla «cernita», infatti, potrebbero rivelarsi troppo indipendenti, come è avvenuto nel caso di Ahmadinejad: il deciso Qalibaf, che come sindaco di Tehran si è dimostrato capace di costruirsi una propria base di popolarità; il prestigioso e saggio Velayati, che conosce il mondo e dal mondo è conosciuto, e anche Rohani – in questo caso per ragioni politiche, dato che è ormai l’unico residuo riferimento per centristi e riformisti moderati.
Dall’oligarchia alla dittatura?
L’Iran ha sempre prodotto sorprese, e anche questa volte il risultato delle elezioni mantiene un certo grado di imprevedibilità. Quello che certamente emerge, in ogni caso, è il prevalere della conservazione del potere sulla sua stessa gestione finalizzata a concreti scopi politici, sia interni che internazionali.
Se questo è vero, allora per i cittadini iraniani si profilano tempi ancora più difficili. L’oligarchia non è certo democrazia, ma nel caso iraniano il sistema, ibrido e contraddittorio, aveva finora garantito certi spazi per ipotesi politiche diverse, seppure obbligatoriamente inserite nel perimetro di ortodossia islamica e rivoluzionaria custodito dal Leader/arbitro e dal Consiglio dei Guardiani. Se cade questa articolazione, e l’emarginazione di Rafsanjani sembra esserne il segnale più inconfutabile, l’oligarchia si trasforma sempre più in dittatura, e forse il prossimo passo potrebbe essere l’abolizione della carica di Presidente e la sua sostituzione con un Primo Ministro.
Un potere sempre più monolitico imposto a una società sempre più diversificata e moderna, oltre che straordinariamente avanzata sotto il profilo culturale. E anche un potere incapace di dialogare con il mondo, e incapace di difendere i legittimi interessi della nazione con fermezza ma anche ragionevolezza, e soprattutto di contribuire a trovare soluzioni che permettano di scongiurare la minaccia, oggi apparentemente meno imminente ma non certo eliminata (tutte le opzioni, come si ripete a Washington, restano sul tavolo) di un attacco militare.
C’è davvero da chiedersi - come ha fatto l’escluso più eccellente, Rafsanjani, che ha denunciato «una sconcertante ignoranza» – che cosa i vertici del regime iraniano abbiano in mente.
Maurizio Molinari - " I duellanti in tv. La campagna copia il nemico americano"
Maurizio Molinari. I candidati alle elezioni in Iran. In alto a destra, Jalili, favorito di Khamenei
Otto candidati bersagliati dalle domande di un moderatore in diretta tv, con limiti ristretti di tempo per rispondere, regole rigide da rispettare e polemiche sul format. Sembra un dibattito delle primarie americane del 2012 e invece si tratta della sfida fra i candidati alla presidenza della Repubblica Islamica dell’Iran in vista del voto del 14 giugno. Il format assomiglia molto a quello che distingue le presidenziali nel «Grande Satana», come spesso vengono definiti gli Stati Uniti sui media iraniani.
All’inizio i candidati si presentano davanti alla telecamere, tutti vicini, sorridenti, in piedi. Si stringono le mani con reciproco rispetto. Poi il moderatore Morteza Heydari, assistito da un vice, li invita a mettersi seduti ai rispettivi posti in un emiciclo bianco con alle spalle un panorama bucolico persiano. Iniziano le domande e l’atmosfera si riscalda. Il moderatore, con alle spalle un ritratto della Guida Suprema, impone le regole: ognuno ha 3 minuti per rispondere, poi gli altri possono replicare in 90 secondi. Il ritmo è sostenuto. I temi che prevalgono sono quelli economici. Nessuno nasconde le sofferenze popolari. Mohsen Razei, ex comandante dei pasdaran, accusa: «L’economia non ha leadership». Ali Akbar Velayati, ex ministro degli Esteri, suggerisce di «migliorare le relazioni con il mondo». Tutti i candidati sono conservatori, vicini a Khamenei, e nessuno parla di sanzioni, programma nucleare o rivolte popolari ma le critiche verso il presidente uscente sono severe. Nella seconda parte del dibattito le regole cambiano: il moderatore fa domande secche, chiedendo di scegliere fra tre opzioni di risposta, oppure mostra delle foto per chiedere un commento breve. Quando fa vedere il bazaar colmo di gente il sindaco di Teheran, Mohammed Bagher Qalibaf, commenta: «Dimostra la pazienza del nostro popolo nell’affrontare le difficoltà». Tre candidati però non gradiscono il metodo, contestano il moderatore e rifiutano di rispondere. «Sono paziente ma questo approccio è un insulto» tuona Rezaie. «Per rispetto agli elettori resto seduto ma non rispondo» aggiunge Mohammad Reza Aref. «Ci state offendendo» taglia corto Hassan Rohani. A rispondere battuta su battuta sono invece il negoziatore nucleare Saeed Jalili, Velayati e Qalibaf ovvero quelli che l’indomani vengono indicati come i favoriti nella sfida finale. Anche se ci sono altri due dibattiti da affrontare. E tutti possono scivolare. Proprio come avviene negli States.
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