Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 02/04/2013, a pag. 1-29, l'articolo di Roberto Toscano dal titolo "Teheran, voglia di normalità".
Roberto Toscano Iran, proteste dopo le ultime elezioni
Alla Stampa dovevano sentire la mancanza di Vittorio Emanuele Parsi, specializzato in lunghe articolesse che non analizzavano affatto, e passato poi ad altro quotidiano. Perciò hanno pensato di sostituirlo con Roberto Toscano, il quale, seguendo lo stesso stile di Parsi, rifila ai lettori un articolo sull'Iran il cui tasso di informazione è quasi pari a zero.
Eccolo:
Se analizzato sulla base di una rigida dicotomia democrazia/dittatura, il caso della Repubblica Islamica dell’Iran è sempre stato anomalo.
Il sistema politico-costituzionale nato con la rivoluzione del 1979 si caratterizzava infatti come ibrido, del resto come rivelato già dall’ossimoro «repubblica islamica»: un sistema teocratico in cui il Presidente viene eletto con voto popolare, ma in cui il suo potere è secondario e subordinato rispetto a quello esercitato da un Leader Supremo politicoreligioso; dove il Leader Supremo viene eletto da un’Assemblea degli esperti formata dall’alto clero sciita, peraltro eletta a sua volta con voto popolare; dove esiste un Parlamento, il Majlis, anch’esso eletto con voto popolare. Un voto che, fino alla contestata rielezione di Ahmadinejad nel 2009, era universalmente considerato come autentico, così autentico e non predeterminato da produrre risultati imprevisti, dall’elezione del riformista Khatami nel 1997 a quella del populista Ahmadinejad nel 2005. Una vera democrazia, dunque? Non proprio, dato che le liste degli aspiranti candidati a tutte le elezioni (sia quelle presidenziali che quelle parlamentari) vengono vagliati dal Consiglio dei Guardiani. Una specie di Politburo ideologico che elimina prima delle elezioni gli elementi che vengono considerati inaffidabili dal punto di vista sia della rivoluzione che della religione.
Ma la politica in Iran esiste, e come. Vale quindi la pena considerare le forze in campo e le prospettive in vista delle elezioni presidenziali del prossimo giugno.
Due i dati principali. Da un lato la fine della «fase Ahmadinejad», e dall’altro la messa fuori gioco, a base di repressione e intimidazione, dell’ipotesi di cambiamento che nel 2009 aveva preso corpo con la candidatura di Mir-Hossein Mousavi, oggi ancora agli arresti domiciliari. Una candidatura, va detto, tutt’altro che anti-regime, se si pensa che Mousavi era stato Primo Ministro (carica successivamente abolita da una revisione della Costituzione) negli anni 80, e che il suo riferimento ideologico era un richiamo alla «autentica» rivoluzione e al suo fondatore Khomeini (sarebbe a dire come un leninista nella Russia di Breznev). Ma nel 2009 il sistema, incarnato nel Leader Supremo Khamenei, ritenne che il pericolo di una deriva eccessivamente aperturista e pluralista avesse raggiunto - soprattutto in relazione alla crescita di una classe media colta e desiderosa di vedere l’Iran trasformato in un «Paese normale»- livelli inaccettabili, e preferì escludere il cambiamento riconfermando il pur problematico Ahmadinejad.
Già, perché Ahmadinejad, personaggio di secondo piano praticamente «inventato» da Khamenei nel 2005, ha ricoperto i suoi due mandati da Presidente in chiave di aperta insubordinazione nei confronti di quello che nella Repubblica Islamica è il vero potere, quello del «Rahbar». Ispirato dal messianismo sciita - con l’attesa del ritorno, per lui imminente, del Mahdi, il Dodicesimo Imam «occultatosi» nel IX secolo – Ahmadinejad è apertamente anticlericale, e implicitamente mette in dubbio il ruolo del Rahbar. Per fare un esempio riferito alla teologia cattolica, a che serve il Papa se Cristo sta per tornare sulla terra?
Ma lo scontro non è in realtà teologico, bensì politico e sociale. Ahmadinejad non è stato un nuovo Khomeini, ma piuttosto una sorta di Chavez iraniano (e infatti il suo rapporto con il Presidente venezuelano e’ stato particolarmente intenso e caloroso), capace di raccogliere consensi non certo fra le estese classi medie iraniane, ma piuttosto negli strati meno abbienti sia delle città che delle campagne.
Ahmadinejad sta terminando il suo secondo mandato in un clima di pesante scontro interno, con accuse incrociate di corruzione (probabilmente tutte ugualmente fondate) fra lui e i suoi oppositori nel regime, convinti che lo stile e il linguaggio di questo Presidente per molti versi impresentabile abbiano indebolito il sistema esasperando le divisioni interne.
