Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 20/05/2013, a pag. 17, l'articolo di Giampaolo Cadalanu dal titolo " Tunisia, rivolta dei salafiti: un morto. Amina vuole sfidarli e viene arrestata ", a pag. 1-29, l'articolo di Renzo Guolo dal titolo " ", preceduto dal nostro commento. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 11, l'articolo di Sergio Romano dal titolo " L'ora della resa dei conti fra le due anime dell'Islam ", preceduto dal nostro commento.
Ecco i pezzi:
La REPUBBLICA - Giampaolo Cadalanu : " Tunisia, rivolta dei salafiti: un morto. Amina vuole sfidarli e viene arrestata "
Amina Tyler
Da una parte le bandiere nere, le barbe lunghe e la lettura più chiusa del Corano come unica ispirazione. Dall’altra il diritto di indossare la minigonna e persino di esibire il seno nudo, la Costituzione laica, l’idea che uno Stato musulmano possa realizzare l’islam moderato, aprendosi alla convivenza con l’occidente. Le due visioni del mondo che dilaniano la Tunisia, ieri hanno preteso una vita, quella di un giovane salafita rimasto ucciso negli scontri con la polizia a Ettadhamen, nella periferia della capitale. La sfida era stata lanciata dai radicali di Ansar el Shariah, il movimento salafita ispirato ad Al Qaeda: volevano tenere un congresso nella loro roccaforte, Kairouan, nell’interno del paese. A portare la tensione alle stelle aveva pensato Amina Tyler, che già aveva suscitato la rabbia dei tradizionalisti postando una sua foto a seno nudo su Facebook: l’attivista ha pubblicizzato la sua idea di replicare la provocazione in perfetto stile “Femen” proprio davanti alla moschea Okba Ibn Nafaa, sede prescelta dagli integralisti per la loro assemblea. Il governo tunisino guidato dal partito islamico Ennhada, criticato da più parti nei mesi scorsi per l’eccessiva tolleranza verso gli ultrà radicali, stavolta ha agito con decisione: ha bloccato la riunione di quello che il premier Ali Larayedh definisce «organizzazione illegale con legami terroristici», perché «pericolosa per la sicurezza e l’ordine pubblico», ha spedito nella città undicimila agenti e ha arrestato Saifeddine Rais, portavoce del movimento. Rais è il personaggio più in vista perché il leader di Ansar, Saifallah Benhassine, noto anche come Abu Iyadh, in passato combattente di Al Qaeda in Afghanistan, è latitante e ricercato dalla polizia per gli assalti all’ambasciata Usa dello scorso settembre, quando le proteste per il film anti-islamico avevano portato a disordini culminati nella morte di quattro persone. Anche la provocazione di Amina è stata fermata sul nascere dalla polizia, che ha bloccato la ragazza prima che si denudasse e l’ha portata in commissariato, per garantirne la sicurezza. Ma la sfida dei salafiti è andata avanti, nonostante nei giorni scorsi persino il partito della Liberazione, Hizb ut Tahrir, regolarmente registrato nonostante sia anch’esso di ispirazione salafita, avesse fatto appello ai colleghi di Ansar el Shariah perché cancellassero la riunione. Gli sceicchi salafiti si sono impegnati in lunghi negoziati con le autorità, che però non hanno portato nessun risultato. Il gruppo integralista si è limitato a proporre il rinvio di una settimana, facendo appello ai militanti per un congresso il 26 maggio e respingendo dunque il “no” del ministero degli Interni. Il divieto nasceva anche dall’esperienza dell’anno passato, quando la manifestazione salafita si è trasformata in una cerimonia inquietante, con appelli alla distruzione di Israele e dimostrazioni di arti marziali da parte di militanti con il volto coperto. Con Kairouan bloccata da misure di sicurezza senza precedenti, Ansar el Shariah ha fatto convergere i militanti verso Tunisi, considerata il cuore laico del paese, per una prova di forza con la polizia. I salafiti hanno coinvolto giovanissimi e disoccupati per manifestare a Ettadhamen, un centro poverissimo già teatro di cortei radicali, bastione tradizionalista a poca distanza dalla capitale. A quel punto, il percorso era segnato. I salafiti hanno tirato giù da un edificio pubblico la bandiera tunisina, rossa con stella e mezzaluna, per issare al suo posto il vessillo nero della Jihad, con i versi della shahada, la testimonianza di fede islamica: «Non c’è altro dio che Dio, e Maometto è il suo profeta». Le forze dell’ordine sono intervenute con i blindati e i lacrimogeni, i salafiti hanno risposto incendiando alcune auto e dando il via alle sassaiole. Alla fine Ansar el Shariah ha ottenuto quello che senza dubbio cercava: una vittima da presentare come martire per la causa islamica. Ma il bilancio potrebbe non essere definitivo: il sito degli integralisti denuncia l’uccisione di un militante con il nome completamente diverso da quello segnalato dall’agenzia Tap, e a fine giornata anche un poliziotto era in condizioni disperate, mentre almeno una dozzina di agenti e diversi manifestanti sono finiti in ospedale.
