Siria, l’ora delle decisioni impossibili 04/05/2013
Siria, l’ora delle decisioni impossibili Analisi di Stefano Magni
Stefano Magni
Il segretario alla Difesa Chuck Hagel “non esclude” di inviare armi ai ribelli siriani. Non è ancora chiaro se Bashar al Assad abbia usato o meno le armi di distruzione di massa, la “linea rossa” fissata dall’amministrazione statunitense per un’eventuale azione militare. E nel frattempo il dibattito su cosa fare in Siria è materia viva. Entrambe le posizioni sono pericolose: intervenire vuol dire impegnarsi in un conflitto di cui non si vede la fine, al fianco di alleati discutibili: non è ancora chiaro quanto pesino le milizie jihadiste, anche esplicitamente alleate di Al Qaeda, nella resistenza siriana. Il tutto avverrebbe proprio mentre gli Usa si apprestano a por fine a 12 anni di guerra in Afghanistan e tagliano le loro spese militari. Non intervenire, però, farebbe perdere la credibilità ad un’amministrazione che ha preso esplicitamente posizione a favore della rivoluzione contro Assad e che, a questo punto, non darebbe seguito alle sue parole. L’uso di armi chimiche, in particolar modo, è stato definito pubblicamente da Barack Obama, come un passo in grado di “cambiare le carte in tavola”, “totalmente inaccettabile” e “foriero di conseguenze”. Se dovesse essere accertato il loro uso, di quali conseguenze si dovrebbe parlare? È bene precisare che nessun senatore, nemmeno l’interventista della prima ora John McCain (ex candidato repubblicano alla presidenza), chiede esplicitamente di mandare truppe in Siria. Gli interventi proposti sono l’istituzione di una “No Fly Zone” (proposta di McCain condivisa anche da buona parte del Partito Democratico), raid aerei selettivi contro gli impianti e i depositi di armi chimiche e l’invio di una forza di pace dopo l’eventuale caduta del regime. Mosse preliminari sono già state compiute in questo senso. Gli Usa hanno potenziato il loro piccolo contingente in Giordania, inviando altri 200 uomini. Se la Lega Araba dovesse inviare una forza di interposizione, gli Stati Uniti non si tirerebbero indietro. Come minimo darebbero un appoggio logistico all’operazione. Quanto alla “No Fly Zone”, invece, la difficoltà è geografica più ancora che militare. Quale zona dovrebbe essere interdetta al volo degli aerei siriani? Il comandante in capo dell’Esercito di Liberazione Siriano, Salem Idris, ritiene di avere il controllo del 65% del territorio. Vuol dire tutto e niente, perché le formazioni di resistenza sono ancora molto disperse, non riuscendo a costituire una loro roccaforte territorialmente delimitata. Una “No Fly Zone” dovrebbe necessariamente essere fatta rispettare da aerei con base in Turchia, o nel Golfo Persico. E la Turchia è esposta alle eventuali rappresaglie siriane, visto il suo lungo confine comune. Insomma, si fa presto a dire “No Fly Zone”, ma la sua messa in pratica è molto più difficile in Siria che non in Libia. Il generale Martin Dempsey, presidente degli Stati Maggiori Riuniti, ritiene che l’operazione sia militarmente fattibile, ma poco promettente. Il generale è sostanzialmente in disaccordo con McCain, quando il senatore afferma, a proposito della No Fly Zone: “Basta abbatterne uno o due (degli aerei siriani, ndr) perché tutti gli altri restino a terra. Possono anche amare Assad, ma credo che amino di più la loro stessa vita”. Dempsey, più prudentemente, afferma: “Le forze statunitensi hanno la capacità di sconfiggere quel sistema militare, ma sarebbe una sfida più grande, durerebbe più a lungo e richiederebbe più risorse”, rispetto a quella in Libia. Che pure ha richiesto ben otto mesi di raid aerei. “La Siria – prosegue il generale - dispone di difese aeree cinque volte superiori a quelle che erano presenti in Libia. E alcuni dei suoi sistemi possono colpire ad alta quota ed hanno un raggio più ampio”. Più che dalle difficoltà militari, Dempsey ritiene che anche una No Fly Zone possa anche fallire nella sua missione (fermare la repressione). Soprattutto per motivi pratici: il 90% delle vittime siriane è causato da armi di terra, solo il 10% dai bombardamenti aerei. Nel frattempo, arrivano altre notizie dalla Siria, a gettare altra benzina sul fuoco del dibattito. L’Osservatorio sui Diritti Umani siriano ha diffuso la notizia di un nuovo massacro nel villaggio di Al Banya, nei pressi della costa mediterranea, dove sarebbero stati uccisi a sangue freddo almeno 40 uomini (di cui l’Osservatorio ha potuto diffondere i nomi). Con una situazione sul campo sempre più grave e con 70mila morti alle spalle (secondo le stime diffuse dall’Onu) vi sarebbero tutti gli estremi per un intervento umanitario. Ma allora che fare? Sta diventando ufficiale, come da dichiarazione di Hagel, l’ipotesi di un intervento indiretto: mandare armi ai ribelli. L’Esercito di Liberazione Siriano già riceve aiuti militari da Paesi arabi quali il Qatar e l’Arabia Saudita tramite la Giordania, oppure attraverso i confini porosi con il Libano e la Turchia. Gli Usa potrebbero entrare in gioco fornendo armi moderne anti-carro e anti-aeree, che ancora scarseggiano negli arsenali degli insorti. Spedire solo i mezzi non sarebbe sufficiente. Occorrerebbe, come è stato fatto in Libia, inviare anche consiglieri e forze speciali, i primi per addestrare i ribelli all’uso delle nuove armi, le seconde per permetter loro di combattere meglio. Di fatto, gli uomini sul terreno ci sarebbero, anche se meno visibili. In che mani finirebbero quelle armi? L’amministrazione Obama non ha ancora del tutto chiuso lo scandalo dell’operazione “Fast and Furious”: l’Fbi ha perso le tracce di armi introdotte segretamente in Messico in un’operazione contro il traffico di armamenti clandestini. Il Messico è alle porte di casa, non è in guerra ed è molto più facilmente controllabile. In Siria sarebbe molto più difficile verificare che armi da guerra siano usate solo ed esclusivamente da gruppi di insorti prescelti. Potrebbero anche, con gran facilità, essere ottenute, comprate o derubate da gruppi di jihadisti, che stanno proliferando: non c’è solo la già famosa Jabhat al Nusra, ma anche la galassia delle milizie del Fronte Islamico Siriano e una vera e propria “brigata internazionale” di guerriglieri islamisti, attualmente guidata da un gruppo di ceceni. L’idea che un prossimo attentato a Boston o New York possa essere condotto con armi vendute dall’esercito degli Stati Uniti è quantomeno poco allettante. Come si può constatare, qualsiasi tipo di decisione sulla Siria comporta rischi ai limiti dell’inaccettabile. E soprattutto per questo motivo, Barack Obama, per ora, temporeggia. Non ha ancora dato per validi i rapporti di intelligence che documenterebbero l’uso di armi chimiche da parte di Assad. Insiste nell’affermare che occorrano più prove, perché quelle raccolte finora non sono sufficienti. I governi di Israele, Gran Bretagna e Francia (ma soprattutto Israele) sono più convinti che il dittatore di Damasco abbia già passato la “linea rossa”. Tutti guardano a Obama perché prenda una decisione. E che la prenda in fretta.