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Non è l'economia, stupido. O forse sì? Cari amici, avete letto l'ultimo regalino che l'America medita di fare all'Autorità Palestinese? Sono 4 miliardi di dollari che il segretario di stato Kerry ha promesso qualche giorno fa in “investimenti privati” (non si sa fatti da chi) all'Autorità Palestinese (http://www.jpost.com/Diplomacy-and-Politics/Kerry-unveils-4-billion-Palestinian-economic-plan-314436 ). Non sono noccioline, i conti sono difficili per l'inaffidabilità dei calcoli demografici palestinesi, ma si tratta di circa 1500 euro a persona, lattanti e centenari compresi, fra gli arabi che abitano nei territori amministrati dall'Autorità Palestinese. Soldi che si aggiungono alle somme gigantesche che il mondo spende per tenere in piedi uno “stato”, che nell'opinione della “comunità internazionale” DEVE esistere per ragioni che non sto qui ad analizzare, ma che riassumo - un po' brutalmente e certamente contro l'opinione delle “anime belle” - con la volontà di mettere i bastoni fra le ruote a Israele. Un non-stato che DEVE esistere, dunque, ma che non è assolutamente in grado di reggersi da solo. E' probabile che il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione araba diminuirebbe la sua propensione al terrorismo, e questa è la ragione per cui Israele ha sempre lavorato in questo senso. Del resto gli arabi dell'autorità palestinese sono spesso clienti e anche fornitori o dipendenti dall'industria israeliana - una cosa che non vogliono assolutamente capire coloro che cercano di boicottare i prodotti israeliani fabbricati al di là della linea verde, provocando con ciò gravi danni proprio all'economia e all'occupazione araba. Dunque non vi è nulla di male negli sforzi per sviluppare l'economia palestinese, anzi. Se tutti gli investimenti che sono stati fatti in questa piccola regione del mondo, superiori per esempio a quelle dedicati a tutto il continente africano, fossero finiti ad alimentare l'economia, parleremmo oggi di uno sviluppo vertiginoso di tipo industriale, commerciale, agricolo o turistico. E soprattutto la parola palestinese sarebbe sinonimo di imprenditore, e non di terrorista. Come sappiamo, però, le cose non sono andate così. Le ragioni sono parecchie, alcune di natura culturale remota, altre da cercare nell'organizzazione socioeconomica ancora attuale delle popolazioni, sostanzialmente tribale e contraria all'individualismo e alla mobilità dell'economia moderna. Ma altre ancora, certamente più influenti, sono più semplici e si possono caratterizzare nel modello di Gaza e in quello di Ramallah, che peraltro non si escludono a vicenda e spesso anzi si incrociano e si mescolano. Il modello Gaza consiste in un sequestro sistematico delle risorse in un'economia del terrorismo. Invece dell'agricoltura avanzata che vi avevano impiantato gli israeliani, oggi sotto il controllo di Hamas la produzione quasi esclusiva di Gaza consiste in armi: razzi, esplosivi, lanciarazzi, fucili. Buona parte dei suoi giovani fanno di mestiere il terrorista o l'aspirante tale, spesso ricevendo uno stipendio dall'Autorità Palestinese (sì, dai “nemici” di Ramallah) come “forze di sicurezza”, “polizia” o “funzionari pubblici”, o magari ottenendo per i loro meriti un impiego nominale dall'UNRWA, l'agenzia delle Nazioni Unite che si è data la missione di “preservare l'identità palestinese”. Il modello Gaza, inutile dirlo, è del tutto improduttivo. Oltre che far di peggio, se ci riescono, le braccia dei terroristi sono anche sottratte al lavoro. Ogni mitragliatrice e ogni razzo, a parte i danni che fa, rappresenta anche un investimento improduttivo, soldi tolti alle risorse delle famiglie e allo sviluppo economico. Il modello Ramallah consiste semplicemente nella cleptocrazia, che per chi non sa il greco significa governo dei ladri. I dirigenti dell'Autorità Palestinese, tutti, una volta arrivati al potere accumulano fortune personale smisurate. Gli scandali si succedono, a partire dai miliardi di dollari che chissà come sono arrivati in eredità alla vedova di Arafat, ai figli di Mahmoud Abbas diventati di colpo, quando il padre ha preso il potere,grandi imprenditori, miliardari anche loro, giù giù per le gerarchie fino alla piccola tangente che è necessario al livello del villaggio per qualunque cosa controllata dalle autorità. Naturalmente c'è molta Gaza anche a Ramallah, a partire dalla fetta notevolissima del bilancio dedicata a pagare i terroristi in servizio e quelli messi forzatamente a riposo dopo una sentenza di condanna per omicidio nelle prigioni israeliane; e c'è molta Ramallah anche a Gaza, dove la fitta censura non riesce a nascondere del tutto il regime di vita e le ricchezze dei dirigenti. Insomma, i soldi dati ai palestinesi per lo più finiscono in acquisti di armi o in conti cifrati all'estero e questo spiega perché il famoso decollo dell'economia non avvenga, anche se qualche briciola arriva anche alla base della piramide sociale e che per questa ragione, ma soprattutto per l'indotto della crescita israeliana tutti gli indicatori mostrano che i cittadini dell'Autorità Palestinese stanno molto meglio di tutti i loro vicini arabi, con la sola eccezione di quel milione e passa di arabi israeliani che godono di un benessere ancora superiore. Una conseguenza piuttosto strana di tutto questo discorso è che l'Autorità Palestinese è decisamente altezzosa nei confronti degli aiuti internazionali, che considerano dovuti e non vogliono sentirsi ricordare più che tanto. La proposta di Kerry è stata accolta piuttosto male (http://www.timesofisrael.com/ramallah-reported-to-turn-down-uss-economic-peace-plan/ ) o rifiutata del tutto come una possibile “corruzione” e gli uomini d'affari che avevano partecipato all'incontro con Kerry sono stati minacciati (http://www.gatestoneinstitute.org/3740/palestinians-threaten-businessmen ). Naturalmente bisogna intendersi sul significato della parola “corruzione”, che qui non vuol dire arricchimento illecito, ma tentativo di indurre alla odiosissima “normalizzazione” dei rapporti con Israele, cioè nella peggiore delle ipotesi il rifiuto del terrorismo, nella migliore l'avvio del tanto sospirato processo di pace. Se i soldi devono servire a comprare armi o ad arricchire i capi, benissimo. Ma se devono indurre a passare a una situazione di dialogo con Israele e alla vita produttiva, no e poi no. Anche perché gli imprenditori che investono nel territorio palestinese potrebbero volere garanzie di uno sviluppo tranquillo del loro business e certamente non gradirebbero intifade, guerriglie e altre amenità del genere. Dunque la proposta di Kerry non è risolutiva: come ha scritto qualcuno, rovesciando il famoso slogan di Clinton, “it's not the economy, stupid”, non è l'economia, stupido (http://www.timesofisrael.com/memo-to-kerry-its-not-the-economy-stupid/). O meglio, il problema sarebbe sì economico, se i capi dell'Anp e di Hamas avessero a cuore il benessere della popolazione che amministrano. Ma mille esperienze ci mostrano che questa è l'ultima delle loro preoccupazioni. Il problema non è neanche l'economia, Mr. Kerry. E' il fanatismo, l'odio, l'antisemitismo, l'egoismo arruffone della casta palestinese: tutte cose che non impediscono solo la pace, ma anche l'economia.
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