Sul FOGLIO dell'11/05/2013, a pag.5, con il titolo "La scoperta dei Karnowski", Nicoletta Tiliacos recensisce "La Famiglia Karnowski", di IsraelJ.Singer, riconosciuto uno dei romanzi più importanti del '900. Dopo la magistrale recensione di Pietro Citati http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=2&sez=120&id=48887 da non perdere, tocca ora a Nicoletta Tiliacos ad invogliare alla lettura di un libro che, dopo averlo letto, lo cosiglierete a tutti i vostri amici. Ve ne saranno riconoscenti.
Israel J.Singer
Esther Singer Kreitman, ancora sconosciuta al lettore italiano
Isaac B,Singer, il più famoso dei tre fratelli, premio Nobel per la letteratura
Mio Dio, che grande famiglia..
I Karnowski della Grande Polonia erano noti per il loro carattere testardo e provocatore, ma allo stesso tempo stimati per la vasta erudizione e l’intelligenza penetrante. La genialità era inscritta nelle alte fronti da studioso e negli occhi profondi e inquieti, neri come il carbone. Ostinazione e sfida si leggevano sui nasi forti e sproporzionati che spiccavano beffardi e arroganti nei loro volti scarni: poche confidenze! E’ per via di questa testardaggine che nessuno in famiglia era diventato rabbino, anche se non sarebbe stato difficile, e tutti avevano intrapreso la via del commercio”. Settant’anni dopo la sua prima pubblicazione in yiddish, a New York, anche in Italia facciamo conoscenza con “La famiglia Karnowski”, di Israel Joshua Singer (tradotto da Anna Linda Callow per Adelphi, 498 pagine, 20 euro). Un romanzo potente, che racconta tre generazioni di una famiglia di ebrei orientali, dalla fine dell’Ottocento fino alla metà degli anni Quaranta. La parabola dell’ascesa borghese e della caduta della famiglia Karnowski – dal villaggio polacco di Melnitz, passando per la Berlino della Belle Epoque, fino a quella di Weimar e dell’ascesa del nazismo, per terminare con la diaspora in America – è solo il filo conduttore principale di una trama ricchissima e affollata di personaggi, nella quale ha una grande parte il contrasto quasi antropologico, prima ancora che dottrinario, tra gli ebrei hassidim, i mistici studiosi della Kabbalah diffusi dalla metà del Settecento in tutta l’Europa orientale, e i fautori dell’Haskalah, l’illuminismo ebraico di Moses Mendelssohn, autore di una traduzione del Pentateuco in tedesco della quale egli parlava come del “primo passo verso la civiltà, da cui il mio popolo si è tenuto lontano per lungo tempo”. Quella divisione diventava incomprensione, se non ostilità, tra ebrei ricchi e istruiti ed ebrei poveri e “oscurantisti”, tra gli ebrei germanici di antico lignaggio, che si esprimevano in tedesco, e gli Ostjuden, ebrei orientali che parlavano lo yiddish degli ashkenaziti, coloro che nel tardo medioevo, per sfuggire ai pogrom, erano fuggiti dalla Germania in Polonia e nelle zone confinanti ucraine, russe, lituane. A fine Ottocento, il giovane e “illuminato” David Karnowski, commerciante di legname, decide di abbandonare lo shtetl di Melnitz, terra di hassidim, per raggiungere la Germania, dove fioriscono i Lumi ebraici. “Non resterò un giorno di più in mezzo a quei selvaggi e bifolchi, nemmeno per tutto l’oro del mondo”, replica al suocero disperato che vorrebbe trattenerlo. Perché i Karnowski, “sempre a causa del loro carattere, non erano devoti di nessun rabbino hassidico e, accanto alla dottrina talmudica, coltivavano anche l’interesse per argomenti profani come la matematica e la filosofia e leggevano perfino libri in tedesco, stampati in aguzzi caratteri gotici”. A Berlino, dove David metterà radici e sarà accolto dalla borghesia ebraica e dagli esponenti più autorevoli dell’Haskalah, suo figlio Georg studierà e diventerà un medico ricco e stimato, sposerà una gentile, l’infermiera Teresa Holbek, e avrà un figlio, Jegor. Con Georg sembrerà pienamente realizzato il sogno paterno di integrazione, l’ambizione di essere “ebreo tra gli ebrei, tedesco tra i tedeschi”. A