La REPUBBLICA - Renzo Guolo : " La jihad in topless "
Renzo Guolo Una protesta pro Amina
Associare il termine 'jihad' alla protesta di Amina contro i salafiti è inaccettabile. Jihad, guerra santa, il termine invocato dai fondamentalisti islamici quando descrivono e pianificano i loro attentati in Occidente. Quale sarebbe il nesso con una donna tunisina che, coraggiosamente, protesta contro i salafiti sempre più potenti nel suo Paese?
I salafiti e Amina fanno fibrillare la Tunisia. La giovane attivista di Femen è stata arrestata a Kerouan, città dove i salafiti radicali di Ansar al Sharia avevano indetto il loro congresso, vietato dal governo che lo ha definito una minaccia per la sicurezza nazionale. Le manette per Amina sono scattate un attimo prima che si scoprisse il seno davanti alla moschea di Oqba Ibn Nafaa, dove i salafiti si erano asserragliati dopo i duri scontri con la polizia. È una doppia sfida per il governo tunisino, guidato dagli islamisti di filiera Fratelli Musulmani di Ennahda, sia pure in coalizione con centristi e liberali. Il nuovo, tentato gesto di Amina, nello stile del femminismo situazionista di Femen, solleva un enorme problema nel mondo islamico. La chiave è nella scritta che compariva sul corpo di Amina in occasione della foto che aveva destato scandalo: namus, onore. Se una donna si scopre pubblicamente e non viene messa ai margini, è l'onore comunitario che viene meno. La topless jihad di Amina è dirompente perché mette in mostra la divaricazione tra l'individualismo e l'olismo, fattore che ancora oggi marca la differenza tra Occidente e Islam. La topless jihad, con i suoi eccessi e le forzature minoritarie tipiche delle avanguardie, mette in discussione una dimensione chiave per i movimenti islamisti che della islamizzazione dei costumi, dunque anche della velatura del corpo e del rifiuto della sua mercificazione, fanno una questione di principio. Anche Femen, dunque anche Amina, è contro la mercificazione ma mettersi a nudo nel mondo della Mezzaluna significa innanzitutto mostrare la contraddizione dell'oppressivo e claustrofobico dominio maschile. Un diverso sguardo sul senso della dignità femminile destinato a una rotta di collisione fatale. Ma il governo tunisino deve affrontare una questione ben più esplosiva. Il movimento salafita, qui come altrove, è una spina nel fianco. Considera Ennahda preda del revisionismo islamico e incapace di fondare uno Stato islamico retto sulla sharia; teorizza la legittimità di combatterlo con ogni mezzo. La sua corrente jihadista, guidata dal reduce “afgano” Abu Ayad, si richiama a Al Qaeda. Il partito di Gannouschi si trova così pressato da un’ opinione pubblica laica, che non accetta derive religiose, e un movimento radicale che pesca nello stesso bacino dell'Islam politico e si presente come il solo, autentico interprete dell'ideologia islamista. Negli ultimi due anni Ansar Al Sharia si è radicata nei quartieri popolari, facendo proseliti anche tra i delusi di Ennahda. Si ritiene che siano circa cinquantamila oggi i seguaci del radicalismo salafita. Un rapporto condizionato dall'album di famiglia, che ha indotto una certa tolleranza di Ennadha verso i “fratelli che sbagliano”. Almeno sino a ieri, quando i margini per il compromesso ideologico si sono infranti sotto il fuoco della polizia.
