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La Stampa Rassegna Stampa
12.05.2013 Cristiani in Medio Oriente, una analisi che omette, sottovaluta, ignora
di Roberto Toscano

Testata: La Stampa
Data: 12 maggio 2013
Pagina: 1
Autore: Roberto Toscano
Titolo: «La via obbligata per i cristiani d'Oriente»

Sulla STAMPA di oggi, 12/05/2013, a pag.1/25, con il titolo "La via obbligata per i cristiani d'Oriente", Roberto Toscano commenta in stile politicamente corretto il dramma dei cristiani perseguitati nel mondo arabo-musulmano.
Una lunga articolessa, la cui morale è "accontentatevi, non c'è altra via d'uscita". Toscano, pur accennando al fondamentalisno islamico, rimane in superficie nell'individuare l'intera responsabilità nelle origini dell'islam, le supera con noncuranza, un colpo di qua e uno di là. Evita poi, in quella che è essenzialemnte una analisi del Medio Oriente, di citare l'unico paese nel quale tutte le fedi sono garantite e rispettate, Israele. E questo spiega bene la supeficialità delle sue analisi.
Ecco l'articolo:

Maometto, la radice dell'arretratezza del mondo musulmano.  E della persecuzione degli 'infedeli', cioè di tutti coloro che musulmani non sono

La Siria continua ad essere lacerata da uno scontro fra regime e opposizione armata che ha assunto i drammatici contorni di una guerra civile.
Di fronte allo scempio di vite umane e alla crescente distruzione della struttura economica e culturale del Paese, la comunità internazionale è paralizzata non solo da divergenze profonde di natura politico-strategica, ma anche da oggettive incognite sulla natura delle forze che si oppongono alla dittatura della dinastia Assad.

Nel frattempo il protrarsi del conflitto senza che né l’una né l’altra parte siano in grado di prevalere, esaspera le identità etnico-religiose.
Erafforza risentimenti e paure reciproche che rendono ancora più problematica la ricerca di una soluzione politica che permetta di mettere fine alla distruzione di un Paese e di un popolo.

In questo contesto la situazione della comunità cristiana risulta sempre più drammatica.
Il rapimento in Siria, il 22 aprile, di due vescovi ortodossi ha ulteriormente aggravato i timori della comunità, che costituisce poco meno del 10 per cento della popolazione del Paese. Anche se gli autori del rapimento restano da identificare (con accuse incrociate di regime da una parte e ribelli dall’altra) non può sfuggire che proprio uno dei due vescovi aveva qualche tempo prima denunciato violenze e rapimenti da parte di gruppi jihadisti nei confronti dei cristiani, segnalando l’inizio di un vero e proprio esodo di massa causato da una drammatica situazione di crescente insicurezza.

Perché la paura? E perché la paura induce la minoranza cristiana (così come del resto le altre – numerose – minoranze religiose della Siria) a schierarsi maggioritariamente con il regime di Assad, un regime dittatoriale e ferocemente repressivo?
La spiegazione non va certo ricercata in un’ipotetica scarsa sensibilità democratica dei cristiani, e nemmeno in presunti privilegi che i cristiani avrebbero ottenuto dal regime. Questo ragionamento vale se mai per un’altra minoranza, quella alawita, che nel regime della famiglia Assad, alawita, ha occupato ruoli e ottenuto benefici più che proporzionali rispetto alla propria consistenza numerica. I cristiani della Siria invece non temono di perdere privilegi, ma diritti e libertà. E i loro timori si basano non solo sull’inquietante presenza di forti gruppi jihadisti nello schieramento ribelle, ma anche sulla recente esperienza del vicino Iraq, dove la caduta del dittatore laico Saddam e l’avvento della democrazia hanno innescato una situazione di insicurezza che ha portato all’esodo di ben due terzi della popolazione cristiana, che prima del 2003 era di circa un milione e mezzo di persone.

Qui però è necessario chiarire un punto fondamentale. Quello cui stiamo assistendo in Medio Oriente non è necessariamente, o non direttamente, la sostituzione di dittature laiche (quelle di Saddam, Mubarak e probabilmente, prima o poi, di Assad) con democrazie islamiche, ma piuttosto con «governi di maggioranza» di ispirazione islamica più o meno radicale e più o meno rispettosi del pluralismo e dei diritti delle minoranze.

I fatti dimostrano che le comunità cristiane d’Oriente (comunità antiche, più antiche dell’affermazione del cristianesimo in Occidente) sono sotto pressione, spesso minacciate, così che quando Papa Francesco parla, come ha fatto di recente, di «cristiani nel mondo che soffrono persecuzioni» non si riferisce tanto alla Cina e al suo governo, o ai fondamentalisti dell’Hindutva in alcune regioni dell’India, ma soprattutto al mondo musulmano.

La domanda a questo punto è ineludibile: è l’Islam stesso, per la sua natura essenziale e profonda, ad essere incompatibile con la tolleranza religiosa? Si tratta, dobbiamo riconoscerlo, di una visione molto diffusa nelle opinioni pubbliche del nostro e di altri Paesi occidentali, e anche, ormai, nelle comunità cristiane d’Oriente che, come quella copta in Egitto, sono bersaglio dell’islamismo più radicale.
Viene naturalmente in mente il discorso di Ratisbona di papa Benedetto XVI e in particolare la sua citazione dell’opinione di un imperatore bizantino che attribuiva a Maometto «solo cose cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della spada la fede che egli predicava».

