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Il Foglio Rassegna Stampa
25.05.2013 Benjamin Murmelstein, nel film di Claude Lanzmann
Giulio Meotti intervista a Roma il figlio

Testata: Il Foglio
Data: 25 maggio 2013
Pagina: 2
Autore: Giulio Meotti
Titolo: «L'ultimo ingiusto»

Sul FOGLIO di oggi, 27/05/2013, a pag.II, con il titolo " L'ultimo ingiusto ", Giulio Meotti commenta il film di Claude Lanzmann presentato a Cannes, dopo essere stato proiettato a Gerusalemme. e non ancora disponibile in cassetta. Segue l'intervista al  figlio di Benjamin Murmelstein, protagonista del documentario di Lanzmann, una figura tuttora circondata da molte ambiguità per il suo comportamento durante la Shoah. Il figlio, non poteva essere diversamente, ne difende la memoria.


Claude Lanzmann e Benjamin Murmelstein a Roma nel1975

                                                                                   Giulio Meotti

Per il suo capolavoro disperante, “Shoah”, Claude Lanzmann non aveva usato una sola immagine o filmato di repertorio sui campi di concentramento, nessuna delle cataste umane riprese dai cineasti americani al termine della guerra. Nessuna fotografia in bianco e nero. Perché, ripete il regista e scrittore francese, “l’immagine uccide l’immaginazione”. Undici anni. Tanti sono stati necessari a Lanzmann per girare quel capolavoro. Trecentocinquanta ore di registrazioni tra i sopravvissuti dell’Olocausto, o come lo chiama Lanzmann, “la cosa”. I protagonisti dei suoi film sono sempre eroi negativi e i testimoni della “zona grigia”. Per questo gli scampati non si sono mai riconosciuti nell’opera di Lanzmann. Non ci sono martirio, innocenza, consolazione. C’è il barbiere Abraham Bomba, l’ebreo che a Treblinka aveva il compito di tagliare i capelli alle donne all’interno delle camere a gas e che Lanzmann andò a scovare in Israele. Ci sono Michael Podchlebnik e Simon Srebnik, gli unici due “redivivi” che hanno fatto ritorno da Chelmno, dove 400 mila ebrei furono assassinati con l’ossido di carbonio emesso dai motori dei camion Saurer e che i due aiutavano a seppellire. C’è Dov Paisikovic, che quando arrivò a Birkenau i forni non erano più sufficienti per ridurre in cenere le migliaia di cadaveri che uscivano quotidianamente dalle camere a gas, così erano state scavate delle fosse alla bell’e meglio perché vi fossero bruciati i corpi che non trovavano posto nelle fauci incandescenti dei crematori IV e V. I nazisti costrinsero l’ebreo Dov a cospargere i corpi di benzina, sbriciolare con delle mazzeranghe di legno o di calcestruzzo le ossa più voluminose che non erano bruciate e far colare dentro i secchi il grasso degli ebrei liquefatti. C’è Filip Müller, membro per tre anni del “commando speciale” di Auschwitz, che nel film di Lanzmann dice: “Volevo vivere, con ogni mia forza vivere, un minuto in più, un giorno in più, un mese in più. Capisce cosa intendo? Vivere”. Lanzmann racconta di questi personaggi che armati di pesanti mazzeranghe di betulla impilavano su una lastra di cemento i femori, le tibie, le ossa più dure che il fuoco non aveva consumato del tutto; lo facevano cantando dalla mattina alla sera, sotto il cielo bianco di Auschwitz. L’ultimo film di Lanzmann, “Le dernier des injustes”, è stato definito il suo più difficile. Parla dei capi dei ghetti ebraici che “collaborarono” allo sterminio del loro stesso popolo. Come Chaim Rumkowski, l’onnipotente presidente del Consiglio ebraico di Lodz, celebre per il “fratelli e sorelle consegnatemi i vostri figli!”. In pochi giorni furono strappati alle famiglie ventimila tra bimbi, malati e anziani, come prima erano stati deportati i più ribelli. O come il capo dello Judenrat di Varsavia, Adam Czerniakow, convinto che se avesse garantito ai nazisti ogni giorno un numero di lavoratori specializzati e numericamente sufficienti avrebbe potuto salvarne molti altri. Czerniakow si suiciderà il giorno dopo l’inizio della liquidazione del ghetto, il 23 luglio 1942. Scomparso nel 1989, il rabbino Benjamin Murmelstein è stato il più noto di questi “traditori” e “collaborazionisti”. Per questo non ha avuto diritto nemmeno a una tomba nel cimitero ebraico di Roma. A porre il veto fu l’allora rabbino capo Elio Toaff. Lanzmann gli dedica il film “Le dernier des injustes”, l’ultimo degli ingiusti. Murmelstein fu l’ultimo presidente del Consiglio degli anziani del “ghetto modello” di Terezín nell’ex Cecoslovacchia, l’unico “Jewish elder” (definizione nazista) che non fu ucciso