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La Repubblica Rassegna Stampa
29.04.2013 Iraq 10 anni dopo. Missione incompiuta
dopo il ritiro americano il Paese continua a sprofondare

Testata: La Repubblica
Data: 29 aprile 2013
Pagina: 1
Autore: Bernardo Valli
Titolo: «Nella guerra infinita di Bagdad»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 29/04/2013, a pag. 1-29, l'articolo di Bernardo Valli dal titolo "Nella guerra infinita di Bagdad".


Bernardo Valli                 Nouri al Maliki

Come risulta anche dall'articolo di Bernardo Valli, sempre molto critico nei confronti degli Usa, la situazione in Iraq è tutt'altro che risolta.
Il ritiro degli Usa non ha favorito la nascita di una democrazia. Un lavoro va concluso,  non serve a nulla averlo iniziato.


Ecco il pezzo:

BAGDAD -  Doveva essere il viaggio della memoria, rianimata dalle immagini d’oggi, e invece l’asciutta attualità si impone con ventate di violenza. Accade spesso nella civiltà araba delle palme, sulle sponde del Tigri e dell’Eufrate che riuniti si gettano nell’Oceano: assai più rude della civiltà araba dell’ulivo, sulle sponde del Nilo che si getta nel Mediterraneo. Sono venuto a vedere l’Iraq dieci anni dopo l’inizio della guerra americana e mi scopro testimone di una nuova aperta guerra tra iracheni. L’atmosfera si è appesantita negli ultimi giorni. La gente di Bagdad già ferita da un terrorismo cronico, senza nome, indiscriminato, sente che l’ostilità tra sciiti e sunniti, finora episodica anche se sanguinosa, sta assumendo le dimensioni di un vero conflitto. Le espressioni sono più gravi del solito, dice Asseel, la mia guida e amica, che sa leggere sulla faccia dei suoi connazionali. Per lei la città è passata dalla frustrazione all’angoscia. È come se la notizia degli scontri (con 180 e più morti) tra esercito, in larga parte sciita, e milizie sunnite, nel Nord, in prossimità di Kirkuk, a Mossul, e in altre province, avesse annunciato il fallimento dello Stato federale, principale eredità, insieme al progetto democratico anch’esso incerto, lasciata dagli americani. E la gente di Bagdad sa che questo significherebbe la guerra civile. Quella che imperversa nella vicina Siria traboccherebbe in Iraq. Le dimissioni dei ministri sunniti dal governo dominato dagli sciiti sono un serio segnale d’allarme. L’odio etnico, alimentato dalla lotta per il potere, con un sottofondo storico religioso, è contagioso.
L’Iraq post-americano è un terreno in cui si affrontano per procura i paesi limitrofi: sunniti (Arabia Saudita, Turchia, Giordania) e sciiti (Iran). Le poste in gioco, nel confronto mediorientale tra i due islam, sono Damasco e Bagdad, capitali per secoli governate da sunniti, e dove adesso governano fragili poteri sciiti. Ed è un’eresia intollerabile. Da tempo Bagdad ha fatto il callo alle morti violente quotidiane, agli assassinii, alle stragi di cui radio e televisione danno notizie affrettate o neanche ne danno. Il resto del mondo di solito vi presta scarsa attenzione. Il giorno in cui a Boston venivano uccisi tre americani in un attentato, qui un’autobomba uccideva 47 iracheni, nei pressi dell’aeroporto. Non ho dubbi. La prima persona da vedere per riacciuffare il filo del dramma cominciato dieci anni fa, e che non si è mai concluso, perché quel che accade ne è la continuazione, è Ahmed Chalabi. Lo incontro nel tardo pomeriggio a Kadimia, uno dei quartieri più religiosi. La sua residenza è un fortino circondato da un muro in cemento armato. Si socchiude un portone di ferro e ti imbatti in una decina di uomini armati. Ce n’è uno appollaiato su un’alta impalcatura di legno (un “mirador” si diceva in Vietnam), posata al centro di un parco spelacchiato, che spogliato delle palme potrebbe essere una piazza d’armi. Da lassù la vedetta tiene d’occhio l’intero perimetro