Al Qaeda sceglie i suoi 'martiri' nei campi profughi palestinesi in Libano Cronaca di Leonardo Piccini
Testata: Libero Data: 26 aprile 2013 Pagina: 14 Autore: Leonardo Piccini Titolo: «Viaggio nel campo profughi dove Al Qaeda recluta martiri»
Riportiamo da LIBERO di oggi, 26/04/2013, a pag. 14, l'articolo di Leonardo Piccini dal titolo " Viaggio nel campo profughi dove Al Qaeda recluta martiri".
Al Qaeda 'Educarli' già da piccoli ?
Posto a ridosso dell’antica città di Sidone, Ain al-Hilweh, è il più grande campo profughi per rifugiati palestinesi e siriani del Libano. È anche uno dei luoghi più poveri e più densamente popolati di tutto il Medioriente. All’interno dei suoi confini non esiste la legge dello Stato libanese, ma solo quella del più forte. Qui ci trovi di tutto: dai miliziani palestinesi di Fatah, alla Brigata dei Martiri di Al- Aqsa, ai terroristi più ricercati da Cia e Mossad. E qui vive da alcuni anni, uno dei responsabili dell’attacco al World Trade Center del ’93, protetto da una cinquantina di guardie del corpo, e da lì operano gruppi salafiti legati ad Al Qaeda, come lo Usbat al-Islam, Jund al-Sham, e Gabhat al- Nusra, da anni attivo sul fronte siriano. Giornalisti e stranieri non entrano facilmente: i servizi libanesi non si assumono quasi mai la responsabilità di autorizzare una visita del campo, a meno che non si tratti di aiuti umanitari, tanto è facile essere rapiti. Per ottenere il permesso ho dovuto attendere il via libera dell’Alto Comando Militare dell’esercito libanese che opera all’interno della Fascia di Sicurezza a Sidone. Check-point, cavalli di frisia, blindati e torrette circondano l’intero perimetro del campo, anche se i militari non si azzarderebbero mai ad avventurarsi lì dentro senza averlo prima raso completamente al suolo, come già è accaduto qualche anno fa, quando le milizie legate ad Al Qaeda attaccarono un posto di blocco delle forze armate libanesi all’ingresso del campo lanciando granate, e si scatenò una rappresaglia durissima che portò alla morte di 222 miliziani, alla cattura di altri 202, mentre 42 civili persero la vita e oltre 30.000 palestinesi rimasero senza tetto per diverse settimane. Oggi in un campo lungo poco più di 1 chilometro, vivono oltre 100.000 persone: un’uni - ca strada conduce al centro di Ain al-Hilweh e si dissolve a destra e a sinistra in una serie di vicoli strettissimi difesi da postazioni in cemento armato, telecamere, bunker e da una quantità impressionante di miliziani armati. Qui comanda il leader del campo, il generale Munir al Maqdah: capo di Fatah, amico di Yasser Arafat, responsabile della seconda Intifada palestinese contro Israele e comandante della Brigata dei Martiri di Al-Aqsa; Munir è ricercato dal Mossad e sulla sua testa pende anche un mandato di cattura libanese. Munir al Maqdah è responsabile della sicurezza interna di Ain al-Hilweh: è costantemente seguito da fedayn armati e fedeli che non lo perdono mai di vista. Si capisce subito che è più a suo agio in uno scontro a fuoco che in una conversazione, ma accetta ugualmente di essere intervistato. Parla in modo molto pacato. Dicono che si sia avvicinato all’Iran e che sia un dissidente all’interno di Fatah: lui non ha mai fatto mistero di aver accettato fondi provenienti da Hezbollah, del resto i suoi fedayn hanno combattuto Israele su più fronti: «i miei uomini hanno lanciato attacchi contro le postazioni israeliane nel Sud del Libano. Nell’aprile del ’96, un elicottero israeliano ha sperato dei missili contro il nostro quartier generale con l’obbiettivo di assassinarmi». Per i servizi segreti americani Maqdah ha finanziato una rete di gruppi islamici legati ad Al Qaeda, come Esbat al-Ansar e nel marzo del 2000, è stato incriminato dal Tribunale per la Sicurezza dello Stato giordano, per aver introdotto armi ed esplosivi che dovevano servire a compiere una serie di attentati terroristici. Oggi invece ci tiene a dare di sé un’immagine diversa, di un generale che dedica tutte le proprie risorse a risolvere i problemi degli ultimi arrivati nel campo, i profughi siriani. Ma il problema principale rimane quello delle divisioni interne ai palestinesi, con una quantità impressionante di gruppi armati pronti a darsi battaglia: «Qui si organizzano continue riunioni per risolvere i problemi dovuti alla presenza di diverse fazioni armate, ma i miei fedayn hanno consolidato la propria presenza in tutto il campo; il mio obiettivo è di evitare il ripetersi di quanto accaduto in passato, perché questo porterebbe alla distruzione di tutti i campi profughi palestinesi presenti in Libano». Maqdah conferma che i giovani palestinesi finiscono nelle file dei movimenti jihadisti più radicali ma aggiunge: «Per evitare ciò, abbiamo fondato associazioni culturali e professionali; abbiamo anche aperto l’ospedale di Al Aqsa, all’interno del campo». I palestinesi sono ancora dei paria in Libano: la mancanza di prospettive economiche e di meccanismi di integrazione nella società libanese rischiano di spingerli diventare jihadisti o kamikaze. «Qui in Libano, un palestinese non può fare il medico o l’avvocato, non può nemmeno possedere beni immobili e non ha accesso alle strutture sanitarie o scolastiche. Siamo costretti a vivere di aiuti e di sussidi internazionali come quelli dell’Alto Commissariato Onu per i Rifugiati». Le condizioni di vita dei siriani presenti nel campo, rappresenta una tragedia che si somma a quella degli 80.000 palestinesi: «Abbiamo creato un comitato per gestire l’afflusso di profughi, ne abbiamo 20.000, in fuga dalla distruzione dei loro villaggi e delle loro città». Hanno bisogno di tutto, spesso sono scappati solo con i vestiti che avevano addosso. «Occorre che la comunità internazionale si mobiliti al più presto, perché si rischia una catastrofe umanitaria », conclude Maqdah.
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