Sul FOGLIO di oggi, 06/04/2013, a pag. IV, con il titolo " Le croci di Hannah", Giulio Meotti ripercorre la vita di Hannah Arendt.
L'opinione di IC nel link sottostante:
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Hannah Arendt Giulio Meotti
Erano gli inizi degli anni Sessanta quando Lionel Trilling, il critico della Columbia University, famoso e temuto, parlò di “invasione dei Norman”, riferendosi a Norman Brown, Norman Mailer e Norman Podhoretz. Sul primo, la previsione di Trilling si rivelò azzardata, ma per gli altri due non c’è stata polemica politica e culturale negli ultimi trent’anni che non li abbia visti in prima fila, Mailer da radical oltranzista, Podhoretz da direttore di Commentary, la rivista baluardo, liberal e anticomunista a un tempo, dell’ebraismo americano. Ed entrambi sempre da grandi amici di Hannah Arendt, l’autrice del classico “Le origini del totalitarismo” che aveva fatto l’esperienza della persecuzione, del campo di internamento, della fuga e dell’esilio, prima a Parigi poi a New York, dove visse la condizione di apolide e soffrì, nel Nuovo mondo, la lontananza da una patria di cui continuò ad amare la lingua e la cultura. Podhoretz e Mailer facevano parte della “Famiglia”, come lo stesso Podhoretz definirà sarcastico quel circolo intellettuale tutto newyorchese che faceva capo alla Partisan Review e a Commentary e in cui figuravano fra gli altri, oltre alla Arendt, la commediografa Lilian Hellman e il poeta beat Allen Ginsberg. Norman Podhoretz e Hannah Arendt divennero grandi amici, fino a quando però quest’ultima pubblicò “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, il suo libro più celebre e discusso sul processo al gerarca nazista che si tenne nello stato d’Israele. Tre le tesi forti del libro: Adolf Eichmann era un grigio burocrate e non un antisemita, ma il prototipo del funzionario totalitario che perse di vista la morale (“uomini come lui ce n’erano tanti e questi tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano e sono tuttora terribilmente normali”); i consigli ebraici collaborarono alla distruzione del proprio popolo (Arendt li chiama “pusillanimi della politica genocidaria”) e Israele non ha il diritto di processare l’architetto della “Soluzione Finale”. “Quando uscì ‘Eichmann a Gerusalemme’ scrissi un lungo saggio con cui ruppi con Hannah, dal titolo ‘Uno studio sulla perversità della brillantezza’”, racconta Norman Podhoretz al Foglio. “Hannah aveva usato la sua grande agilità intellettuale al servizio di un’interpretazione perversa dell’Olocausto. Nella sua versione della storia, gli ebrei da vittime impotenti diventavano collaboratori della propria eliminazione e Eichmann, uno dei più zelanti assassini, che aveva detto che sarebbe andato nella tomba da uomo felice per aver ucciso milioni di ebrei, non era neppure antisemita. Al posto del mostro nazista, Arendt ci ha dato il nazista ‘banale’; al posto dell’ebreo martire ci ha dato l’ebreo complice; e al posto del confronto fra colpa e innocenza ci ha dato la ‘collaborazione’ fra criminale e vittima. ‘Eichmann a Gerusalemme’ è una perversione intellettuale che nacque dalla ricerca di una mente brillante infatuata del proprio stesso talento”. La “Famiglia”, che unì Podhoretz e Arendt, e la rottura che seguì alla pubblicazione di quel libro sono adesso al centro dell’agiografia cinematografica di Margarethe von Trotta, che alla Arendt ha dedicato la sua ultima pellicola. Il nome di Hannah Arendt è entrato a far parte del canone occidentale. Secondo Richard Cohen, infatti, “nessun libro sull’Olocausto o su qualsiasi altro tema ebraico ha