della muraglia. Qualcuno potrebbe tentare di scavalcarla. Ahmed Chalabi mi fa subito pensare alla volpe furba delle fiabe. Questa è la sua tana dove, annidato, può tessere le sue trame al sicuro ma ormai con scarso successo. È sulla settantina. L’aspetto, lo sguardo, la voce, gli argomenti del suo discorso coincidono con la fama non sempre lusinghiera che accompagna il suo nome a Bagdad, ma anche a Washington e in tante altre capitali. In lui la gentilezza trasuda l’astuzia, e a grandi dosi l’astuzia è indigesta. Ha saputo, o comunque contribuito, a convincere il Pentagono a invadere l’Iraq nel 2003, nonostante le esitazioni del Dipartimento di Stato; avrebbe in sostanza avvalorato i pretesti per promuovere una delle iniziative più discutibili degli Stati Uniti, da quando sono la superpotenza. Le cronache dell’ultimo decennio sostengono che la denuncia delle armi chimiche inesistenti, come dell’altrettanto fantasiosa alleanza tra Saddam Hussein e i terroristi di Al Qaeda, servita alla Casa Bianca per giustificare la guerra, sia stata alimentata anche dall’aristocratico arabo sciita adesso affondato in un divano, al centrodiunsalonecontantiquadriastratti appesi alle pareti come in una galleria d’arte. Nato in una famiglia di proprietari terrieri, in gioventù ha studiato matematica; ha fatto il banchiere (fallito e condannato) in Giordania; è stato un grande oppositore sciita del sunnita Saddam Hussein; e in questa veste un consigliere (finanziato) della Cia; è stato ministro nell’Iraq occupato dagli americani; è stato accusato di essere una spia dell’Iran e lui l’ha smentito. È una biografia sommaria dalla quale si ricava il ritratto di un personaggio in equilibrio tra politica e avventura, tra affari e complotti. Dieci anni dopo l’invasione, della quale è stato uno dei promotori, Ahmed Chalabi non è popolare in Iraq. Non lo è mai stato, neppure quando i giornali occidentali lo immaginavano un successore democratico e pro americano di Saddam Hussein. Adesso è ignorato. Lo vado a stanare e ci riesco senza fatica, perché mi riceve con grande cortesia. Lo scopro tutt’altro che tenero con gli americani. Non hanno lasciato nulla, dice. Considerato a lungo l’uomo degli Stati Uniti, si unisce al coro nazionale, secondo il quale la sola cosa concreta costruita in Iraq dagli invasori partiti poco più di un anno fa è la loro ambasciata, la più grande del mondo, con quattromila persone (si dice) che ci lavorano, e barricata nella Zona Verde, la città nella città, circondata da una grande muraglia. I muri di cemento armato attorno alla residenza o all’ufficio sono un segno di distinzione, proteggono chi ha potere, chi conta, e quindi è un bersaglio preferito per i terroristi. Chalabi esibisce una muraglia di tutto rispetto. Quando lo definisco uno dei promotori dell’invasione americana reagisce. Si offende. Lui non era per la guerra ma contro la dittatura di Saddam Hussein. È severo con chi governa oggi l’Iraq. Per lui il paese, in preda al sanguinoso conflitto tra sciiti e sunniti, è una versione araba dell’Irlanda dove si uccidevano protestanti e cattolici. Denuncia la corruzione che mangia gli introiti del petrolio (di cui l’Iraq è il terzo produttore). Lo Stato è ricco e la gente povera. Un’altra assurdità è che esercito e polizia con un milione di uomini non riescano a garantire la sicurezza. Per questo la gente è frustrata, scontenta, triste. Dieci anni dopo, uno degli attori del dramma iracheno descrive un fallimento. Valeva la pena incontrarlo. Fallimento, è una parola che sento spesso. È come una sentenza, condivisa anche da chi è vicino al governo, o addirittura da chi è al governo. Persino da chi è all’origine, come Chalabi, di quel fallimento. Muoversi a Bagdad èun’impresa che richiede nervi saldi. Pazienza e sangue freddo. Gli iracheni hanno