CORRIERE della SERA - Sergio Romano : " L'ora della resa dei conti fra le due anime dell'Islam "
Sergio Romano
Persino Sergio Romano si sta rendendo conto del fatto che la Turchia di Erdogan non è una democrazia (" il partito turco di Recep Tayyip Erdogan che molti hanno definito, forse troppo generosamente, una «democrazia cristiana islamica».). Meglio tardi che mai.
Come sia possibile, però, continuare ad aggrapparsi all'utopia dell'islam con due anime, una delle quali 'moderata', non è dato saperlo.
L'islam non ha due facce, ma una sola, dittatoriale, la cui colorazione va dal rosso macelleria ad altre tonalità che non si distinguono per quanto riguarda rappresentatività dittatoriale.
Ecco il pezzo:
TUNISI — Gli scontri fra la polizia e i salafiti a Tunisi e a Kairouan dimostrano che anche in Tunisia, come in Egitto, l'Islam è diviso fra due tendenze: un partito dalla Fratellanza musulmana, Ennahda, e alcuni movimenti radicali fra cui il maggiore è Ansar Al Sharia (partigiani della legge coranica). A prima vista la distinzione è netta. Ennahda si professa democratico, vuole tranquillizzare i laici, governare il Paese, allargare l'area del proprio consenso, ed è stato probabilmente influenzato dall'Akp, il partito turco di Recep Tayyip Erdogan che molti hanno definito, forse troppo generosamente, una «democrazia cristiana islamica». I salafiti di Ansar Al Sharia, invece, formano un gruppo integralista che non nasconde le sue simpatie per Al Qaeda e predica un Islam totalitario, fondato su una lettura miope e angusta del Corano. Uno dei suoi maggiori esponenti è Abou Iyad, oggi alla macchia, ma protagonista di uno scontro con le forze dell'ordine nella moschea di Al Fath e sospettato di un attacco all'ambasciata degli Stati Uniti, nel settembre 2012, in cui morirono quattro persone. Comunica con video diffusi sulla rete e il 12 maggio ha lanciato una sorta di dichiarazione di guerra contro Ennahda e il governo di coalizione mentre in quelle stesse ore un gruppo del movimento annunciava dalla piccola città di Menzel Bourghiba, a sud di Biserta, che avrebbe piantato la bandiera nera della Salafia al posto della bandiera nazionale sulla facciata del ministero degli Interni. Sono salafiti di Ansar Al Sharia, verosimilmente, i guerriglieri (una ventina) che l'esercito ha stanato dalle grotte dove si erano installati nella zona di Jebel Chambi, lungo la frontiera meridionale con l'Algeria.
Ho chiesto a Soufiane Ben Fahrat, commentatore della televisione e de La Presse, quanti siano i salafiti tunisini. Ha azzardato una cifra approssimativa, diecimila, di cui almeno tremila molto attivi nell'organizzazione e mille veterani di tutte le guerre arabe e musulmane combattute negli ultimi trent'anni, da quella afghana contro i sovietici a quelle più recenti in Libia, Mali, Siria, Somalia, Nigeria. La crisi libica e, più recentemente, quella siriana hanno reso la transizione tunisina ancora più drammaticamente complicata. Nel Paese vi sono molti esuli libici, compromessi con il regime di Gheddafi, ma anche una parte considerevole dell'arsenale con cui le potenze occidentali e qualche Paese del Golfo hanno armato gli insorti di Bengasi e i ribelli di Tripoli.