smentirlo ci penserà il nuovo ordine nazionalsocialista, che spingerà i Karnowski a rifugiarsi in America (come scelse, nella realtà, anche Israel J. Singer). Lì il giovane Jegor, metà ebreo e metà gentile, il ragazzo “con gli occhi azzurri e la pelle chiara degli Holbek, i capelli neri e il naso marcato dei Karnowski”, vivrà fino alle estreme conseguenze la lacerazione che in Germania lo aveva portato all’odio assoluto verso la propria parte israelita, incarnata dal padre e da quel “naso marcato” che Jegor disprezza prima di tutto in se stesso. E’ quasi incredibile che questo romanzo, degno di figurare tra i più importanti del Novecento, sia rimasto per tanto tempo ignorato, non solo in Italia: la prima edizione francese risale a due anni fa, quella inglese si perde nella seconda metà del secolo scorso. Solo in parte questo può spiegarsi con l’esotismo della lingua originale, e con il fatto che all’autore (nato nel 1893 a Bilgoraj, in Polonia, e morto a New York nel 1944) abbia fatto ombra l’immensa fortuna letteraria, coronata dal Nobel nel 1978, del fratello Isaac Bashevis Singer, più giovane di undici anni e considerato il massimo scrittore yiddish contemporaneo.A Israel – morto d’infarto nel ’44, quando le dimensioni e le caratteristiche dello sterminio degli ebrei in Europa non potevano essergli note fino in fondo, e mentre cercava invano di avere notizie della madre e del fratello più piccolo, Moshe, uccisi nei lager – Isaac avrebbe così dedicato nel 1950 il suo romanzo più famoso, “La famiglia Moskat”: “Alla memoria del mio defunto fratello, I. J. Singer, autore dei ‘Fratelli Ashkenazi’. Egli era per me non soltanto il fratello maggiore, ma anche un padre spirituale e veramente un maestro di vita. Io guardo a lui come a un modello di grande spiritualità e di probità letteraria. Benché fosse un uomo moderno, aveva tutte le grandi qualità dei nostri pii predecessori”. Settantenne e già carico di gloria, Isaac avrebbe detto di Israel: “Sto ancora imparando da lui e dalla sua opera”. Si potrebbe pensare che i due fratelli, figli del rabbino Pinchas Meindl Zinger e di Basheva Zylberman, a sua volta figlia di un rabbino hassidico di Bilgoraj, non abbiano fatto altro che riprodurre, nei loro destini professionali, l’antico archetipo, non solo ebraico, del fratello maggiore perdente rispetto al cadetto, almeno dai tempi di Esaù e Giacobbe. Ma l’archetipo, in questo caso, non funziona. Alcune biografie di Isaac parlano semmai della voglia di emulazione, sconfinante nell’invidia, verso un fratello maggiore incoraggiante e paterno. Potrebbero essere solo forzature, visti i pubblici attestati di riconoscenza che il minore non mancò mai di tributare al più anziano. Sta di fatto che quello che oggi è considerato l’“altro Singer”, Israel, era stato per molto tempo il genio di famiglia. Dopo l’infanzia e l’adolescenza nel quartiere popolare di Varsavia dove il padre teneva il suo Beth Din (tribunale rabbinico), aveva scelto una vita da bohémien. A Varsavia aveva studiato pittura, ma subito la vocazione di raccontare storie era diventata irresistibile. Viaggiò a lungo in Galizia e in Russia, e nel 1918 aderì al gruppo di scrittori d’avanguardia yiddish del “circolo di Kiev”, mentre cominciava a collaborare a vari giornali yiddish e pubblicava i primi racconti. Nel 1921, tornato a Varsavia, diventò corrispondente del giornale yiddish di New York, il Jewish Daily Forward. Il suo primo romanzo, “Acciaio e ferro”, risale al 1927 e già in quegli anni molte delle sue storie si trasformavano in pièce teatrali. Ma è con “Yoshe Kalb”, pubblicato nel 1932 e diventato una fortunatissima commedia, che Israel conquista una solida fama. Yoshe Kalb è un giovane ricco e colto, attratto dal misticismo e dai testi sacri della tradizione ma anche dalla passione profana per una donna. Incapace di scegliere, perderà tutto. E’ la stessa schizofrenia che il frallo Isaac B. Singer rappresenterà in Asa Heshell, il protagonista