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La Repubblica Rassegna Stampa
18.04.2013 Gilles Kepel continua a illudersi/illuderci sulla 'primavera' araba
intervista di Pietro Del Re

Testata: La Repubblica
Data: 18 aprile 2013
Pagina: 53
Autore: Pietro Del Re
Titolo: «La prossima primavera»

Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 18/04/2013, a pag. 53, l'intervista di Pietro Del Re a Gilles Kepel dal titolo " La prossima primavera ".


Gilles Kepel

Gilles Kepel si era lasciato imbrogliare dalla storia della Primavera araba.
Non potendo negare che è fallita, che ha portato solo all'ascesa di regimi islamisti, nell'intervista cerca, comunque, di convincere i lettori che la Primavera, in realtà, esiste.
Con i Fratelli Musulmani non c'è libertà, ma ci sono anche le proteste in piazza, perciò è solo questione di tempo prima che questi Paesi diventino democrazie. Questa, molto in sintesi, la tesi di Kepel.
Verrebbe da chiedergli, dato che le manifestazioni prima non erano permesse, come sia stato possibile far cadere i dittatori pre- 'primavera'.
Ma la coerenza non è certo la priorità di Kepel per quanto riguarda la descrizione delle rivolte nel mondo arabo.
Ecco l'intervista:

Le primavere arabe hanno smarrito il loroobiettivooriginano, che era l'instaurazione di un regime democratico là dove regnava un tiranno: adesso, in società che sopravvivono grazie alla satanica manna dei petrodollari del Golfo, tutto si risolve nell'antagonismo tra sunniti e sciiti. Lo dice il politologo francese Gilles Kepel, del quale in questi giorni Gallimard pubblica Passion arabe, il suo diario delle rivoluzioni più o meno compiute che, dalla Tunisia all'Egitto e dallo Yemen al Barhein, hanno negli ultimi due anni incendiato il mondo musulmano. Per scrivere questo libro, Kepel ha smesso le vesti del professore universitarioeindossato quelledell'inviato speciale. E questa metamorfosi gli è riuscita alla perfezione, perché come Ryszard Kapuscinski o Bernardo Valli, nelle sue pagine riesce a mischiare il raccontodi coseviste, chesono le immagini e le testimonianze raccolte sul suo taccuino, con la capacità di analisi di chi da quattro decenni studia l'Islam e il mondo arabo.
Professor Kepel, dal resoconto dei suoi viaggi si direbbe che le primavere arabe siano tutte abortite. E che gli ideali di libertà, giustizia sociale e democrazia siano già stati dimenticati. E'così?
«Non proprio. E credo che le espressioni "primavera araba" e "autunno islamista" siano entrambe fuorvianti. In questi Paesi c'è stata una rivoluzionevera, che ha permesso agli arabi di conquistare quella libertà di espressione che gli era stata confiscata dai regimi nati dall'indipendenza. Negli ultimi due anni, quello che ho cercato di fare è stato di penetrare nella carne delle società arabe incontrando chiunque, di ogni ceto o estrazione sociale. A Bengasi, Doha o Aleppo ho parlato con salafiti e laici, ji ha disti e intellettuali, militari e contadini, ministri e miliardari dell'oro nero».
Per giungere a quale conclusione?
«Alla conclusione seguente: che se la prima fase di queste rivolte è stata spesso lacaduta del tiranno, ela seconda l'arrivo al potere degli islamici, oggi, un po' ovunque, questo stesso potere è fortemente contestato. Lo scorso febbraio, dopo l'assassinio di Chokri Belaid, è accaduto in Tunisia, dove decine di migliaia di persone sono scese in piazza. E accade in questi giorni in Egitto, dove i Fratelli musulmani hanno perso carisma e credibilità tra la popolazione perla loro pessima gestione del potere, e dove lagenteharipresoascandiregli slogan di PiazzaTahrir. In questi luoghi, numerosi tabù sono stati infranti. Al Cairo, per esempio, si tengono manifestazioni per i diritti gay e riunioni di chi professa l'ateismo. Ora, entrambe le cose sarebbero state impensabili, ocomunqueviolentemente represse, ai tempi di Mubarak».
Si può allora continuare a sperare?
«SI, perché le rivoluzioni arabe non sono ancora finite. E i loro protagonisti non hanno ancora pronunciato l'ultima parola. Le società civili cominciano a farsi sentire contro l'intransigenza degli islamisti. Oggi si balla ovunque l'Harlem Shake per ridicolizzare i barbuti. In Egittoe in Tunisia, i Fratelli musulmani hannocreduto,sbagliando, chel'ordine morale avrebbe appagato le rivendicazioni sociali dei rivoluzionari. C'è poi il paradosso dei salafiti, che si rivolgono ai delusi della rivolta, promettendo un'utopia radicale e un nuovo ordine sociale. Senza dire per che sono loro stessi devoti a quegli ulema stipendiati dalle monarchie del Golfo, le quali difendono l'immobilismo più totale».
C'è però il caso siriano, coni suoi orrendi massacri che sembrano destinati a durare in eterno. Perché nessuno riesce a risolvere un conflitto così sanguinoso?
«Purtroppo il conflitto siriano va ben oltre la Siria. Questo Paese, che è la chiave di volta del Medio Oriente perché coinvolge sia Israele sia i giganteschi interessi del petrolio, è preso in ostaggio dalle potenze regionali e internazionali. Gli Stati del Golfo finanziano i gruppi salafiti e jihadisti, come il Fronte al Nusra, per uccidere gli alauiti e indebolire l'alleanza sciita capeggiata dall'Iran; gli iraniani, invece, armano e sostengono il sanguinario regime di Bashar al Assad. La Siria, attraversataoggi dalla spaccatura tra sunniti e sciiiti che è diventata la principale contraddizione di quella parte di mondo, è anche il luogo dove s'inabissano le più violente tensioni internazionali».
Sembra proprio che gli emiri delle monarchie del petrolio abbiano sin dall'inizio vissuto le rivolte arabe come il peggiore dei loro incubi. Ma perché si sono impegnati così tanto, spendendo miliardi di dollari?
«Perché hanno immediatamente temuto l'arrivo attraverso il Mar Rosso di masse di diseredati. Perciò hanno reagito annaffiando di soldi, chi i gruppi sala-liti chi i Fratelli musulmani, nella speranza che queste organizzazioni islamiche potessero contenere o imbrigliare le rivoluzioni. II resauditaAbdallah hacacciato di tasca propria 130 miliardi di dollari per prevenire il contagio della rivolta in casa sua. L'Arabia Saudita e il Qatar si sono poi trovati d'accordo su un solo punto, il loro nemico comune:l'Iran.Oggi l'avversione per Teheran supera di molto quella nei confronti di Gerusalemme».
Nel suo libro lei percorre quattordici tappe, equattordici sono le stazioni della Via Crucis. Nel titolo, c'è poi la parola "passione", che potrebbe indurre in errore. Perché?
«Passione perché è ciò che provo per quel mondo, cosl come peri tanti amici, e i pochi nemici arabi, che in tutti questi anni mi hanno accompagnato nei miei viaggi. Ma ho scelto questo titolo anche in senso cristico, per l'enorme sofferenza che in questi anni affligge quei Paesi. Retrospettivamente una rivoluzione pub essere una tappa importante e fondatrice nella storia di una nazione. E quando la vivi puoi trovarci qualcosa di esaltante.Maèsempreun evento atroce. Del resto, il mio diario comincia sul Gol-gota di Gerusalemme e finisce in cima a una montagna della Siria liberata, dove s'è svolta una battaglia particolarmente cruenta, e che chiamo il Monte Calvario».
Le sembra illusorio pensare che un giorno in questi Paesi del mondo arabo possa finalmente nascere una democrazia?
«No, anche se può trattarsi di un parto lungo edifficile. In Tunisia, peresempio, primo Paese dove è scoppiata la rivolta, c'è già una forma di democrazia, sia pure imperfetta. E nonostante le tentazioni totalitari e degli uni o degli altri,c'è libertà di parola e a Tunisi la società si esprime con forza. Altrove, la democrazia nascerà dopo un travaglio doloroso. E questa redenzione democratica fa pensare anch'essa a una forma di passione, nel senso della sofferenza di Cristo».

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