l’una e l’altra. Immersi in un paese che insieme al petrolio produce violenza, ne hanno bisogno per sopravvivere. La loro società merita ammirazione, per il coraggio e la tenacia della gente, e suscita timore, perché non sai quel che ti riserva. In chi la frequenta i due sentimenti si alternano. Un chilometro in automobile può richiedere più di un’ora, a volte fai prima allungando il percorso, prendi un viale periferico, fai dieci, quindici, venti chilometri, invece di uno, ma arrivi più in fretta. Consumi più benzina, ma risparmi i nervi e riduci la paura. Gli ingorghi sono mostruosi. Asseel sostiene che la gente si sfoga guidando l’automobile. Mette la musica al massimo e passa ore al volante. Così cura la collera, la sfiducia e l’apprensione.Ipostidibloccosonospesso la causa della paralisi del traffico. Puoi incontrarne uno ogni due, trecento metri. Le autoblindo non si contano. Ce n’è una anche sotto la mia finestra ed è rassicurante perché è lì per proteggere l’albergo. Ma quando sono appostate lungo il tuo tragitto per controllare se sei un terrorista le guardi con un odio crescente. I soldati hanno ereditato dagli americani i caschi su cui svettano gli occhiali per vederelanotte.Queltoccoyankeedàl’impressione di un esercito supermoderno. Distingue i militari dai poliziotti. Avvalora l’immagine di soldati puri e duri il cui ruolo non si confonde con quello degli sbirri. Ma in un’atmosfera da guerra civile sono pochi quelli che salvano l’anima. Nessuno ignora che i circa diecimila uomini e donne rinchiusi nelle prigioni da anni, spesso senza processo, sono stati arrestati dagli uni e dagli altri, militari e poliziotti, sulla base di semplici sospetti restati tali. Chi esce di casa la mattina e si inoltra nella metropoli di otto milioni è consapevole di correre due rischi: quello di essere arrestato perché sbrigativamente ritenuto un terrorista,oppurediinciampareinun’autobomba, mentre sei paralizzato nel traffico. Durante le recenti elezioni provinciali oltre alle stragi dovute al terrorismo, più di quindici candidati sono stati assassinati nelle loro case. All’ingresso di molti quartieri c’è un granderitrattodiHussein,l’eroesciitacon lunghi capelli e larghi occhi, morto in battaglia a Kerbala più di mille trecento anni fa; e quel (bellissimo) volto del nipote di Maometto è lì a ricordare chi governa a Bagdad. La stessa immagine, in formato più piccolo, la vedi sugli automezzi militari, o ai posti di blocco. La gente sa che un sunnita subisce più controlli di uno sciita. Ma come si distingue uno dall’altro? Lo chiedo a Asseel, e lei mi spiega che gli sciiti hanno spesso la pelle più scura dei sunniti, perché molti sono di origine beduina. Ma lei ha la pelle color latte ed è sciita. «Si, ma sono di Bagdad», e la sua spiegazione sibillina. I nomi sono più rivelatori. Quelli sunniti sono diversi da quelli sciiti. Dall’anno 1171, quando la dinastia dei Fatimidi perse il potere in Egitto, nessun paese arabo era mai stato governato dagli sciiti. In Siria erano già al potere gli alawiti, una setta sciita, ma considerata impura. Con l’invasione americana del 2003 e le elezioni vinte dalla maggioranza sciita l’Iraq ha dunque compiuto una svolta millenaria. Ma il governo con una forte impronta sciita non è riuscito a condividere il potere in modo da soddisfare e rassicurare sunniti e curdi. I primi, i sunniti, non si rassegnano alla perdita della supremazia esercitata per secoli e non tollerano la prepotenza del governo sciita, in particolare del primo ministro Nuri Kamal el Maliki; i secondi, i curdi, vogliono l’indipendenza. Da qui la secessione di fatto del Nord curdo; e il conflitto tra sciiti e sunniti che investe, al centro del Paese, soprattutto la capitale e la vicina provincia di Anbar, dove le due comunità si intrecciano, o una delle due prevale