A questo punto il sistema stesso, nel suo complesso, si sta chiedendo come, e con chi, rimettere le cose su un binario meno provocatorio, più razionale, più responsabile, meno disastroso per l’economia, un terreno - quest’ultimo - su cui gli iraniani denunciano sì l’effetto delle sanzioni, ma hanno ben chiaro il ruolo pesantemente negativo di una politica economica demagogica e inconsistente, fatta di misure «a singhiozzo», di ordini e contrordini. Questo è vero anche per quanto concerne la politica estera: non sono pochi quelli che nel regime ritengono assurdo e controproducente che Ahmadinejad abbia provocato il rigetto dell’opinione pubblica mondiale con il suo revisionismo sull’Olocausto, e la promozione a Teheran di una demenziale conferenza negazionista caratterizzata fra l’altro dalla partecipazione di neonazisti tedeschi, dell’ex Grand Wizard del Ku Klux Klan David Duke e di un gruppo di rabbini antisionisti.
Le campagne elettorali in Iran sono estremamente brevi, e quella per le prossime presidenziali non è ancora formalmente iniziata, ma si fanno già i nomi di possibili candidati: da Ali Larijani, esponente di una vera e propria dinastia di politici conservatori (e grande nemico di Ahmadinejad) all’attuale sindaco di Teheran Qalibaf, ex alto ufficiale dei Pasdaran, essenzialmente un modernizzatore, apprezzato sia dai conservatori moderati che dai riformisti di regime. E c’è chi non esclude addirittura l’azzardata ipotesi che possa ripresentarsi Khatami, la cui stagione di pur limitata riforma viene oggi vista con comprensibile nostalgia da molti iraniani. E se vogliamo essere ancora più ottimisti, non dovremmo trascurare una candidatura di cui alcuni hanno parlato, anche se viene considerata estremamente improbabile proprio perchè anomala e potenzialmente troppo innovativa per il regime: quella dell’attuale Ministro degli esteri Ali Akbar Salehi che, alla luce della sua familiarità sia con l’America (ha un PhD del Massachusetts Institute of Technology) che con la questione nucleare (è stato rappresentante iraniano all’AIEA e Direttore dell’ente nucleare iraniano) sarebbe la persona più adatta per promuovere una soluzione della questione-chiave dei rapporti Iran-Stati Uniti.
Ahmadinejad non si potrà ripresentare, visto il limite dei due mandati presidenziali, ma ci si chiede in Iran se sarà in grado di trasmettere i consensi popolari di cui ancora gode ad un candidato capace di proseguire il suo progetto politico populista. Alcuni osservatori iraniani esortano e non scartare del tutto il suo ruolo e la possibilità di una certa continuazione di «ahmadinejadismo senza Ahmadinejad», sia per il sempre forte richiamo del risentimento sociale verso tutte le élites, e soprattutto nei confronti della élite clericale, odiata in Iran non solo dalle classi medie laicizzanti (e in parte «post-islamiche»), ma anche da molti iraniani che mantengono un profondo orientamento religioso.
Quale che sia il candidato che finirà per prevalere, resta vero che il regime, per fermare i pesanti segnali di declino oggettivo e perdita di consenso, dovrà cercare di risolvere due questioni fondamentali: da un lato mettere l’economia sul piano di uno sviluppo industriale interno, meno esposto alla dipendenza da petrolio e gas (Ahmadinejad ha invece smantellato l’industria nazionale, aprendo le frontiere ai prodotti cinesi) e dall’altro rompere l’isolamento internazionale e ottenere soprattutto dagli americani un riconoscimento che viene universalmente considerato dagli iraniani di tutte le tendenze come un passaggio obbligato verso la grande aspirazione di diventare un Paese «normale». Certo, questo dipenderà anche dagli americani (e in misura molto minore dagli europei), che dovranno essere capaci di trovare, sulla questione nucleare, formule in grado di soddisfare le necessarie garanzie di sicurezza ma anche di riconoscere agli iraniani i normali diritti derivanti dal Trattato di Non-proliferazione. Capaci, in altri termini, di applicare il reaganiano «Trust but verify», mentre finora hanno preteso dall’Iran, considerato irrimediabilmente inaffidabile, una sorte di permanente capitis diminutio.
Nonostante tutte le anomalie del meccanismo istituzionale iraniano e nonostante i limiti del potere reale della carica presidenziale, l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica Islamica sarà comunque sia un importante segnale che l’occasione di una possibile svolta capace di scongiurare una nuova guerra in Medio Oriente e di aprire la via a una vita migliore, e più libera, per un antico, orgoglioso e importante popolo.
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