della “Famiglia Moskat”, e che si può leggere come metafora sull’intero mondo ebraico di quegli anni, diviso tra tradizione e modernizzazione. Quando Israel J. Singer decide di stabilirsi a New York, nel 1934, è già una celebrità. Due anni dopo, con il romanzo “I fratelli Ashkenazi” – scritto in inglese e non in yiddish come “La famiglia Karnowski”– per settimanecontenderà addirittura a “Via col vento” di Margaret Mitchell il primo posto nella classifica del New York Times dei libri più venduti. Di quel romanzo monumentale – 750 pagine nell’edizione pubblicata nel 2011 da Bollati Boringhieri, con una prefazione di Claudio Magris – è da sempre grande estimatore il critico americano Harold Bloom. In un’intervista uscita sul Corriere della Sera nel 2009, Bloom dichiarò anzi, senza troppi complimenti, che il Nobel Isaac Bashevis Singer gli era sempre sembrato “un autore mediocre”. Mentre “il fratello maggiore, ben più talentuoso di Bashevis, ci ha lasciato il bellissimo ‘I Fratelli Ashkenazi’”. Mettere a confronto i due Singer, ci sia stata o meno rivalità tra di loro, non ha senso se non per constatare gli esiti diversi della loro opera, che affonda le radici nello stesso humus (entrambi, per esempio, scriveranno le memorie degli anni di formazione a Varsavia, alla “corte” del padre rabbino). Nel mondo rappresentato con spirito visionario da Isaac la realtà fa sempre i conti con il sacro e il demoniaco, i personaggi sentono gravare su di loro la pesantezza del divino e ogni parola detta è già “storia del cosmo”, non modificabile e indifferente, nel suo caotico svolgersi, a ogni sofferenza e a ogni preghiera; al contrario, il modo di narrare di Israel, come ha scritto Claudio Magris nell’introduzione ai “Fratelli Ashkenazi”, rivela l’aspirazione “a essere un cronista impassibile e quasi impersonale, che narra e ricrea da una distanza oggettiva vicende e avvenimenti”. Il suo sembra, nelle intenzioni, più un servizio alla storia che alla letteratura, ma è letteratura di finissima grana, quella che ne risulta. I giudizi di valore non sono assenti, il bene e il male sono riconoscibili, così come la dimensione sacrale dell’esistenza. Ma tutto è affidato alla descrizione di fatti, dei pensieri quotidiani dei personaggi, delle dinamiche contraddittorie che in continuazione interrogano gli individui e li spingono a scegliere, a sbagliare, e a rimediare, se possono. E a volte possono, come nell’impressionante finale della “Famiglia Karnowski”. Che è anche il romanzo dell’amore tradito degli ebrei verso la Germania. La molla che muove il capostipite David è il desiderio di sentirsi parte di un mondo evoluto e colto, e “Berlino aveva sempre rappresentato per lui la cultura, sapienza, nobiltà, bellezza, luce attingibili solo in sogno”. Alla giovane moglie Lea, che rimpiange il suo chiassoso shtetl, la madre, le chiacchiere con le amiche, David rimprovera di parlare in yiddish e di non fare abbastanza per “coltivarsi”, tanto da reggere la conversazione con le sussiegose matrone della borghesia ebraica illuminata, soprattutto con la dotta moglie del dottissimo rabbino Spayer. Lea si vergogna, vorrebbe chiudersi in casa e mandare David da solo alle serate con i berlinesi, ma David la rimprovera: “Per l’amor del cielo, parla tedesco!”. Per lui “il tedesco è cultura, luce, Moses Mendelssohn, è lo studio accademico del giudaismo. La lingua di Lea gli ricorda il rabbino di Melnitz, il hassidismo, la stupidità e l’ignoranza. Per di più ha paura che sentendo quel dialetto straniero qualche passante lo prenda per un ebreo della Dragonerstrasse”. E’ il quartiere che “i cristiani chiamano con scherno la Svizzera ebraica”, con gli edifici fatiscenti che “traboccano di negozi, bottegucce, rivenditori di carne kasher, locande e minuscole case di preghiera” (varrebbe la pena di leggere “La famiglia Karnowski” anche solo per la forza con cui riesce a far rivivere quel mondo finito). Anche David Karnowski vi si