" Boston: terrorismo islamico. L'Occidente non lo sottovaluti "
analisi di Stefano Magni
Dzhokhar e Tamerlan Tsarnaev Stefano Magni
I due fratelli Tamerlan e Dzhokhar Tsarnaev, immigrati regolari ceceni, erano armati fino ai denti. Avevano già materiale sufficiente a compiere altri attentati dopo quello di Boston. Il loro tentativo di fuga ha rivelato che i due fratelli erano stati addestrati militarmente. Oramai è quasi del tutto certo che non abbiano agito da soli: altre 5 persone negli Usa e 2 in Spagna sono state arrestate, sospettate di complicità con l’attacco di Boston. La cellula terroristica di cui facevano parte, stando alle informazioni trapelate alla stampa, potrebbe includere fino a 12 persone.
Tamerlan, la “mente”, il più grande dei due fratelli ceceni, era stato nel Caucaso settentrionale (uno dei santuari del terrorismo jihadista) per sei mesi, prima di tornare negli Usa a organizzare l’attentato. A detta di sua madre, si era fanatizzato negli ultimi anni e stava imponendo anche a sua moglie, una ragazza americana, un comportamento coerente con l’estremismo islamico. Nonostante tutto ciò, nessuno lo aveva notato. Negli Usa, l’Fbi lo aveva interrogato nel 2011, su segnalazione dall’estero (non è chiaro ancora da quale Paese), ma lo aveva rilasciato. Un integralista islamico non è considerato una minaccia. Un uomo che dichiara di odiare gli Usa sta semplicemente esercitando la sua libertà di opinione. Giusto. Ma in base a questi parametri di giudizio, è stato impossibile prevenire l’ attentato di Boston.
Le bombe contro la Maratona della capitale del Massachusetts non sono neppure l’unica trama terrorista in corso. Contemporaneamente, in Canada, Al Qaeda stava organizzando un attentato alla linea ferroviaria Toronto-New York. Poteva essere un altro massacro di innocenti. L’attacco è stato sventato all’ultimo minuto e solo grazie alla soffiata di un imam di Toronto.
Questi eventi sono rivelatori di un’offensiva del terrorismo islamico. E suggeriscono che c’è qualcosa che non funziona nell’antiterrorismo americano. “Per cinque anni abbiamo sentito predicare, principalmente da chi amministrava il potere esecutivo, la necessità di fare cambiamenti fondamentali in questo Paese per cambiare, specialmente nei confronti del mondo islamico, la percezione che quel mondo ha di noi. Ci hanno detto che avremmo dovuto premere il pulsante del ‘reset’. Non abbiamo udito una sola parola da quei gruppi che suggerisse di capire e combattere un’ideologia totalitaria che esiste, almeno, sin dalla nascita dei Fratelli Musulmani, negli anni ’20 del secolo scorso. Questa ideologia vede negli Stati Uniti il suo principale nemico sin dagli anni ’40, quando il suo ideologo principale, Sayyd Qutb visitò il nostro Paese e rimase inorridito per tutto ciò che egli giudicò decadente”. A ricordarlo all’amministrazione Obama è l’ex Procuratore Generale Michael Mukasey, in un suo editoriale pubblicato domenica sul Wall Street Journal. I Democratici non hanno mai cessato di combattere Al Qaeda, in quanto organizzazione, ma hanno smesso da subito di combattere lo jihadismo in quanto ideologia. Obama ha trascurato quei musulmani liberali che vogliono realmente difendere gli Usa. “Fino ad oggi l’amministrazione non ha voluto nemmeno riconoscere che esiste una minaccia ideologica ed ha insistito nel darle un’etichetta priva di senso come ‘estremismo violento’, oppure, nel caso del maggior Nidal Hassan, autore del massacro di Fort Hood (novembre 2009), l’ha definita ‘violenza sul posto di lavoro’ – scrive Zuhdi Jasser, presidente l’associazione Aifd dei musulmani democratici e liberali – L’Aifd chiede, a nome dei musulmani americani, che l’amministrazione Obama, i media e le università sviluppino una strategia coerente per promuovere i valori occidentali di libertà fra i musulmani, sia in Usa che all’estero. E cerchi di sconfiggere la mentalità suprematista dell’Islam politico e la sua continua minaccia alla sicurezza nazionale”.
La paralisi della politica americana contro lo jihadismo ha due radici ben individuabili: una politica e l’altra culturale.
Politicamente, il governo democratico tende a cercare il dialogo più con i radicali che non con i filo-occidentali. L’amministrazione Obama ha così scaricato i laici e i cristiani egiziani, preferendo sostenere i Fratelli Musulmani. In Siria sta fornendo equipaggiamento “non letale” a ribelli che sono sempre più chiaramente egemonizzati dal fronte jihadista. Basti pensare che Al Nusrah, due settimane fa, ha pubblicamente giurato fedeltà alla causa di Al Qaeda. E parte della resistenza al regime di Assad riceve addestramento nei campi gestiti da Hamas. Nel dialogo con l’Islam americano, l’amministrazione statunitense è attenta alle richieste dei gruppi più fondamentalisti. Mentre organizzazioni liberali, come l’Aifd, appunto, sono scientemente ignorate.
Sul piano culturale, i media di sinistra sono la dimostrazione più lampante che “terrorismo islamico” è tornata ad essere una definizione tabù. Subito dopo l’esplosione delle bombe a Boston, sono almeno dodici i grandi commentatori di sinistra, fra cui il noto regista Michael Moore, che hanno subito puntato il dito sulla pista dell’“estremista di destra”, dunque “bianco, cristiano e americano”. Più che di un’analisi, si trattava di una speranza. Significativo era il titolo dell’editoriale della rivista online Salon, all’indomani della strage di Boston: “Speriamo che l’attentatore della Maratona di Boston sia un bianco americano”. Il testo dell’articolo, a firma dell’editorialista David Sirota, puntava il dito sul cosiddetto “privilegio del maschio bianco”, in base al quale un attentato commesso da un bianco non è seguito da una discriminazione dei bianchi, mentre un attentato commesso da un immigrato musulmano è seguito da discriminazioni nei confronti di tutta la religione musulmana, “racial profiling” (controlli più intensi su chi è mediorientale) e guerre nel Medio Oriente. Il saggista che si definisce “anti-razzista” Tim Wise, sempre all’indomani delle bombe a Boston, spiegava: “Privilegio bianco è sapere che se questo terrorista risulterà essere bianco, il governo degli Stati Uniti non bombarderà tutti i luoghi (un campo di grano, una città di montagna o un sobborgo) da cui dice che questo terrorista proviene. E se si scopre che è un membro dell’Ira, non bombarderemo Belfast. E se è un italo-americano cattolico, non bombarderemo il Vaticano”.
Sono argomenti molto rivelatori: la cultura progressista americana spera che il terrorismo islamico non esista, perché teme di doverlo combattere. Ammettere di essere in guerra con un nemico ideologico esterno vuol dire, prima di tutto, stringersi attorno alla propria identità nazionale e occidentale. Ed è proprio questa identità che i progressisti non vogliono riconoscere. Allo stesso tempo, nel voler difendere una minoranza etnica e religiosa, hanno finito per confondere la religione musulmana con l’ideologia islamista. Commettendo, in senso contrario, lo stesso errore dei razzisti. Non rendendo onore a quei musulmani che l’islamismo lo combattono, tutti i giorni. E ne restano vittime, tutti i giorni.