Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 01/06/2013, a pag. II, l'articolo di Giulio Meotti dal titolo " Insaziabile Kissinger ".
Henry Kissinger Giulio Meotti
Sono in attesa di un visitatore importante: Henry Kissinger mi farà da cavaliere a un gran ballo”. E’ l’attrice e regista norvegese Liv Ullman a fornirci l’immagine più ficcante del più potente segretario di stato nella storia americana: “E’ come se ci fosse un’aureola sul suo capo”. Superata la soglia dei novant’anni, l’aureola non è scomparsa dalla testa dell’ambizioso insaziabile (lui che definì il potere “l’afrodisiaco supremo”), del servile con i potenti (“Henry Ass-Kissinger”, il baciasederi), dell’amorale (“un’anguilla più ghiaccia del ghiaccio” diceva di lui Oriana Fallaci). Nel sillabario di odio kissingeriano queste definizioni si sprecano. E il New York Times aggiunge, fra le caratteristiche di Kissinger che più fanno infuriare i suoi detrattori, “l’accento da baritono e la capacità intellettuale intimidatoria” (per gli insulti a Kissinger si può attingere a piene mani dalla biografia di mille pagine scritta da Walter Isaacson). L’ex segretario di stato ispira da sempre passioni viscerali opposte, da quelle di chi, come Christopher Hitchens, voleva vederlo processato per crimini di guerra alla corte dell’Aia (“The trial of Henry Kissinger”, Fazi editore), a chi, come William F. Buckley Jr., lo osannava in quanto “il più accanito anticomunista”. “Nel mondo della politica estera, Kissinger ha più potere di ogni altro individuo al mondo”, sostiene Leslie Gelb, presidente del Council on Foreign Relations. Perché Kissinger è stato molte cose: consigliere per la sicurezza nazionale e ministro degli Esteri durante le presidenze di Richard Nixon e di Gerald Ford, tra il 1969 e il 1977, premio Nobel per la Pace nel 1973, ispiratore di golpe in America latina, membro del gruppo Bilderberg e della Trilaterale, infine amico dei grandi ricchi della terra che, circondandosi della sua presenza, speravano di diventare un po’ più intelligenti. In Italia Kissinger ha avuto tante passioni e amicizie e metterle in fila tutte è impossibile.
Ci sono Gianni Agnelli, Cesare Romiti, Fabiano Fabiani di Finmeccanica, Giorgio Napolitano, “my best communist friend”. E poi con la sua Kissinger Associates le consulenze a Fiat, Montedison, Banca Nazionale del Lavoro. Infine c’è il demi-monde di Mario d’Urso e la casa di Letizia Boncompagni, la figlia di Pecci Blunt. I “clienti” prima di tutto. Così nel 2002 Kissinger si dimise da portavoce della commissione sull’11 settembre dopo le ripetute e pressanti richieste di rendere pubblici i nomi dei suoi associati nelle corporation. I collaboratori di Kissinger hanno sempre fatto molta strada. Per citarne due: Brent Scowcroft, uno dei soci della Kissinger Associates, diverrà consigliere per la sicurezza nazionale di Bush, mentre un altro, Lawrence Eagleburger, il numero due di Jim Baker al dipartimento di stato. Quella di Kissinger è prima di tutto una grande storia di riscatto personale. A Fürth, una città del Reich tedesco, negli anni Trenta, anni cupi, il piccolo Heinz, nato il 27 maggio 1923, di “razza ebraica” come recitavano le sue carte, giocava a calcio e rischiava grosso per godersi le partite in tribuna mentre le camicie brune naziste cercavano ebrei da pestare. Dalla Germania nazista Kissinger fuggirà, grazie a una premonizione materna, ma ci tornerà sette anni dopo da soldato americano col nome di Henry e con l’incarico di “denazificare” la città di Bensheim. Fu allora che si forgiò il pragmatismo di Kissinger. Un giorno si presenta da lui un corpulento tedesco che chiede di lavorare per la polizia. Prima di assumerlo Heinz- Henry scherza: “Era con la Gestapo?”. Una battuta, ma l’uomo non resiste, e orgoglioso urla: “Sì”. Il sergente Kissinger, anziché arrestarlo, gli chiede di fare un giro in jeep e di indicargli gli ex nazisti. Kissinger batte ogni record di arresti e guadagna una medaglia al valore.