avventura, ma solo per far visita a reb Efraim Walder e alla sua sterminata libreria di testi sacri, commentari, manoscritti rari “stipati su scaffali di legno grezzo dal pavimento tarlato fino al soffitto a volta della stanza” e costantemente assediati dai topi. A parte Walder, erudito tra gli eruditi, David Karnowski non ha nessuna voglia di essere confuso con “gli ebrei della Dragonerstrasse”. E nemmeno con il ricco Solomon Burak, padrone del gigantesco Emporio delle Occasioni sulla Landsberger Allee, il cui motto è: “Soldo più, soldo meno, vivi e lascia vivere”. La sua affezionata clientela è tutta di gentili, eppure non si vergogna del proprio nome. Anche lui Ostenjude di fresca immigrazione, si fa beffe dell’invidia dei commercianti gentili ed ebrei berlinesi ben più radicati di lui, che non sopportano quel nome Solomon, “sbandierato sulla sua insegna a caratteri cubitali e terribilmente chiassosi. Lo considerano un’arroganza ebraica che può solo irritare i gentili”, così come l’idea di non impiegare, come fanno loro, commessi tedeschi e biondi ma gli scuri parenti della moglie, fatti arrivare a frotte dal villaggio di Melnitz, lo stesso da cui proviene Lea, la moglie di Karnowski. Quando Ruth, la figlia di Burak, si innamora di Georg, il rampollo di casa Karnowski, il commerciante arriverà a umiliarsi di fronte a David, sapendo che questi non acconsentirà mai a quell’unione disdicevole per chi considera “un trionfo vedersi trattare con tanto riguardo da berlinesi di antico lignaggio, ebrei ricchi, istruiti e illuminati”, e ha voglia di dimenticare per sempre lo shtetl. Georg, del resto, è innamorato della rossa (di capelli e di idee)Elsa Landau, studentessa di medicina e futura eletta al Reichstag. I due amoreggiano, ma lei non vuole sposarsi, ha da vivere a tempo pieno la sua passione rivoluzionaria. Il padre, il dottor Fritz Landau, è medico nel quartiere operaio di Neukölln. Miscredente, superpositivista, umanissimo, Landau è l’unico ebreo del suo casamento, e cura chiunque a offerta libera. Ha fede solo nelle passeggiate all’aria aperta, nel fatto di respirare “col naso, col naso, maledizione”, nei bagni freddi quotidiani, nella dieta vegetariana e senza alcol e nei progressi della medicina. Nel quartiere è considerato un benefattore e se ne accorgerà quando il nazismo gli vieterà di esercitare. Spesi gli ultimi marchi per il funerale della governante Johanna, che era rimasta con lui a dispetto dell’ordine, per gli ariani, di abbandonare il servizio nelle case dei semiti, Landau troverà ogni giorno, accanto all’uscio o in casa, verdure, latte e uova, grazie ai suoi grati pazienti di Neukölln. Prima di quel momento, e prima che anche Fritz Landau e sua figlia Elsa emigrino in America, succedono molte cose. Succede che, allo scoppio della Grande guerra, David Karnowski si ritrovi accomunato a quegli ebrei orientali da cui pensava di essersi per sempre distinto. Rischia l’internamento “in un campo con tutti gli altri russi”, e solo grazie al figlio Georg, inviato al fronte come ufficiale medico nell’esercito tedesco, eviterà quell’umiliazione di cui non si capacita: “Non riusciva a concepire che potesse accadere una cosa del genere. A lui? Lui che era fuggito dall’ignoranza e dall’oscurantismo dell’Est per la cultura e i lumi dell’Ovest? Lui che parlava un tedesco impeccabile ed era membro del consiglio d’amministrazione della più grande sinagoga di Berlino? Un erudito che sapeva tutto su Mendelssohn, Lessing e Schiller?”