Se anche il matrimonio gay diventa un appiglio per attaccare Israele ci riesce Michele Monni sull'Espresso
Testata: L'Espresso Data: 12 aprile 2013 Pagina: 82 Autore: Michele Monni Titolo: «Shlomo e Mohammed sposi»
Riportiamo dall'ESPRESSO di oggi, 12/04/2013, a pag. 82, l'articolo di Michele Monni dal titolo " Shlomo e Mohammed sposi ".
L'articolo racconta la vicenda di Shlomo e Mohammed, due omosessuali che si sono conosciuti su internet e sposati un paio di mesi fa in Sudafrica. Si potrebbe pensare, ad una prima lettura, che il pezzo voglia richiamare l'attenzione sul fatto che in Israele, come in molti altri Stati del pianeta, il matrimonio gay non sia riconosciuto nonostante il dibattito sia ben aperto, e dove moltisssimi diritti sono già diventati realtà, come l'adozione di bambini da parte di gay, in coppia o singoli. Il taglio scelto, però, non è tanto a favore dei diritti delle coppie omosessuali, quanto contro Israele. Leggendo l'articolo sembra che in Israele non ci siano diritti per i gay, che vengano disprezzati dalla società. Tutto ciò è falso. E' chiaro che la situazione descritta è delicata, ma non per l'omosessualità dei due protagonisti. Le difficoltà nascono dal fatto che, mentre in Cisgiordania Shlomo non potrebbe mai vivere perché è israeliano ed ebreo, per poter permettere a Mohammed di stare in Israele, sono necessari dei controlli dovuti agli attentati terroristici palestinesi che ci sono stati in passato e che potrebbero ripetersi. E' un problema di sicurezza. Monni, però, preferisce descrivere Israele come uno Stato vessatorio e omofobo, riportando le presunte dichiarazioni di poliziotti israeliani contro Mohammed al momento del suo ritorno in Cisgiordania. Israele è uno Stato gay-friendly, questo è universalmente noto. Com'è, invece, la situazione in Cisgiordania? Monni non menziona le torture e le persecuzioni contro gli omosessuali palestinesi, costretti a fuggire e, spesso, a rifugiarsi in Israele. Ultima precisazione: non era l'Haganah a praticare la violenza contro gli inglesi, ma erano altri gruppi . Evidentemente Monni non conosce la storia del Medio Oriente e scrive a vanvera, così come conosce molto male la situazione gay in Israele e nei Paesi arabi. Ecco quello che ha scritto: "Uno è cresciuto a pane e sionismo, col nonno militante nel gruppo paramilitare ebraico “Haganah”, noto per la violenza delle azioni contro britannici prima e palestinesi poi, durante la creazione dello Stato ebraico". Ecco l'articolo:
Lui si chiama Shlomo e lui si chiama Mohammed. Due mesi fa sono diventati marito e marito. Il problema sta nel fatto che uno è palestinese e l’altro è israeliano. Non solo. Uno è cresciuto a pane e sionismo, col nonno militante nel gruppo paramilitare ebraico “Haganah”, noto per la violenza delle azioni contro britannici prima e palestinesi poi, durante la creazione dello Stato ebraico; l’altro viene da Jenin, città nel nord della Cisgiordania, famosa per essere un bastione del conservatorismo islamico palestinese nonché una delle roccaforti di Hamas nei Territori. «Ci siamo conosciuti un anno e mezzo fa su una gay-chat», dice un raggiante Mohammed, 26 anni, mentre stringe la mano di Shlomo, 29 anni, seduto sulla terrazza di un appartamento nel centro di Ramallah dove li abbiamo incontrati. «Sai come vanno queste cose, incominci a raccontare un po’ di te, che lavoro fai, cosa ti piace... shuai shuai (piano piano, ndr)». Naturalmente all’inizio, confidano i due, la diffidenza era reciproca, ma a poco a poco, liberatisi dal tarlo della propaganda, hanno incominciato a esprimere le proprie emozioni. Haram! (Proibito!) Direbbe qualcuno a Ramallah. Havar! Ribadirebbe qualcun altro a Tel Aviv. In questo angolo di mondo, una storia come quella di Shlomo e Mohammed è ancora considerata blasfema. Non solo perché si tratta di due uomini ma perché l’uno per l’altro, nella propaganda dei rispettivi campi, sono il «nemico». E se, in mezzo alle rivendicazioni di fanatici da entrambi i fronti, qualcuno sceglie l’incontro, o meglio, un incontro in mezzo a uno scontro desta dei sospetti che sfociano nella riprovazione e addirittura nella violenza. Come dimostra questa storia che i protagonisti hanno deciso di raccontare per la prima volta. «Non dimenticherò mai il giorno in cui finalmente ci siamo incontrati, il nostro primo appuntamento fu un totale disastro », attacca Mohammed. «Non essere così tragico», cerca di minimizzare Shlomo: «Poteva andare peggio». Dopo quasi un anno di video-chat i due decidono di vedersi. Essendo residente in Cisgiordania, Mohammed non può recarsi in Israele e nemmeno a Gerusalemme (i Territori sono sotto occupazione dal 1967, quasi 46 anni). Per farlo, deve richiedere il nulla osta al ministero dell’Interno israeliano e dimostrare, nel suo caso grazie alla complicità di un medico palestinese, di aver bisogno