Un pragmatismo che rimarrà il suo segno caratteristico, dalla pace con la Cina comunista di Mao Ze Dong alla firma degli accordi di Parigi con il Vietnam ancora in fiamme, fino alla stretta di mano con la mummia Breznev e all’aver costruito, in uno dei momenti più difficili della storia americana e da una posizione di debolezza, un ordine mondiale evitando un olocausto atomico. Secondo lo storico Niall Ferguson, proprio la vendetta sulle sue umili origini ebraiche è la chiave per spiegare la gran mondanità e l’adulazione che da sempre circondano questo principe della politica internazionale. Nel suo saggio “Henry Kissinger and the American Century”, pubblicato dalla Harvard University Press, Jeremi Suri fa dell’ebraicità di Kissinger la chiave di lettura della sua vita. Le sue origini ebraiche, sostiene Suri, offrono una chiave per comprendere sia l’uomo sia il giudizio che il mondo gli ha riservato. Kissinger, scrive l’autore in una delle stoccate più significative, è stato “un incrocio tra l’Ebreo di corte e l’Ebreo di stato: quello che potremmo azzardarci a definire un ‘ebreo politico’”. Kissinger ha sempre molto sgobbato per i “gentili”: prima il suo tutore ad Harvard, William Elliott, poi McGeorge Bundy, Nelson Rockefeller, Richard Nixon e infine il successore di quest’ultimo, Gerald Ford. Stando all’analisi di Suri, fu la sua adolescenza ebreo-tedesca a gettare le basi di una visione pessimistica del mondo. Kissinger, che nacque ebreo bavarese e il cui padre fu licenziato dai nazisti, che col fratello fu espulso dal ginnasio di Weimar e che perse una dozzina di parenti nelle camere a gas, scriverà che “la vita è sofferenza, la nascita racchiude la morte” in una straripante tesi di laurea ad Harvard intitolata “Il significato della Storia”. E ancora: “La precarietà è il destino dell’esistenza. Nessuna civiltà, finora, si è rivelata eterna, nessuna ambizione è stata pienamente realizzata. E’ questa la necessità, la fatalità della Storia, il dilemma della mortalità”.
Henry Kissinger con Golda Meir
Ma anche sulle proprie origini ebraiche, Kissinger rimase un cinico sprezzante tutta la vita. Un giorno Golda Meir era alla Casa Bianca per esprimere preoccupazione sulle repressioni che gli ebrei continuavano a subire in Unione sovietica. Il primo ministro israeliano chiese al presidente americano Nixon di premere su Mosca. Questa fu la risposta di Kissinger. “Anche se in Unione sovietica ficcassero gli ebrei nelle camere a gas, questa non dev’essere una preoccupazione americana. Forse, una preoccupazione umanitaria”. Prima di Israele, per Kissinger veniva l’America, ma prima ancora veniva Kissinger. Per i novant’anni dell’ex segretario di stato usciranno apologi della sua realpolitik e ammiccamenti alla sua mondanità, ma nella sua biografia si tendono a dimenticare due capitoli chiave che spiegano perché Kissinger è stato il più grande anticomunista del secolo scorso. Sono il colpo di stato in Cile e un quantitativo di esplosivo superiore a quello utilizzato in tutta la Seconda guerra mondiale sul Giappone e che Kissinger ordinò di sganciare sulla Cambogia comunista dei Khmer Rossi. In una sua celebre espressione, Kissinger osservò di non vedere alcuna ragione per cui a un certo paese dovrebbe essere permesso di “diventare marxista” soltanto perché “il suo popolo è irresponsabile”. Per Kissinger e la Casa Bianca, in ballo c’era questo in Cile: la possibilità che diventasse una nuova Cuba e che l’influenza sovietica si estendesse all’emisfero sudamericano. Nella visione di Kissinger, anche il Sudafrica dell’apartheid, che sarebbe caduto per ragioni morali, era “a bulwark against communism”.