mai lontanamente richiamato il tipo di interesse suscitato dalla ‘Banalità del male’”. Molti di quelli che lessero sul New Yorker la serie di articoli scritti da Gerusalemme dissero che la Arendt era una donna “senz’anima”, priva di quella qualità che Gershom Scholem definì Herzenstakt, “simpatia umana”. Claude Lanzmann, l’autore del monumentale film “Shoah”, l’ha accusata di “mancanza di compassione, arroganza e miopia”. Il film di Margarethe von Trotta cerca di ristabilire questa empatia a onore di una delle più celebri e discusse intellettuali del Novecento (in Germania è uscito anche un libro sulla Arendt e “le sue idee che cambiarono il mondo”). Due anni fa lo storico Bernard Wasserstein, docente in quella Chicago che è stata la palestra intellettuale americana per eccellenza ed esperto di storia ebraica e israeliana, ha aperto le danze delle critiche d’establishment alla Arendt, affidando al Times Literary Supplement un atto d’accusa senza pari, sin dal titolo: “Incolpare le vittime”. Il noto storico afferma che la Arendt non merita l’adulazione postuma di cui è stata oggetto, che la sua opera non resiste alla prova del tempo e che ha un complesso rapporto di odio e amore con il popolo ebraico. Bettina Stangneth ha poi pubblicato nel 2011 una biografia del gerarca nazista, “Eichmann prima di Gerusalemme” (con riferimento evidente al libro della Arendt), che confuta le tesi della celebre pensatrice. Il film della Von Trotta si apre su un rapimento. Siamo a Buenos Aires, 1960, in una desolata strada di campagna. Una macchina arriva veloce, si accosta a un passante e lo rapisce. L’uomo è Adolf Eichmann, l’ufficiale delle SS responsabile dell’apparato logistico del sistema nazista dei campi di sterminio. Il film racconta l’amicizia con Mary McCarthy, cattolica di buona famiglia, educata al Sacro Cuore di Seattle e al prestigioso Vassar College, futuro epicentro dei suoi racconti autobiografici. Quando incontrò la Arendt, al Murray Hill Bar di Manhattan nel 1944, rimase subito conquistata dalla “vitalità elettrizzante” di quella bella europea dagli occhi stellati. Il film accenna soltanto alla relazione con il filosofo filonazista Martin Heidegger (“Hannah e Martin”, o per citare i “Kosenamen” con cui si chiamavano tra di loro, “il pirata” e la “maliziosa ninfa silvestre”). Perché il film si concentra sul periodo che va dal 1960 al 1964, il processo Eichmann e il libro. La critica più spietata ad Hannah Arendt non arrivò comunque dagli storici, ma da Saul Bellow, che nel suo “Pianeta di Mr. Sammler” confutò le sue tesi attraverso le parole del protagonista del romanzo, un sopravvissuto di nome Sammler. “L’idea di far sembrare il grande crimine del secolo come qualcosa di poco interessante è banale”. E con una allusione ben mirata il signor Sammler osserva che “tutti (salvo certe bas-bleu) sanno che cos’è l’assassinio”. Tanti autorevolissimi studiosi hanno distrutto la tesi di Hannah Arendt. Come il grande esperto di mistica ebraica Gershom Scholem, secondo il quale la banalità del male non era altro che “uno slogan” e che ruppe pubblicamente con l’amica Hannah: “Trovo demagogico come tratti il modo in cui gli ebrei reagirono in quelle circostanze estreme”. Scholem accusò l’autrice anche di mancanza di “ahavat Yisrael”, “amore del popolo ebraico”. Un anno fa un’altra nota storica americana, Deborah Lipstadt, resa celebre per aver smascherato le “ricerche” dello storico negazionista David Irving, ha demolito la Arendt in un nuovo libro, “The Eichmann Trial”, edito da Schocken, la stessa casa editrice che all’epoca pubblicò la Arendt e che in Israele possiede