durante la guerra (gli altri due, Jacob Edelstein e Paul Eppstein, furono giustiziati dai nazisti di fronte alle mogli e ai figli). Dunque Murmelstein il “Murmelschwein”, il collaborazionista. Il capo della città che “Hitler aveva donato agli ebrei”, un modello di ghetto per ingannare il mondo. Nel film, Murmelstein torna indietro dagli anni Settanta, quando Lanzmann venne a Roma a intervistarlo per “Shoah”. Al termine di quei colloqui, il regista non sapeva come inserire quelle ore di conversazioni dentro al film. Le avrebbe usate trent’anni dopo. “Le dernier des injustes” è stato appena presentato al Festival di Cannes. Murmelstein è stata una figura molto dibattuta e controversa, non solo per il suo ruolo a Terezín, ma anche per aver “lavorato” a Vienna con Adolf Eichmann, l’architetto della “Soluzione finale”, che incaricò il rabbino di deportare gli ebrei di Vienna verso il ghetto cecoslovacco. Fra le maldicenze proferite su Murmelstein c’è quella per cui il rabbino avrebbe impartito lezioni di ebraico al colonnello delle SS. Lanzmann sostiene che Murmelstein non è un traditore, ma un eroe, perché salvò 120 mila dei suoi dalla morte certa sacrificandone altri, e che comunque, a differenza di chi prese la via dell’esilio, rimase al fianco del popolo ebraico, fino all’ultimo. Un’opinione, su una figura analoga a quella di Murmelstein, espressa anche da Arnold Mostowitz, il medico del ghetto di Lodz durante l’occupazione tedesca della Polonia. Reduce da Auschwitz, Mostowitz sostiene che Rumkowski, “il dittatore del ghetto di Lodz”, che assecondò fino all’ultimo la volontà dei nazisti e trasformò il ghetto in una gigantesca fabbrica al servizio dell’esercito tedesco, avrebbe potuto passare alla storia come il salvatore degli ultimi ebrei della Polonia. Quando il tuo nemico è intenzionato a distruggere ognuno dei tuoi, devi cercare di fare un patto in cui ne salverai almeno un po’? E’ questa la domanda al centro del nuovo film di Lanzmann della durata di quasi quattro ore. “E’ felice a Roma?”,domanda Lanzmann affacciato da una terrazza della capitale, corpulento e sornione, compiaciuto della sua primitività (molto francese per altro) nel porre le domande e nell’essere sempre presente sullo schermo. “Felice come può essere un ebreo in esilio”, risponde Murmelstein. Al termine di quella settimana di colloqui, il regista si innamora del rabbino: “Era incredibilmente intelligente e coraggioso, lo amavo”. Murmelstein getta una luce completamente nuova anche su Adolf Eichmann. Il libro di Hannah Arendt sul processo al gerarca nazista, “La banalità del male”, lo dipinge come un anonimo burocrate senza particolare odio per il popolo ebraico. Murmelstein presenta il contrario e confessa di aver visto di persona Eichmann partecipare alla “Notte dei Cristalli”, un fatto che Eichmann negò al processo in Israele. Murmelstein sapeva che stava prendendo parte al processo di distruzione del suo stesso popolo, ma non si tirò indietro: “Un chirurgo non piange mentre opera il paziente”, diceva sconsolato. “Oppure il paziente muore”. Nell’ottobre del 1944, il rabbino deve stilare una lista di cinquemila ebrei da sacrificare e spedire ad Auschwitz. “Era un rischio calcolato”. Al termine del film, il regista e il rabbino camminano nei pressi del Colosseo. Lanzmann gli dice che Gershom Scholem, il celebre filosofo e storico tedesco, vorrebbe impiccarlo per tradimento. La replica di Murmelstein: “La gente ha ragione a condannarmi ma non ha il diritto di giudicarmi. Per quanto riguarda Scholem, è un po’ capriccioso sulle impiccagioni. Non si era opposto all’esecuzione di Eichmann?”. L’intera cinematografia di Lanzmann poggia su questo lato oscuro, i personaggi “impresentabili” che poco si confanno agli stereotipi sull’Olocausto e sull’ebreo pio e passivo mandato a morte. Di Murmelstein sta anche uscendo postumo, per le belle edizioni La Scuola, il libro “Terezín”, in cui il rabbino racconta la sua versione della storia. Il Foglio ha chiesto al figlio, Wolf Murmelstein, settantasettenne sopravvissuto alla Shoah e al campo ghetto di Terezín, di ripercorrere le tappe principali della vita del padre. “Era l’ultimo sopravvissuto di un gruppo di dirigenti ebraici che dovevano ‘rappresentare’ le loro comunità di fronte agli oppressori nazifascisti. Si trovarono a dover trasmettere gli ordini, sempre più duri, di un apparato di oppressione che procedeva per gradi: prima la discriminazione, poi l’emarginazione infine l’espulsione dalle case con