Così, cinque giorni dopo il colpo di stato dell’11 settembre 1973 in Cile, che rovesciò Salvador Allende, l’allora segretario di stato ne parlò al telefono con il presidente Nixon mostrando grande soddisfazione. “Naturalmente i giornali stanno sanguinando perché è stato rovesciato un governo filo-comunista”, disse Kissinger a Nixon nella conversazione di cui i National Archives hanno diffuso la trascrizione. “Lei e io saremmo stati osannati come eroi negli anni di Dwight Eisenhower, invece adesso siamo criticati per aver tollerato l’apartheid in Sudafrica”. Subito dopo il colpo di stato del 24 marzo 1976 in Argentina, Kissinger non perse tempo e ordinò ai diplomatici americani di collaborare con il nuovo regime di Videla. William Rogers, allora sottosegretario per l’America latina, espose i dubbi umanitari: “Credo che dovremo aspettarci molte repressioni e che scorrerà una quantità di sangue”. “Sì, ma questo regime è nel nostro interesse. Per riuscire, ha bisogno di un po’ di incoraggiamento da noi”, replicò Kissinger. E ancora, questa volta al suo collega argentino Cesare Guazzetti, mandato nell’ottobre del 1976 per sondare gli umori di Washington intorno alla giunta di Jorge Videla: “Io sono della vecchia scuola, e sono convinto che gli amici debbano essere sostenuti. Il Congresso americano non si rende conto che siete alle prese con una guerra civile. Si preoccupa dei diritti umani senza badare al contesto. Non vi creeremo difficoltà inutili, ma se potete finire il lavoro prima che riprenda l’attività del Congresso sarà meglio”. Il 13 novembre 2002 la Cia fu costretta a declassificare sedicimila documenti segreti sul colpo di stato contro il governo Allende e l’ascesa e le attività della giunta militare di Augusto Pinochet. Si tratta di oltre cinquantamila pagine provenienti dal dipartimento di stato, dalla Cia, dalla Casa Bianca e dai dipartimenti della difesa e della giustizia. In particolare, vi sono 700 documenti della Cia estremamente “sensibili” sulle “covert actions” (operazioni segrete) condotte tra il 1968 e il 1975 per destabilizzare il governo Allende e, dopo il 1973, per sostenere il regime militare.
Il puntiglioso “Informe Rettig” voluto dal governo democratico al potere a Santiago dopo la transizione e citato spesso da Kissinger ha quantificato le vittime della dittatura in senso stretto in 2.215: 59 giustiziati; 93 caduti in moti di piazza; 101 morti in tentativi di fuga; 815 sotto tortura; 957 desaparecidos; 90 “vittime di privati che agivano con pretesti politici”. Altri 164 morti furono invece provocati dalla violenza politica che imperversò durante il governo di Salvador Allende, con scontri per strada tra opposte fazioni e oppositori uccisi in manifestazioni, o furono vittime di attentati dei guerriglieri di sinistra. Infine ci sono 641 casi in cui “la Commissione non ha potuto formarsi una convinzione”. Il “mito del Cile” è stato quello di un Fronte popolare che aveva vinto le elezioni e tentava di costruire il socialismo dal volto umano con mezzi legali. Ma l’elettorato di Unidad Popular, mobilitato su slogan di palingenesi totale, non si poteva accontentare delle riforme: voleva gli slogan estremi, le liturgie a effetto, la rappresentazione scenica del “popolo al potere”. Allende cominciò a colpi di decreti presidenziali, e finì per mandare i militanti a occupare le proprietà che non riusciva a nazionalizzare. O meglio, li lasciò andare senza opporsi. Il golpe di Pinochet fu l’occasione per spingere il Cile sulla strada della modernizzazione liberista: tra il 1974 e il ’78, 250 di queste imprese vengono restituite ai proprietari, ma le altre 230 vengono messe in vendita e lo stato fornisce anche aiuti finanziari a chi le vuole acquistare. Dopo un taglio del venti per cento della spesa pubblica e il licenziamento del trenta per cento dei dipendenti statali, dopo un crollo iniziale del dodici per cento del pil, del sedici nell’occupazione e del quaranta nell’export, dal 1977 inizia un ciclo positivo che alimenta nel ceto medio una vera febbre consumistica. E’ questo il clima di nuovo consenso di cui Pinochet ha bisogno per formalizzare un regime di fatto. In Asia l’obiettivo di Kissinger sono i comunisti cambogiani e nordvietnamiti. L’allora segretario di stato giocò un ruolo strategico nella decisione di bombardare in segreto la Cambogia e fermare i vietcong. Il prezzo di sangue fu altissimo: 40mila vittime civili e combattenti. Ma come spiegherà il biografo di Pol Pot, David Chandler, “il bombardamento ebbe l’effetto che gli americani desideravano: fermare l’accerchiamento comunista di Phnom Penh”. Kissinger si è sempre mosso attorno a una idea molto semplice: a ogni espansione di una superpotenza deve seguire un ritiro da un’altra area di crisi, cosicché la somma algebrica sia sempre zero e l’equilibrio della deterrenza non venga mutato. Come ha ben riassunto il premio Pulitzer Bret Stephens sul Wall Street Journal, “il cuore della strategia di Kissinger è riassumibile in tre parole: ‘Mantenere l’influenza’”.
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