il quotidiano di sinistra Haaretz. In copertina del libro c’è l’icona della Arendt, intellettuale pensosa con la sigaretta sempre accesa. “Per la Arendt, Eichmann era un uomo ordinario e ogni altro uomo ordinario avrebbe potuto fare ciò che ha fatto. E’ una lettura perversa della natura umana”, scrive Lipstadt, che non usa mezzi termini sulla Arendt neppure dal punto di vista personale: “flippant” (frivola) e “cruel” (crudele). La storica americana condanna anche il ruolo che ebbe nel ridare una verginità a Martin Heidegger, il filosofo tedesco che aderì al nazionalsocialismo e di cui Hannah era stata amante: “Lo ha aiutato nella carriera dopo la guerra minimizzando la sua affiliazione nazista”. Secondo Lipstadt, la minimizzazione dell’antisemitismo da parte della Arendt, che è servita alla cultura secolarista per trasformare Eichmann nel simbolo universale del totalitarismo, nasceva dalla biografia stessa dell’autrice: “A casa sua la parola ‘ebreo’ non veniva mai pronunciata. Accusò i sionisti di parlare il linguaggio di Eichmann”. La Arendt alla fin fine così si dimostrava aperta alla tesi della difesa di Eichmann: “Ho solo obbedito agli ordini, sono stato solo un dente di un ingranaggio, non sono mai stato antisemita”, senza attribuire la giusta importanza né allo svelamento inedito dei testimoni, né alla personale convinzione ideologica nazista che aveva spinto lui come milioni d’altri “volenterosi il signor Sammler osserva che “tutti (salvo certe bas-bleu) sanno che cos’è l’assassinio”. Tanti autorevolissimi studiosi hanno distrutto la tesi di Hannah Arendt. Come il grande esperto di mistica ebraica Gershom Scholem, secondo il quale la banalità del male non era altro che “uno slogan” e che ruppe pubblicamente con l’amica Hannah: “Trovo demagogico come tratti il modo in cui gli ebrei reagirono in quelle circostanze estreme”. Scholem accusò l’autrice anche di mancanza di “ahavat Yisrael”, “amore del popolo ebraico”. Un anno fa un’altra nota storica americana, Deborah Lipstadt, resa celebre per aver smascherato le “ricerche” dello storico negazionista David Irving, ha demolito la Arendt in un nuovo libro, “The Eichmann Trial”, edito da Schocken, la stessa casa editrice che all’epoca pubblicò la Arendt e che in Israele possiede il quotidiano di sinistra Haaretz. In copertina del libro c’è l’icona della Arendt, intellettuale pensosa con la sigaretta sempre accesa. “Per la Arendt, Eichmann era un uomo ordinario e ogni altro uomo ordinario avrebbe potuto fare ciò che ha fatto. E’ una lettura perversa della natura umana”, scrive Lipstadt, che non usa mezzi termini sulla Arendt neppure dal punto di vista personale: “flippant” (frivola) e “cruel” (crudele). La storica americana condanna anche il ruolo che ebbe nel ridare una verginità a Martin Heidegger, il filosofo tedesco che aderì al nazionalsocialismo e di cui Hannah era stata amante: “Lo ha aiutato nella carriera dopo la guerra minimizzando la sua affiliazione nazista”. Secondo Lipstadt, la minimizzazione dell’antisemitismo da parte della Arendt, che è servita alla cultura secolarista per trasformare Eichmann nel simbolo universale del totalitarismo, nasceva dalla biografia stessa dell’autrice: “A casa sua la parola ‘ebreo’ non veniva mai pronunciata. Accusò i sionisti di parlare il linguaggio di Eichmann”. La Arendt alla fin fine così si dimostrava aperta alla tesi della difesa di Eichmann: “Ho solo obbedito agli ordini, sono stato solo un dente di un ingranaggio, non sono mai stato antisemita”, senza attribuire la giusta importanza né allo svelamento inedito dei testimoni, né alla personale convinzione