. Non è che l’avvisaglia di quello che avverrà, anche se, alla fine del conflitto, sembra tornata una precaria normalità. David farà in tempo a irritarsi per il matrimonio di Georg con la cristiana Teresa Holbek. Assimilazione non è cancellazione, e lui al figlio “aveva imposto due nomi: Moshe, in onore di Mendelssohn, il nome ebraico con cui lo avrebbero chiamato alla lettura della Torah quando fosse stato più grande, e Georg, un nome tedesco che ricordava quello di suo padre Gershom, da usare nella vita di tutti i giorni”. La scalata sociale di Georg (anche lui, da laico, si chiederà se deve far circoncidere il figlio Jegor) si capovolge nella rovina, come per tutti gli ebrei tedeschi, con la vittoria del nazismo, del quale il cognato di Georg, Hugo Holbek, è attivo fautore. E’ arrivato il tempo in cui, come spiega l’ormai centenario libraio Efraim Walder a David, si capisce che “la vita è burlona, rabbi Karnowski, ama giocarci qualche tiro mancino. Volevamo essere ebrei in casa e uomini in strada, è arrivata la vita e ha messo tutto sottosopra: siamo goym in casa ed ebrei in strada”. La volontà non conta, non contano il sangue versato e l’amor di patria, la cultura, la ricchezza, il rispetto delle regole. Conta quel che gli altri decidono che tu sia. L’adolescente Jegor, il figlio di Georg, finirà denudato a forza su un podio, nell’auditorium della sua scuola, di fronte ai compagni di classe, a tutti gli allievi e all’intero corpo insegnante, perché il preside, lo zelante professor Kirchenmeyer, decide di mostrarlo come modello vivente delle nuove teorie razziali, come esempio del “cattivo influsso della razza negro-semitica su quella nordica quando si uniscono”. L’aria di Berlino è diventata mortifera per i giudei. Per tutti, orientali e tedeschi da lunga data: “Niente di nuovo, rabbi Karnowski, sempre la stessa vecchia storia. L’abbiamo già visto accadere a Spira e a Praga, a Cracovia e a Parigi, a Roma e a Padova. Da quando gli ebrei sono ebrei, la plebaglia brucia i loro libri sacri, marchia i loro abiti con segni distintivi, ne disperde le comunità, ne perseguita gli eruditi. E nonostante tutto siamo ancora qui”, dice Walder, ormai ridotto a un’ombra tra i suoi libri, quando David lo va a salutare prima di partire per l’America con tutta la famiglia. A New York, dove il mercante Solomon Burak ha già rifatto fortuna dopo aver dovuto abbandonare tutti i suoi beni a Berlino, i Karnowski devono reinventarsi la vita. Il vecchio David si ritroverà a chiedere aiuto proprio a Burak. “Soldo più, soldo meno, vivi e lascia vivere”, il commerciante dimentica le antiche offese subite dall’uomo che non aveva voluto come nuora la sua dolce Ruth, si accollerà le spese e il grande erudito David Karnowski diventerà scaccino principale della sinagoga Shaare- Tsedek, di cui Burak è presidente. Alla moglie Lea, che pure in passato si era dispiaciuta di non essersi imparentata con quei compaesani, e che lo compiange per quell’umiliazione, David risponde, stavolta in yiddish: “Sarà di espiazione per i miei peccati, per l’affronto che ho fatto subire a reb Shloymele, la mia arroganza verso la gente e l’idolatria di cui mi sono reso scioccamente colpevole per tanti anni”. Georg, il medico nella cui clinica partorivano tutte le ricche berlinesi, capisce che in America non riuscirà facilmente a tornare alla professione. Anche lui chiede a Burak un lavoro: “Solomon Burak prese dallo scaffale in alto una grande valigia, una di quelle con cui aveva cominciato a guadagnarsi da vivere in America e che gli aveva portato tanta fortuna. La riempì di calze da donna, di cravatte, di camicie, di corpetti e cercò di riassumere i trucchi del mestiere a beneficio del suo nuovo apprendista”. Fa l’ultimo tentativo per dissuadere il dottor Karnowski, gli promette aiuto: “E’ la nostra professione nazionale da generazioni, il nostro destino – rispose Georg con amarezza – e nessuno può sfuggire al proprio destino”. Toccherà infine a Jegor fare i conti definitivi con la propria origine e con l’impossibile desiderio di rinnegarla. Al termine della “Famiglia Karnowski”, proviamo per il suo autore qualcosa che assomiglia alla gratitudine. Ringraziamo Israel J. Singer per aver scelto di riscattare lo yiddish di Solomon Burak, l’ebreo orientale che non si vergogna di esserlo, il benefattore ottimista che conosce la pietas e non conosce il rancore.
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