la deportazione verso i ghetti nell’est europeo (Polonia, paesi baltici, Bielorussia) e, alla fine, nei campi di sterminio. Quasi tutti questi infelici dirigenti sono morti martiri, insieme alle famiglie. L’ultimo dei pochissimi sopravvissuti, sotto il peso dei tristi ricordi, dovette affrontare pesanti accuse e feroci critiche da parte di chi avrebbe dovuto solo tacere – perché in quegli anni o era stato al sicuro, o non era nella posizione di conoscere i fatti o, ancora, voleva eliminare un testimone scomodo – offre qui la propria testimonianza”. E’ Murmelstein. Il rabbino all’epoca era uno dei maggiori studiosi di ebraismo, autore di studi sulle radici ebraiche di alcuni passi del Nuovo Testamento e sui libelli antisemiti del suo tempo. Nel 1938 era il più giovane dei rabbini di Vienna e, per le sue qualifiche scientifiche, avrebbe potuto mettersi subito al sicuro. Obbedì, invece, quando gli fu chiesto di assumere la direzione dell’ufficio emigrazione della comunità ebraica di Vienna per avviare quanto più persone possibile verso la salvezza. In questa veste, Murmelstein dovette incontrare Eichmann alla fine del maggio 1938, nel sottoscala della sede della Gestapo di Vienna. Dal 1938 al 1941 l’ufficio diretto da Murmelstein gestì con successo, fra difficoltà immense, più di 110 mila pratiche di emigrazione. Fu allora che iniziarono a circolare dicerie sul suo conto. Basta citarne una: “Ma, accetta denaro? Lui personalmente no; suo figlio universitario sì”, quando Wolf allora non aveva nemmeno compiuto tre anni. Nella Notte dei Cristalli, Murmelstein, avvertito dell’irruzione delle SS nella sinagoga, accorse subito e trovò Eichmann che comandava la distruzione degli arredi. “Invece di mettersi al sicuro in tempo, Murmelstein aveva lavorato per la salvezza e l’emigrazione di tanti per poi ritrovarsi insieme a Terezín. Solo lui sopravvisse, per testimoniare”. Alla liberazione, venne arrestato dai sovietici. “Iniziò il calvario. Murmelstein venne prima tenuto agli arresti a Terezín e poi trasferito a Praga, nella famigerata prigione di San Pancrazio. La famiglia trovò rifugio presso dei parenti a Budapest. Da una parte c’erano persone che sapevano quanto Murmelstein aveva fatto per la salvezza di Terezín ed ebbero il coraggio di stare al suo fianco, provvedendo all’assistenza e ai costi della difesa legale. Dall’altra parte c’erano individui che si precipitarono – o vennero indotti con pressioni varie – a lanciare accuse, tanto gravi quanto assurde”. Da ricordare nuovamente che, nel novembre 1963, sulle pagine di due importanti quotidiani di lingua tedesca il famoso studioso di mistica ebraica Gershom Scholem scrisse: “Come mi hanno assicurato tutti i reduci di Terezín, Murmelstein avrebbe meritato di venire impiccato”. Dice il figlio Wolf che “il famoso studioso di mistica – all’epoca dei fatti al sicuro – con ‘ragionamenti’ mistici, basava i propri giudizi su dei sentito dire. Hannah Arendt nel libro ‘Eichmann a Gerusalemme’ sostiene la tesi – facile a formulare se, in quegli anni, si stava al sicuro a New York – che i Judenrat avrebbero dovuto assumere l’atteggiamento di ‘non partecipazione’”. E se Gideon Hausner, il procuratore israeliano del processo al gerarca nazista, nel libro “Justice in Jerusalem” chiama Murmelstein “associato di Eichmann”, lo storico Raul Hilberg lo accusa di aver venduto gli altri per salvare se stesso e pochi altri “privilegiati”. Una volta esiliatosi a Roma, Murmelstein poté frequentare la biblioteca dell’Istituto pontificio biblico, dove si trovano molti suoi scritti. Nell’agosto 1947, l’allora rabbino capo di Roma, David Prato (dal 1939 al 1945 al sicuro) invitò Murmelstein a lasciare immediatamente la capitale perché “altrimenti non garantisco per la sua sicurezza”. Conclude il figlio Wolf: “Murmelstein, come tanti altri, soffriva molto della sindrome del sopravvissuto ed era tormentato da dubbi: ‘Avessi fatto così e non come…’. E’ ormai storia che l’allora rabbino capo di Roma, Elio Toaff, che nel 1983 aveva negato l’iscrizione di Murmelstein in comunità, negò pure la sepoltura nella tomba della moglie”. Murmelstein riposa oggi al cimitero Flaminio. Un editto ebraico vietò persino che sulla sua tomba i parenti recitassero l’Yizkor, la commemorazione ebraica dei defunti. A quanti gli rimproveravano di non essere diventato un martire, Murmelstein rispondeva: “Lo so, erano tutti dei martiri, ma non tutti i martiri sono santi”.

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