ideologica nazista che aveva spinto lui come milioni d’altri “vil signor Sammler osserva che “tutti (salvo certe bas-bleu) sanno che cos’è l’assassinio”. Tanti autorevolissimi studiosi hanno distrutto la tesi di Hannah Arendt. Come il grande esperto di mistica ebraica Gershom Scholem, secondo il quale la banalità del male non era altro che “uno slogan” e che ruppe pubblicamente con l’amica Hannah: “Trovo demagogico come tratti il modo in cui gli ebrei reagirono in quelle circostanze estreme”. Scholem accusò l’autrice anche di mancanza di “ahavat Yisrael”, “amore del popolo ebraico”. Un anno fa un’altra nota storica americana, Deborah Lipstadt, resa celebre per aver smascherato le “ricerche” dello storico negazionista David Irving, ha demolito la Arendt in un nuovo libro, “The Eichmann Trial”, edito da Schocken, la stessa casa editrice che all’epoca pubblicò la Arendt e che in Israele possiede il quotidiano di sinistra Haaretz. In copertina del libro c’è l’icona della Arendt, intellettuale pensosa con la sigaretta sempre accesa. “Per la Arendt, Eichmann era un uomo ordinario e ogni altro uomo ordinario avrebbe potuto fare ciò che ha fatto. E’ una lettura perversa della natura umana”, scrive Lipstadt, che non usa mezzi termini sulla Arendt neppure dal punto di vista personale: “flippant” (frivola) e “cruel” (crudele). La storica americana condanna anche il ruolo che ebbe nel ridare una verginità a Martin Heidegger, il filosofo tedesco che aderì al nazionalsocialismo e di cui Hannah era stata amante: “Lo ha aiutato nella carriera dopo la guerra minimizzando la sua affiliazione nazista”. Secondo Lipstadt, la minimizzazione dell’antisemitismo da parte della Arendt, che è servita alla cultura secolarista per trasformare Eichmann nel simbolo universale del totalitarismo, nasceva dalla biografia stessa dell’autrice: “A casa sua la parola ‘ebreo’ non veniva mai pronunciata. Accusò i sionisti di parlare il linguaggio di Eichmann”. La Arendt alla fin fine così si dimostrava aperta alla tesi della difesa di Eichmann: “Ho solo obbedito agli ordini, sono stato solo un dente di un ingranaggio, non sono mai stato antisemita”, senza attribuire la giusta importanza né allo svelamento inedito dei testimoni, né alla personale convinzione ideologica nazista che aveva spinto lui come milioni d’altri “vovolenterosi carnefici” al genocidio. La colpa principale di Hannah Arendt, la più grave secondo Lipstadt, consiste nell’aver assolto, nei fatti, l’antisemitismo: “I suoi commenti vennero fatti propri da teologi, intellettuali e umanisti, che abbracciarono la sua spiegazione universale del genocidio che li liberava dal nucleo antisemita della cultura europea. Arendt ci ha fornito una versione dell’Olocausto in cui l’antisemitismo ha un ruolo minoritario. Così, oggi in tanti commemorano le vittime ma si scagliano contro Israele”. Hannah Arendt è stata a lungo un tabù in Israele, tanto che la prima edizione ebraica del suo libro su Eichmann è soltanto del 2000. Fu nel 1997 che avvenne un parziale disgelo, con il seminario all’Istituto Van Leer di Gerusalemme. “Una vicenda di amore e odio”, l’avrebbe definita lo scrittore israeliano Amos Elon sulla New York Review of Books. Quello che più offese gli israeliani, secondo Elon, furono, oltre che gli scottanti contenuti della “Banalità del male”, i toni. Hannah era arrivata a chiamare il capo dello Judenrat di Berlino “il Führer ebreo”, oppure a dire, con un gusto esagerato per il paradosso, che Eichmann si era convertito alla “soluzione sionista del problema ebraico”. La Arendt guardava a Israele piena di pregiudizi: i poliziotti