Non è tutto. Oltre a disporre di armi, i salafiti si sono serviti di alcune moschee per farne altrettanti uffici di reclutamento per la guerra siriana. Hanno mandato al fronte parecchi giovani combattenti, ma anche alcune ragazze sui quindici anni nell'ambito di una operazione che è stata definita «jihad del sesso» o «jihad del matrimonio». Le ragazze non combattono, ma forniscono ai guerrieri il conforto di un sesso benedetto dalla fede. Nel corso di una conferenza stampa, all'inizio di aprile, il fenomeno è stato denunciato con molta fermezza dalla maggiore autorità di Tunisia in materia di diritto coranico. Il Gran Mufti Othman Battikh ha detto che i salafiti stanno corrompendo la gioventù tunisina, che la jihad del sesso è soltanto prostituzione e che «chiunque metta fine alla propria vita non può essere un martire».
Gli ho fatto visita in un vicolo della vecchia Casbah, a pochi passi dalla piazza dove sorge il palazzo del governo. Sapevo che un imam radicale, qualche giorno prima, lo aveva duramente criticato per le sue affermazioni e non sono stato sorpreso quando, rispondendo a una mia domanda, ha anzitutto distinto i salafiti innocui, devoti e impegnati nella quotidiana lettura dei detti del Profeta (con i quali è sempre possibile dialogare) da quelli di cui aveva parlato nella sua conferenza stampa. Ma le sue parole degli inizi d'aprile erano già servite nel frattempo ad allertare le famiglie, oggi forse più attente a evitare che ragazzi e ragazze si lascino tentare dal fascino della jihad. Un giornalista tunisino, qualche tempo fa, ha visitato Damasco e il regime di Bashar Al Assad gli ha mostrato un gruppo di giovani connazionali arrestati dopo il loro ingresso clandestino nel Paese e rinchiusi nelle carceri siriane. I suoi articoli, dopo il ritorno in patria, hanno avuto lo stesso effetto.
Non esistono soltanto i salafiti reclutati per la guerra siriana. Esistono anche quelli che pretendono di modificare i costumi laici delle università tunisine. Un docente della Università di Manouba mi ha raccontato che un gruppo composto da ragazzi e ragazze ha fatto irruzione nella facoltà di lettere. I ragazzi avevano folte barbe, vestivano camicioni sgualciti e calzoni lunghi sino al polpaccio (per facilitare le abluzioni rituali), mentre le ragazze erano coperte dal niqab, un velo integrale che lascia agli occhi soltanto una sottile feritoia. I loro portavoce pretendevano che le ragazze fossero autorizzate a portar il velo durante le lezioni e gli esami. Il consiglio accademico ha respinto la richiesta («non si può insegnare a un muro») e le ragazze, assatanate, hanno buttato all'aria l'ufficio del preside che è riuscito a spingerle fuori della stanza, ma a prezzo di una denuncia per aggressione con certificati medici scritti da medici compiacenti in cui si leggeva che sulle guance delle giovani donne vi erano «tracce di schiaffi». Il pover'uomo ha dovuto attendere un anno prima di essere assolto da qualsiasi imputazione. Lo hanno aiutato gli interventi di molti professori di università europee, soprattutto francesi, mentre il ministro tunisino della Istruzione superiore, chiamato in causa dall'università di Manouba, si limitava a raccomandare il dialogo e la comprensione. Alcuni dei laici incontrati a Tunisi sono convinti che Ennahda indossi la maschera della tolleranza quando parla al mondo, ma conservi stretti legami di affinità con l'Islam radicale in cui ha le sue vecchie radici.
A me sembra piuttosto che il partito provi di fronte a questi «ragazzacci» lo stesso imbarazzo dei comunisti italiani quando scoprivano che molti terroristi degli anni Settanta appartenevano al loro «album di famiglia». Ameur Larayedh, fratello del primo ministro, e Osama Al Sarigh, deputato della Costituente eletto dai tunisini residenti in Italia, mi hanno detto che il loro partito non intende tollerare alcuna forma di violenza e che ogni illegalità sarà affrontata con il rigore della legge. Ma il nodo dei legami che ancora uniscono il maggiore partito tunisino al suo retroterra islamico radicale non è di quelli che si possono sciogliere garbatamente o con affermazioni di principio. Per essere totalmente credibile Ennahda dovrà tagliarlo.
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