di una visita medica specialistica impossibile da ottenere nei Territori. Avuto il permesso, Mohammed e Shlomo si incontrano al di là del check-point di Kalandia, principale punto di transito tra Gerusalemme e la Cisgiordania. Racconta Shlomo: «Appena ci siamo visti ci siamo abbracciati e abbiamo pianto senza dire una parola. La situazione era veramente surreale. Tutto intorno a noi un viavai di macchine strombazzanti e a poca distanza i soldati dell’esercito israeliano che ci osservavano annoiati». E poi via: una corsa in macchina con lo stereo a palla verso Gerusalemme, dove Mohammed non andava da più di dieci anni a causa delle restrizioni imposte da Israele ai cittadini palestinesi dopo la seconda Intifada. Ma l’eccitazione e la gioia del primo incontro durano poco. Mentre Shlomo e Mohammed passeggiano come qualsiasi altra coppia per i vicoli della Città Vecchia, vengono notati da un gruppo di poliziotti israeliani vicino alla Porta di Jaffa, uno degli ingressi principali. I poliziotti li fermano e li tempestano di domande. Shlomo è israeliano e cerca di far leva su questo per convincere gli agenti che non c’è da preoccuparsi, sono solo due amici che si fanno una passeggiata. Gli agenti richiedono a Mohammed di fornire le proprie generalità e lui mostra il documento di identificazione “verde” (quello rilasciato da Israele ai cittadini palestinesi dei Territori) e il nulla osta del ministero che gli permette di entrare in Israele. La polizia contesta a Mohammed che il permesso è valido solo per il tragitto dai Territori all’ospedale e non lo autorizza a muoversi liberamente a Gerusalemme. In pochi minuti i due si ritrovano ammanettati e scortati alla stazione di polizia situata all’ingresso di via Saladino. I due giovani sono interrogati separatamente per diverse ore e la macchina di Shlomo perquisita da cima a fondo. La polizia ci mette poco a capire che i due sono una coppia ed entrambi vengono insultati, dileggiati e minacciati. Niente botte ma un’estrema violenza psicologica. Soprattutto contro Shlomo. «Sei una vergogna per Israele», mi dicevano, «non solo perché sei una checca ma perché ti fai scopare da uno sporco arabo». I pensieri di Shlomo sono però tutti per Mohammed, nella stanza a fianco: sa che per lui le cose sono molto più complicate. «Non ho mai avuto così tanta paura in vita mia, nemmeno quando vivevo nel campo profughi di Jenin, durante la seconda Intifada, e l’Idf (esercito israeliano, ndr) faceva almeno un raid al giorno», confessa Mohammed. Il quale non teme le conseguenze con la polizia israeliana, ma quello che potrebbe succedergli una volta segnalato il suo “immorale caso” alla polizia dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il rischio per lui non è solo quello di una “lezione” da parte delle forze dell’ordine palestinesi. Qualcuno della sua famiglia, sapendo della sua omosessualità e della sua relazione con un “yehudi” (ebreo), potrebbe decidere di lavare con il sangue (quello di Mohammed) l’onta arrecata al buon nome della famiglia. Il delitto d’onore nei Territori, soprattutto verso le donne, è ancora oggi una piaga che si fatica ad arginare. Dopo cinque ore di interrogatorio, la coppia viene rilasciata: Mohammed scortato alla porta di Damasco, dove si trova la stazione degli autobus per tornare a casa. «Se rimetti piede in Israele, ti tagliamo le palle e le spediamo a Jenin», sono state le parole di commiato rivolte da un poliziotto israeliano. Un paio di settimane dopo Mohammed riceve un’informativa che lo “invita” a recarsi presso la stazione di polizia di Ramallah. Gli viene chiesto di fornire i nomi degli attivisti (palestinesi, israeliani e internazionali) che ogni settimana manifestano contro l’occupazione in svariati villaggi della Cisgiordania. Alla polizia palestinese non interessano i nomi degli attivisti, ma queste informazioni assumono un valore di scambio con Israele che invece vuole conoscere i nomi e le attività dei dissidenti, interni ed esterni. La collaborazione sul fronte della sicurezza interna tra l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele è stata sancita dagli accordi di Oslo (1993), con la creazione dei District Coordination Offices (Dco), strutture attraverso le quali l’esercito israeliano e la polizia palestinese condividono informazioni di intelligence. «Gli dissi che ero pronto a collaborare e li implorai di non dire niente alla mia famiglia: che altro potevo fare?». In realtà Mohammed sostiene di essere riuscito a restare sul vago, a non fare nomi anche se «le pressioni della polizia si sono fatte sempre più intense». Un passo indietro. Dopo l’arresto, i due sono entrambi scossi e telefonicamente, pochi minuti dopo il rilascio, decidono di darsi appuntamento alla “Jerusalem Open House Pride and Tolerance”, un’organizzazione israeliana che promuove i diritti di