ebrei all’entrata del tribunale le apparivano tanto brutali da poterli definire gente “che obbedirebbe a ogni ordine”. Per non parlare di come definì il procuratore Gideon Hausner, “un galiziano”, in spregio agli ebrei dell’est Europa. Un articolo sulla New York Times Book Review la accusò “di difendere la Gestapo e di calunniare le vittime ebraiche”. Lo storico Alan Wald la chiamò “Hannah Eichmann”. Su un giornale tedesco, avrebbe raccontato Joachim Fest in un magistrale libro di memorie, “fecero circolare la voce che lei avesse attenuato la responsabilità del boia delle SS soprattutto per distrarre l’attenzione dalle simpatie per il nazismo del suo maestro Martin Heidegger”. In Francia il settimanale Nouvel Observateur pubblicò stralci del libro della Arendt con il titolo “Est-elle nazie?”: “E’ nazista?”. Gli ebrei tedeschi non la perdonarono mai. Siegfried Moses, scrivendo a nome del Consiglio degli ebrei di Germania lanciò una “dichiarazione di guerra” contro il libro. Pochi ma grandiosi i difensori. Hans Morgenthau, la cui review apparve sul Chicago Tribune, definì “superbo” il lavoro della Arendt. Dwight MacDonald, critico letterario fra i più noti d’America, la difese a spada tratta. Il poeta Robert Lowell parlò del libro come di un capolavoro. A favore della Arendt anche la recensione di Bruno Bettelheim, psicologo dei lager di fama mondiale, che ne scrisse per New Republic. Poche settimane dopo, l’Anti-Defamation League distribuì un opuscolo in cui invitava a non acquistare il libro. Leo Mindlin scrisse sul Jewish Floridian che la Arendt stava “scavando le future fosse ebraiche con l’applauso degli antisemiti del mondo”. Trude Weiss-Rosmarin, direttrice del Jewish Spectator, pubblicò una stroncatura sotto il titolo “Self-Hating Jewess Writes Pro-Eichmann Series for the New Yorker”. Ma non solo gli ebrei la attaccarono. Michael Musmanno, giudice della Corte suprema della Pennsylvania e magistrato ai processi di Norimberga, pubblicò una stroncatura feroce del libro sulla New York Times Book Review. Secondo Musmanno, la Arendt aveva come obiettivo della critica “lo stato di Israele, le sue istituzioni e leggi”. Sulla Partisan Review ne scrisse Lionel Abel, che chiamò l’autrice “Hannah l’Arrogante” per aver reso “Eichmann esteticamente accettabile e gli ebrei esteticamente ripugnanti”. La Arendt ruppe anche con la storica rivista per cui collaborava. Durissime le critiche della sinistra militante. Sul magazine Dissent apparve la recensione al vetriolo di Marie Syrkin, che la accusava di aver reso positivo soltanto un personaggio del libro: l’ufficiale delle SS. Anche il grande storico inglese Hugh Trevor-Roper attaccò il saggio sul Sunday Times accusando la Arendt di “menzogne, mezze verità e doppio standard Uno dei colpi più duri alla sua reputazione venne nel 1965, quando Jacob Robinson, che aveva preso parte al processo Eichmann come consigliere del pubblico ministero, pubblicò 400 pagine di denuncia dell’opera della Arendt dal titolo “And the Crooked Shall Be Made Straight”. A causa del libro, Hannah ruppe anche con il suo amico di sempre, Hans Jonas, l’autore de “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” e di audaci profezie sull’ingegneria genetica, che come lei aveva avuto una infanzia privilegiata a Mönchengladbach, vacanze d’élite e case con i quadri di Böcklin alle pareti. Jonas (che nel film della Von Trotta ha il volto di Ulrich Noethen) a Berlino farà la conoscenza dell’amico di un’intera vita, Leo Strauss, “spirito filosofico di primo rango, controrivoluzionario e carattere dei più forti, la figura filosofica più importante