Riportiamo dal FOGLIO del 01/05/2013, a pag. 3, la recensione del libro La mia testimonianza davanti al mondo di Jan Karski (ed. Adelphi).
Il libro di Karski sarà il prossimo libro raccomandato di informazione corretta. Indispensabile, per avere un quadro completo di quanto avvenne durante la Shoah.
Non le darò istruzioni né le farò raccomandazioni… Dovrà riferire obiettivamente quello che ha visto, raccontare quello che ha vissuto in prima persona”. Con queste parole il governo polacco in esilio incaricò il cattolico Jan Karski di informare gli Alleati di ciò che stava accadendo agli ebrei nel suo paese. La storia di Karski è una storia di mestizia e indifferenza. Questo partigiano cattolico riuscì davvero a portare, persino davanti al presidente americano Roosevelt, il racconto sull’Olocausto in corso, ma la sua denuncia rimase inascoltata. Sposa una donna superstite dello sterminio. Insegna all’Università di Georgetown per quarant’anni, rinunciando a partecipare alle polemiche del Dopoguerra, su quello che i nazisti avevano fatto nei campi di concentramento e su come il mondo avesse impiegato così tanto tempo per accorgersi delle atrocità commesse contro gli ebrei. Di Karski, morto nel 2000 a Washington, si risente parlare solo nel 1985, quando “il testimone” sarà riscoperto e intervistato dal regista francese Claude Lanzmann per il celeberrimo film “Shoah”. Questo suo terribile racconto di quegli anni uscì nel 1944 negli Stati Uniti, ma è una assoluta novità in Italia. C’è la missione più pericolosa, quella in cui “Witold”, questo il suo nome in codice, s’infiltrò nel ghetto di Varsavia per raccogliere i racconti delle deportazioni. Ma venne di peggio. Corruppe una guardia delle forze ucraine collaborazioniste che prestavano servizio nei lager. Karski si procurò un’uniforme ucraina e si infiltrò nel campo di sterminio di Belzec. Lì registrò tutta la catena del genocidio. Compresa una scena infernale: centinaia di ebrei ammassati nei vagoni di un treno, sul cui pavimento è stata messa della calce viva. Un’immagine indelebile nella sua mente. Ma la sua testimonianza non fu sufficiente, e l’Olocausto poté proseguire indisturbato. Il libro ha due grandi sezioni: la prima riguarda il movimento di resistenza polacco, unico nell’Europa occupata, antinazista e anticomunista; la seconda è incentreata sulla tragedia ebraica polacca. Senza tempo resta la sua descrizione del ghetto di Varsavia: “Un cimitero? No, perché quei corpi erano ancora in movimento, in effetti spesso erano violentemente agitati. Erano ancora in vita quelle persone, se si possono definire tali. Perché a parte la loro pelle, gli occhi e la voce non c’era più nulla di umano in quelle figure palpitanti. Ovunque c’era la fame, la miseria, la puzza atroce dei corpi in decomposizione, i pietosi gemiti dei bambini che muoiono, le grida disperate e i rantoli di un popolo che lottava per la vita contro ogni impossibile probabilità”.
La targa in memoria di Jan Karski nel Giardino dei Giusti di Yad Vashem
Jan Karski visse una vita intera nel rimorso, devastato dall’idea di non aver fatto abbastanza. O che, anche se i diplomatici occidentali gli avevano creduto, non avessero voluto fare nulla. Questo, infatti, non è l’ennesimo libro di memorie di una vittima della Shoah. Karski non era ebreo, era un polacco di fervente fede cattolica, colto, poliglotta, che non ancora trentenne si è trovato solo a sopportare un peso difficile da descrivere con le parole. Adesso per fortuna c’è questo suo racconto che spunta da un passato di settant’anni fa. Magnifico, picaresco e grave. Nel 1993, l’American Jewish Committee conferì a Karski il massimo riconoscimento. Nel memorabile discorso di accettazione, lo storico polacco si dichiarò sicuro che non ci sarebbe mai più stato un Olocausto contro gli ebrei e disse che sapeva perché. Si fermò un attimo e concentrò la sua spiegazione in una parola: pronunciò ciascuna delle tre sillabe di “Is-ra-el” come se fossero separate.
In memoria di Jan Karski nel campus della Georgetown University
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