Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, 02/04/2013, a pag. 33, l'articolo di Stefano Jesurum dal titolo " Paesaggi d'infanzia ad Auschwitz ".


Otto Dov Kulka, Paesaggi della metropoli della morte (ed. Guanda)
Sia dal punto di vista intimo che metodologico, è un ribaltamento assolutamente straordinario e dirompente quello che l'oggi ottantenne Otto Dov Kulka offre con Paesaggi della metropoli della morte (Guanda, pp.192 17, traduzione di Elena Loewenthal). Rinomato ricercatore, professore emerito alla Hebrew University di Gerusalemme, ha dedicato la vita allo studio del nazismo e della Shoah con un'attitudine rigorosa e obiettiva che lui stesso dice «sempre improntata a categorie storiche ben definite». Poi, all'alba dei 6o anni, per dieci anni, si affida quasi d'improvviso al proprio Io più profondo e lo lascia vagare per libere associazioni, partendo da una macchia nella neve, da un colore, magari da un odore. Un incontenibile ritorno del rimosso, fatto di sogni incubi emozioni. Così quell'Io più profondo si apre a se medesimo, a un registratore, a Chaia Bekefi («che mi ha convinto a iniziare a registrare le mie riflessioni»). E Kulka, per frammenti, riesce a descrivere le immagini «attinte alla mia memoria», esplora «il ricordo di ciò che nella mia mitologia privata chiamo "la Metropoli della Morte" o, per usare una formula di ingannevole semplicità, "Paesaggi d'infanzia ad Auschwitz"». Fino ad allora Otto Dov Kulka aveva vissuto una «dimensione del silenzio». In pochi, pochissimi sapevano che l'autore di questo libro speciale è un bambino praghese di u anni, deportato con la mamma a Theresienstadt, trasferito nel settembre del '43 a Auschwitz-Birkenau, nell'Ade, «il luogo dove apparentemente ho vissuto e sono rimasto per sempre, da quel giorno fino a questo, e dove sono tenuto prigioniero, condannato a vita, legato e bloccato in catene che non è possibile sciogliere. Ma dopo tutto sono solo un bambino, che è stato stretto in quelle catene da bambino ed è rimasto legato in ogni fase della crescita. La marcia e la fuga, la liberazione e tutto quello che seguì e che sono in grado di descrivere. Dico che sono stato legato e sono rimasto legato, o in catene, ma lo dico proprio perché lì non entrai mai, perché non misi mai piede in quei cortili, dentro quegli edifici. Ci girai intorno come una falena intorno a una fiamma, sapendo che era inevitabile cascarci dentro, eppure continuai a girarci intorno da fuori, volente o nolente — non dipendeva da me — mentre tutti i miei amici, le farfalle, non tutti ma quasi tutti, entrarono e non ne uscirono più». Un bambino che canta nel coro delle voci bianche l'Inno alla Gioia di Schiller musicato da Beethoven, «accompagnamento alle processioni... nei forni crematori». Che adesso come allora guarda il mondo con gli occhi di quel bimbo curioso anche in Lager dove «il colore è il blu chiaro: l'azzurro di un cielo estivo (...) il cielo rimane azzurro, amabile e lontano, lontanissimo in quella bèlla giornata estiva, remote colline azzurre, che non sembrano di questo mondo, fanno avvertire la loro presenza (...) e quando quel ragazzo, colui che ora sta registrando, si domanda — e se lo domanda molte volte — qual è la tua esperienza più bella tra i paesaggi dell'infanzia, dov'è che fuggi in cerca della bellezza e dell'innocenza tra i tuoi paesaggi d'infanzia, la risposta è: a quel cielo azzurro con gli aeroplani argentei, quei giocattoli, e la quiete e la tranquillità che sembrava esistere tutt'intorno; perché non colsi altro che quella bellezza e quei colori, e così mi sono rimasti impressi nella memoria». Fuoco e incenerimento. L'incenerimento di ieri, l'incenerimento di ciò che di ieri resta. Gli interrogativi supremi posti da Kulka sgorgano dal suo essere uno storico e un sopravvissuto. Ma la comprensione è impossibile, o indicibile, e i cancelli di Auschwitz-Birkenau si chiudono come la porta della parabola kafkiana Davanti alla legge. Il professor Kulka, l'uomo a cui la lettura della memoria-listica dello sterminio provocava la sofferente, totale incapacità di riconoscere la benché minima somiglianza con la propria esperienza, lui, vittima del fatale conflitto tra parola e memoria, ci fa dono con Paesaggi della metropoli della morte di una testimonianza unica e intimissima sui campi, una sorta di storia privata della storia, di storia senza la storia. E ci regala una «scena finale» che potrebbe perfino, forse, essere uno spiraglio di luce: quel suo andare, in una estiva sera d'autunno a Gerusalemme, ad accogliere lo Shabbat «con i figli dei figli e delle figlie di Giobbe il giusto».
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