del nostro tempo”. Poi, nel 1924, l’incontro con la Arendt, “una ebrea cosciente ma del tutto ignorante su tutto quello che riguardava il giudaismo, combattiva e solitaria”. “Fummo, io e Hannah, immediatamente solidali l’uno con l’altra”. Romperanno sul sionismo, prima che su Eichmann. A Gerusalemme Jonas si arruola nella Brigata ebraica dell’Haganah: “Il senso dell’apparizione di Herzl nella nostra storia ha reso impossibile il comportamento del ghetto, il sionismo ci ha introdotto nell’arena della storia”. La pubblicazione di “Eichmann a Gerusalemme” distruggerà definitivamente una delle amicizie più feconde della storia della filosofia europea (Jonas chiamerà l’amica “ignorante”). Hannah Arendt fu attaccata da un altro storico isolato e incompreso, Raul Hilberg, che per molto tempo ha lavorato circondato da indifferenza e fastidio. Autore della monumentale “Distruzione degli ebrei in Europa” (2.400 pagine nell’ultima ristesura), austriaco di nascita, americano d’adozione e morto ottantunenne nel Vermont, Hilberg ci ha insegnato che i nazisti non erano un mostro atavico, ma un fenomeno terribilmente moderno. Scomparso nel 2007, Hilberg ha lasciato all’Università del Vermont un cassetto pieno di appunti su storici che considerava avversi al suo lavoro. Molte di queste missive riguardano Hannah Arendt, il cui lavoro su Eichmann diceva lo storico dell’Olocausto, “consiste solo in saggi poco originali associati al totalitarismo”. Una mancanza di stima che tuttavia Hilberg si rifiutò sempre di rendere pubblica. E una diffidenza quanto meno reciproca, dal momento che nel 1957, a Princeton, Hannah Arendt era nel comitato che rifiutò la pubblicazione del manoscritto di Hilberg che tanta fortuna avrebbe riscosso. Eppure molto accomuna l’analisi di Arendt e Hilberg. L’intuizione dell’autore della “Distruzione degli ebrei in Europa”, secondo cui l’Olocausto era un atto amministrativo e burocratico (una tesi molto simile a quella della Arendt), sconcertò gli studiosi. Lo storico Oscar Handlin lo accusò di “diffamare i morti”. Oggi sappiamo che Hilberg aveva ragione. Diceva che ogni volta che poneva grandi domande sull’Olocausto riceveva piccole risposte. Così divenne lo storico dei dettagli. Il simbolo di quanto accadde era una semplice “L”, quella con cui i tedeschi indicavano i treni “leer”, vuoti, al ritorno dai campi. Un clinico della distruzione, l’unico in grado di penetrare il micidiale processo di esproprio, ghettizzazione, deportazione, morte e occultamento degli ebrei. Per questo Hilberg detestava la spettacolarizzazione dell’Olocausto, la memoria trasformata in museo, resa oblio. Sempre per questo polemizzò con “Schindler’s List” di Spielberg (“non è un film sullo sterminio degli ebrei, è la storia di una persona, scandita da inesattezze. Ci vuole ben altro per raccontare l’annientamento di un popolo”). “La banalità del male” ha certamente rappresentato una ferita nella coscienza ebraica dopo Auschwitz, ma è anche grazie all’audacia intellettuale di Hannah Arendt, e alle minuzie di un Raul Hilberg, se oggi interpretiamo quel buco nero della storia europea che fu l’Olocausto come un fenomeno terribilmente moderno. Illuminista. E anche con Israele, Hannah si rappacificò durante la guerra dello Yom Kippur del 1973, quando scrisse che “una eventuale catastrofe in Israele mi colpirebbe più di ogni altra cosa”. Fu così che gli amici che un tempo l’avevano accusata se la ritrovarono al loro fianco, e quelli che l’avevano difesa e corteggiata stavolta la attaccarono per essere diventata una “sposa di guerra”.
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