Ora, se è vero che la dimensione militare dell’espansione dell’Islam è un fatto storico inconfutabile, è anche vero che, se parliamo di pluralismo religioso e tolleranza, le cose stanno un po’ diversamente, e questo fin dal primo grande scontro fra mondo cristiano e mondo musulmano: le Crociate.
Sembra interessante mettere a confronto la conquista cristiana di Gerusalemme, nel 1099, e la riconquista musulmana del 1187. Nel primo caso la vittoria cristiana, come narrano le cronache sia di parte cristiana che di parte araba, fu seguita da una settimana di massacri, sia di musulmani che di ebrei, saccheggi e distruzioni. Quando invece Salah ed-Din (quello che nella nostra cultura popolare viene definito come «il feroce Saladino») riprese la città non vi fu nessuna strage, nessun saccheggio e i luoghi di culto delle altre religioni rimasero intatti. Cristiani e ebrei, infatti, vengono considerati nell’Islam come «popoli del libro» e i loro profeti, e lo stesso Gesù, vengono non solo rispettati, ma anche venerati, come precursori di quello che per i musulmani è l’ultimo e «definitivo» profeta, Maometto.

La considerazione più importante è però un’altra. E’ l’esistenza stessa di forti comunità cristiane nel Medio Oriente a dimostrare che nel mondo musulmano intolleranza e oppressione sono possibili e anzi oggi drammaticamente reali, ma non sono necessariamente legate ad una presunta natura intrinsecamente, teologicamente intollerante dell’Islam.
Verrebbe da chiedere: dove sono i musulmani di Andalusia o quelli di Sicilia, terre che per secoli furono islamiche? Espulsione o conversione: ecco le uniche alternative che vennero offerte a quelle comunità, e che spiegano la loro scomparsa. L’unica sopravvivenza di musulmani in Europa l’abbiamo nella penisola balcanica, e nelle regioni sottoposte al dominio ottomano.

Chiarita la verità storica, accantonata l’insostenibile pretesa di una nostra intrinseca superiorità morale, ci rimane però la sfida del presente, di come reagire al dramma attuale delle comunità cristiane d’Oriente.
Non stiamo infatti parlando né di teologia né di storia, ma di politica e soprattutto di diritti umani. E’ vero: in tutto il Medio Oriente siamo di fronte alla spinta di popolazioni sfruttate e umiliate, storicamente soggette ad una doppia oppressione: quella coloniale e quella di dittatori spietati che hanno gestito il potere a beneficio dei propri clan.

Ma la nostra comprensione delle ragioni delle loro rivendicazioni – che in tanti Paesi si sono tradotte in quello che è stato definito «risveglio arabo» non può e non deve essere trasformata in indulgenza o peggio connivenza con fenomeni di intolleranza che hanno per oggetto le comunità cristiane. Comunità che è nostro dovere cercare di tutelare, anche condizionando esplicitamente il nostro appoggio sia politico che economico a quei Paesi, non in quanto cristiane, ma in quanto titolari – come tutte le altre minoranze – di diritti civili ed umani.

La nostra solidarietà e il nostro pur concreto appoggio politico esterno non potranno tuttavia risolvere da soli il drammatico problema delle comunità cristiane d’Oriente, prese nella morsa di un terribile dilemma. Il timore che il prevalere di maggioranze islamiche, spesso anche radicalmente islamiste, possa mettere in pericolo la loro libertà religiosa e anche la loro stessa sicurezza li spinge spesso a favorire la conservazione di uno status quo certo antidemocratico, ma con cui si può convivere, o meglio sopravvivere, nella misura in cui non si è oggetto di repressione in quanto cristiani. In questo modo, però, i cristiani non fanno che incrementare il rigetto, il sospetto, l’ostilità, di chi persegue la caduta delle dittature e l’instaurazione del potere delle maggioranze.
E’ un dilemma che il Financial Times ha cosi’ sinteticamente descritto in un suo editoriale dell’1 aprile:
«Troppi cristiani restano attaccati a un regime come quello siriano che sembra offrire un “ombrello di sicurezza” contro l’avanzata di islamisti che, temono, elimineranno le loro libertà sia religiose che sociali. Il loro timore è logico, alla luce di come si sono comportati finora i partiti islamisti catapultati alla gestione del potere dalla Primavera araba. Ma non è logico, per placare questa paura, allearsi con una versione araba del fascismo».

I cristiani d’Oriente hanno diritto a tutta la nostra solidarietà, ma ad una solidarietà che può e deve essere critica. La loro salvezza potrà infatti essere garantita soltanto dalla democrazia – democrazia per tutti, democrazia pluralista e rispettosa dei diritti umani – e non dalla «dittatura per tutti» di regimi senza umanità e senza futuro.
Per conseguire questo obiettivo resta ai cristiani d’Oriente una sola opzione: la ricerca di un’alleanza con le componenti più moderate e disposte al dialogo dell’Islam politico, uno schieramento che sarebbe errato definire come monoliticamente ed irreversibilmente attestato su posizioni di violento e intollerante radicalismo integralista. Una ricerca difficile, problematica, ma che non sembra avere alternative.

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