e spadroneggia. Gli scontri armati vicino a Kirkuk e a Mossul, nel Nord, rivelano che il conflitto si estende. La divisione tra sciiti (ossia partigiani di Ali, genero e cugino di Maometto e padre di Hussein) e sunniti (ossia ortodossi) risale agli anni che seguirono la morte del profeta, ed ebbe come prima causa il problema della successione. Ma il conflitto è di natura politica, più che religiosa. Riguarda ilpoterecontesodaduecomunità. Anche se i sunniti integralisti, come quelli di Al Qaeda, considerano gli sciiti infedeli. E gli attentati avvengono spesso nelle moschee o durante le processioni. Sadiqal-Rikabinonesitaaparlaredifallimento del sistema federale lasciato dagli americani. È di conseguenza anche scettico sullariuscitadellademocraziairachena, non troppo rispettosa dello stato di diritto. Sul piano economico, pur riconoscendo qualche miglioramento del livello di vita, denuncia la corruzione che mangia gran parte del reddito del petrolio. Non èindifferentechequestigiudizi,prevalenti nel paese, siano condivisi da un deputato di Dawa, il grande partito sciita al governo, e da un politico molto vicino al primo ministro. Incontro al-Rikabi nella Zona Verde, dove sono rinchiusi, avvolti nel cemento armato, il governo e il Parlamento. Sono già stato nella villetta arredata con i divani solenni, simili a troni, allineati lungo le pareti, di cui sono dotate le abitazioni assegnate dalla pubblica amministrazione alle persone che contano. Ho incontrato altre volte il deputato di Dawa attirato dalla sua ironia, insolita nella società politica irachena. Un’ironia che gli consentiva di esprimersi con spregiudicatezza senza compromettersi. In questa occasione ha dichiarato il fallimento del regime cui appartiene. Senza ironia. Bagdad non è cambiata in questi dieci anni. È la più grigia, meno moderna, più sciupata, delle capitali del petrolio. Eppure per i suoi giacimenti e la sua produzione èunadellepiùricche.Rarissimisonogli edifici costruiti di recente. Non c’è un cinema. Il teatro nazionale non ha soldi. Non c’è un locale notturno, perché la gente si chiude in casa presto. Il terrorismo giustifica lo squallore. Blocca gli investimenti privati. E il solo vero datore di lavoro è lo Stato, che con il reddito del petrolio garantisce salari a milioni di iracheni e al tempo stesso è all’origine di una corruzione che arricchisce chi ha il potere o vive nella sua orbita. Nel vasto quartiere popolare di Sadr city (tre milioni di abitanti) povertà e miseria si contendono il primato. I mendicanti si avventurano nel traffico e appoggiano le mani sui finestrini delle automobili per chiedere l’elemosina. Nel Nord i curdi hanno rinnovato le loro città, moltiplicato alberghi e ospedali, promosso qualche progetto industriale. E anche nel Sud, dove gli sciiti sono la stragrande maggioranza, a Najaf e a Bassora, sono spuntati grattacieli. La capitale, al centro del paese, dove ci sono forti comunità sciite e sunnite, sembra invece un vasto campo di battaglia urbano. Dove non ti aspetti di trovarci tanti poeti. Molti dei quali sono marxisti. Hanno persino un club, dove si riuniscono. È una vecchia associazione di scrittori, sopravvissuta alle guerre, alle repressioni, al terrorismo. La piccola e media borghesia sciita irachena ha alimentato, fino agli anni Sessanta, uno dei più grandi partiti comunisti arabi, insieme a quello siriano. Adesso è politicamente ridotto a poca cosa. «Ma nella cultura noi comunisti siamo ancora forti», mi dice con enfasi l’avvocato Al Fred Saman, responsabile dell’associazione. Ha ottantacinque, dei quali otto passati in carcere. Ha scritto quindici poemi e tre romanzi. Lo incontro nel club che mi sembra una tana, nella città desolata. E mi dice: «L’Iraq d’oggi? Non è quel che sognavo».

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