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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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Andrea Morpurgo, Il cimitero ebraico in Italia 08/04/2013

II cimitero ebraico in Italia.                                      Andrea Morpurgo
Storia e architettura di uno spazio identitario  
Quodlibet                                                                       Euro 25

Con la libertà di parola del romanziere, Giorgio Bassani aveva già detto molto, quasi tutto. Nel 1962, immaginando la tomba ferrarese dei Finzi-Contini, aveva detto le manie di grandezza funeraria che colsero gli ebrei italiani all'indomani dell'Unità, nel tempo felice seguìto all'Emancipazione: «La tomba era grande, massiccia, davvero imponente: una specie di tempio tra l'antico e l'orientale, come se ne vedeva nelle scenografie dell'Aida e del Nabucco in voga nei nostri teatri d'opera fino a pochi anni fa». «Ne era venuto fuori un incredibile pasticcio in cui confluivano gli echi architettonici del mausoleo di Teodorico di Ravenna, dei templi egizi di Luxor, del barocco romano, e persino, come palesavano le tozze colonne del peristilio, della Grecia arcaica di Cnosso». Bassani aveva detto, anche, il degrado sorprendentemente rapido di cappelle come quella dei Finzi-Contini, un degrado risalente già al primo dopoguerra: precedente la rovina delle famiglie israelite dopo le leggi razziali del 1938 e l'occupazione tedesca del 1943, precedente la distruzione degli ebrei di Ferrara come d'Italia e d'Europa. «Mezzo affondata nel verde selvatico, con le superfici dei suoi marmi policromi, in origine lisce e brillanti, rese opache dai bigi accumuli di polvere, menomata nel tetto e nei gradini esterni da solleoni e gelate, già allora essa appariva trasformata in quell'alcunché di ricco e di meraviglioso in cui si tramuta qualunque oggetto rimasto a lungo sommerso». Bassani aveva detto, insomma, il fascino rapinoso del cimitero ebraico in Italia: un frutto maturato e marcito nel breve volgere dei decenni che separarono le illusioni di Vittorio Veneto dalle promesse di Porta Pia. Sulla breve stagione durante la quale il cimitero ebraico poté liberamente svilupparsi in Italia come spazio identitario, l'architetto Andrea Morpurgo ha adesso scritto un libro che può valere da prima ricognizione storica. Una sistemazione della materia in ordine cronologico, e un inventario ragionato dei luoghi. Con tutto un apparato iconografico di planimetrie, stampe, fotografie d'insieme e di dettaglio, e con dovizia di rimandi archivistici e indicazioni bibliografiche. Prima dell'Emancipazione, la storia delle sepolture ebraiche in Italia corrisponde - naturalmente - a una storia di discriminazione. Le autorità municipali dei borghi o delle città dove si erano stabilite comunità ebraiche non autorizzavano la «sepoltura dei giudei» altro che extra muros, fuori porta. Ai cristiani lo spazio consacrato delle chiese o dei camposanti intra muros, agli ebrei zone di inumazione suburbane, niente più che un «Prato», un «Campo», un «Orto» (o anche, spregiativamente, un «Campaccio», un «Ortaccio»). E la raccomandazione fatta spesso agli ebrei di organizzare i loro funerali di notte, senza «publiche cerimonie, ne cantare, ne portar lumi»: così da sottrarsi, con il favore delle tenebre, alle altrettanto frequenti molestie dei cristiani. Dopo l'Unità, la fine delle interdizioni israelitiche dischiude anche agli ebrei la gran porta ottocentesca delle moderne necropoli costruite fuori le mura, monumentali città dei morti. In diversi casi, viene consentito alle comunità di aprire un «Reparto israelitico» annesso al nuovo cimitero cattolico: così a Torino, Milano, Genova, Bologna, Roma. In altri casi, si permette alle comunità ebraiche la ristrutturazione di antichi cimiteri autonomi o la costruzione di nuovi: così a Venezia, Trieste, Ferrara, Livorno, Firenze, Ancona, e in una varietà di centri minori dal Piemonte all'Umbria. È il mezzo secolo d'oro degli ebrei d'Italia, quello che va dall'Unità alla Belle Époque. E che non per caso coincide con l'epoca di costruzione delle maggiori sinagoghe. In sinagoga come al cimitero, gli ebrei cercano di esprimersi attraverso un'estetica che sia loro propria: ma non per questo la trovano. «Uno stile veramente "Giudaico" che io sappia non esiste» deve riconoscere allora il più dotato e il più quotato degli architetti italiani di origine israelita, il vercellese MarcoTreves. Nelle architetture delle sinagoghe come in quelle delle tombe, lo stile giudaico del mezzo secolo d'oro somiglierà fin troppo all'«incredibile pasticcio» descritto da Giorgio Bassani dopo mezzo secolo ancora con riferimento alla cappella di famiglia dei Finzi-Contini: sarà un'eclettica miscela di elementi as-siri ed egizi, di reminescenze o allusioni *** greche, di citazioni del gusto moresco. Più chiare e distinte, in compenso, appariranno le forme della sepoltura secondo la tradizione dei defunti, ashkenazita o sefardita: steli verticali per gli uni, lastre orizzontali per gli altri. E ricorrenti, nella trasparenza simbolica del loro significato, si faranno le presenze funerarie di Magèn David e Menorah, la stella a sei punte e il candelabro a sette braccia. Nel mezzo secolo d'oro degli ebrei d'Italia, le loro tombe raccontano la storia di una borghesia che, al pari di certa borghesia dei gentili, ama immaginarsi come nobiltà. È quanto Primo Levi, scrivendo del cimitero ebraico di Venezia, avrebbe poi definito «il tratto più curioso di queste tombe»: l'invenzione di uno stemma di famiglia, la strana corsa verso l'araldica di dinastie israelite che erano ben lungi dall'avere ricevuto - all'epoca dei ghetti - l'una o l'altra patente nobiliare. Lo stemma degli Abravanel, lo stemma dei Cabib, lo stemma dei Cohen, lo stemma degli Jona... «Oltre a tutto», noterà Levi, i blasoni rappresentavano «uno strappo al divieto biblico, "non ti farai immagini" (bisogna pure seguire i tempi, e il prestigio sociale è qualcosa)». Ancora Primo Levi, con il suo sguardo tanto acuto e la sua lingua tanto parlante: «Ma entro il contorno e gli svolazzi dello stemma si vedono simboli ebraici: il grappolo d'uva, le mani benedicenti dei Kohanim, la brocca dei Leviti, lo stilo degli scribi; o raffigurazioni tratte dal nome ebraico del defunto: il leone, il cervo, l'aquila, la colomba. In un unico contesto, in pochi palmi di pietra corrosa dal tempo, vediamo congiunta la fedeltà alla tradizione con il consenso alla vita: e del resto, nella Lingua Sacra, il cimitero è Bet-Hayyim, la Casa della Vita».

Sergio Luzzatto
Il Sole 24 Ore


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