gay, lesbiche, transgender e bisessuali fondata nel 1997. Qui parlano dell’accaduto, si fanno forza a vicenda supportati dagli operatori del centro e decidono di sposarsi e lasciare i loro Paesi. Ma come fare? E dove andare? «Eravamo distrutti», spiega Mohammed, «non solo per gli abusi subiti, ma perché non riuscivamo a vedere nessuna via d’uscita». Israele riconosce i diritti delle coppie di fatto e in alcuni casi riconosce le coppie di coniugi gay sposate all’estero. Ma Shlomo e Mohammed non hanno alcuna speranza nemmeno di rivendicare questi diritti o ottenere un’unione civile. Le unioni eterosessuali tra palestinesi, arabo-israeliani ed ebrei israeliani sono consentite, con la perversa postilla che proibisce però al residente dei Territori di trasferirsi nello Stato ebraico e riunirsi con il coniuge. Nel caso invece il cittadino/a israeliano (arabo o ebreo) decida di trasferirsi nei territori palestinesi, si vede togliere una serie di diritti - dall’educazione alla salute - che Israele fornisce ai propri cittadini. Nei Territori, per quanto i rapporti omosessuali siano un fenomeno più diffuso di quanto lo stereotipo di società conservatrice potrebbe lasciar intendere, l’argomento rimane ancora tabù. Molto più facile essere omosessuale in Israele, anche se Shlomo avverte: «Non lasciatevi ingannare dal fatto che a Tel Aviv si fa il Gay Pride ogni anno. Tel Aviv è una “riserva” che non rappresenta la società israeliana, è l’immagine che Israele vuole dare di sé all’estero». Shlomo possiede oltre al passaporto israeliano quello canadese, ma il suo legale gli sconsiglia di cercare rifugio nello Stato nordamericano, una delle prime nazioni a riconoscere le unioni delle coppie gay, con un semplice visto di soggiorno. L’unica scelta possibile sembra essere il Sudafrica. La “nazione-arcobaleno” riconosce i matrimoni e i diritti delle coppie gay. Così la coppia, a quattro mesi dal primo incontro e dopo essersi frequentata saltuariamente, prenota due biglietti separati da Amman (Giordania) per Città del Capo via Dubai. Mohammed informa le autorità israeliane che si recherà nel regno hashemita per visitare i parenti (la madre è giordana). Shlomo prenota un volo da Tel Aviv per la capitale giordana come turista, dichiarando di voler visitare Petra. Durante i preparativi della “fuitina” i due continuano a vedersi a Ramallah. Shlomo viaggia di notte e sceglie solo i check-point meno rigidi, specialmente quelli utilizzati dai coloni israeliani pendolari tra i territori occupati e Israele: «Il problema per un israeliano non è entrare in Cisgiordania ma uscirne. La mia tattica è semplice: quando arrivo al check-point mi butto una kippah sulla testa, sintonizzo la radio sulle frequenze di qualche trasmissione religiosa ebraica e quando abbasso il finestrino per presentarmi ai soldati basta un semplice “shalom” ed il gioco è fatto». Due mesi fa la coppia convola a nozze nella capitale sudafricana. Per la prima volta possono vivere la sessualità in modo libero. «A dire la verità, per i primi due giorni non sono stato a mio agio», confida Mohammed. «Non ero abituato a passeggiare mano nella mano col mio ragazzo e a scambiarci tenerezze in libertà. Continuavo a guardarmi intorno con la paura di incontrare qualcuno che potesse riconoscermi... in Sudafrica!». «Il solito paranoico », lo interrompe sarcasticamente Shlomo. E Mohammed di rimando: «Che cosa volete che ne sappia Shlomo di come si viva circondati da muri, check-point e con la paura di essere arrestati senza motivo, lui vive a Tel Aviv, dove la paura più grande è non riuscire a trovare parcheggio». I due sono ormai marito e marito, almeno per quei Paesi che riconoscono i matrimoni omosessuali. Shlomo ha un buon lavoro, è un developing manager per un’importante compagnia che si occupa di marketing on line a Tel Aviv e per vedere il compagno continua ad attraversare il confine con gli espedienti che abbiamo visto. Mohammed sbarca il lunario con impieghi a tempo determinato che la sua laurea in economia e commercio gli permette di fare. La sua famiglia non sa nulla del suo orientamento sessuale, tantomeno del matrimonio, «e spero non lo sappia mai». Un segreto custodito anche a Ramallah dove abita. Sono in attesa che Shlomo trovi lavoro in Europa, magari in un paese del Nord «dove i diritti delle coppie omosessuali indipendentemente dall’etnia siano garantiti dalla legge».Mentre ci congediamo il cielo di Ramallah si illumina dei fuochi d’artificio: l’ennesimo matrimonio palestinese.«Li vedi?», dice Mohammed un po’ stizzito a Shlomo, «noi i fuochi d’artificio mica li abbiamo avuti al nostro matrimonio». «Habibi (tesoro, ndr)», risponde Shlomo, «noi abbiamo avuto qualcosa di meglio di un po’ di luci colorate: per una settimana, in Sudafrica, ci siamo presi indietro la nostra libertà».
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