Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 15/04/2013, a pag. 16, l'articolo di Francesca Paci dal titolo "Fayyad contro Abu Mazen, divorzio fra le due Palestine".
Salam Fayyad
Come abbiamo già scritto ieri, (http://www.informazionecorretta.com/main.php?mediaId=6&sez=120&id=48779), il caos che regna nell'Anp è dovuto alla corruzione, alla mancanza di democrazia e alla totale mancanza di volontà nel fare la pace con Israele. La Stampa riprende oggi con il pezzo che segue:
«Fayyad è un brava persona, affidabile, onesto, equilibrato, come palestinese ne sono fiero: sarebbe il premier ideale in un Paese normale ma noi siamo in guerra...» ragionava un mattino piovoso il titolare di un caffe di Gaza City, mentre dal cielo piovevano le bombe dell’operazione israeliana Colonna di nuvola. Sono passati 5 mesi da allora e Salam Fayyad non c’è più: sabato sera, dopo un teso colloquio di 20 minuti, ha consegnato le sue dimissioni a un palesemente ma anche ciecamente sollevato presidente Abu Mazen lasciandosi alle spalle gli uffici della Muqata di Ramallah e 6 anni di lavoro come primo ministro.
«I palestinesi fanno un passo indietro sulla via del dialogo» notano i media statunitensi, che hanno raccontato fino all’ultimo i tentativi della Casa Bianca di colmare la distanza crescente tra l’ex funzionario di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale e la nomenklatura di Fatah a cui non è mai stato organico. Da Gaza Hamas lo liquida senza lacrime come «un doppiogiochista che ha lavorato per proteggere l’occupazione sionista e gli interessi americani». In mezzo, tra pace e guerra, Abu Mazen tace: è lui, confermano fonti interne, a essersi speso per la dipartita del 62enne Fayyad dopo aver mal digerito il recente siluramento del suo ministro delle finanze Nabil Qassis giunto a coronamento di una lunga lista di divergenze sulla politica economica e il conseguente malcontento popolare per le misure anti-crisi.
La parabola del beniamino dell’Occidente, nonché ex ministro delle finanze di Arafat, getta una luce tetra sul futuro palestinese, bloccato tra l’ambizione passatista dei vecchi leader e la disillusione dei giovani senza futuro. Il tecnocrate Fayyad è stato l’artefice di una crescita del Pil certificata quantomeno a livello macroeconomico fino al 2010 (basta andare a Ramallah o Nablus per vedere cantieri, nuovi locali, una borghesia in espansione) ma, nell’impossibilità di trasformare il modello della Cisgiordania in uno stato palestinese comprendente anche Gaza, ha finito per pagare di persona il conto della crisi globale che in tre anni ha fatto precipitare la crescita dall’11% al 5% e ha portato la disoccupazione al 25%.
In tutto il mondo l’economia e la crescita costruiscono speranze ma in Medioriente è la politica a avere il potere di distruggerle. «Per quanto tempo i donatori ci dovranno mantenere? Hanno ragione a dubitare» affermava il neo premier Fayyad in un’intervista del 2007 a «La Stampa» ammettendo che l’occupazione israeliana non fosse l’unica ragione dello stallo palestinese. Fayyad ha lavorato contro la corruzione tagliando quel settore pubblico fucina di clientelismo, ma non ha saputo far sognare i palestinesi che si sentono «in guerra». Al suo successore (il capo del Palestine Investment Fund Mohammad Mustafa? Il preside dell’università di Nablus Rami al-Hamdallah?) tocca un’eredità pesante: deve essere abile in finanza, credibile per la riconciliazione palestinese, affidabile all’estero e capace di indicare una vision dribblando gli ostacoli della politica.
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