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La Repubblica-IlSole24Ore-Corriere della Sera Rassegna Stampa
31.03.2013 Tre libri per le vacanze pasquali: Israel J.Singer, Jan Karski, Andrea Morpurgo
Recensiti da Susanna Nirenstein, Sergio Romano, Sergio Luzzatto

Testata:La Repubblica-IlSole24Ore-Corriere della Sera
Autore: Susanna Nirenstein-Sergio Luzzatto-Sergio Romano
Titolo: «L'utopia pacifista dei Buddenbrook venuti dalla Polonia-Cimiteri in cerca di identità- Vide per primo gli orrori della Shoah, ma era troppo scomodo per Usa e Urss»

Tre libri per le vacanze pasquali, recensiti da Susanna Nirenstein, Sergio Luzzatto, Sergio Romano. Con alcune nostre osservazioni.

La Repubblica-Susanna Nirenstein: " L'utopia pacifista dei Buddenbrook venuti dalla Polonia"

"La Famiglia Karnowski" è in questi giorni il "Libro Raccomandato" di informazione corretta


La copertina           Israel Joshua Singer

Il re dei critici letterari Harold Bloom, parlando di scrittori intramontabili, ha dichiarato poco tempo fa che era Israel Joshua Singer (1893-1944) lo scrittore yiddish che avrebbe dovuto prendere il Nobel, lui, “il più talentuoso”, e non suo fratello minore, Isaac Bashevis (1902-1991) che invece lo vinse nel 1978 e distese un velo sulla notorietà dell’altro. E in effetti la sorte dei Singer ha qualcosa di paradossale perché finché è stato in vita era Israel quello famoso, quello che per primo aveva sfidato i cliché della letteratura ebraico orientale; Isaac, che per altro inunadedicalochiama“ilmiomaestro”, viveva quasi nella sua ombra.
Dunque, La famiglia Karnowski (1943) riscoperto dalla responsabile dell’ebraistica in Adelphi Elisabetta Zevi e ora pubblicato per la prima volta in italiano (di Israel Joshua Singer sono già usciti con altri editori "I fratelli Ashkenazi" e "Yoshe Kalbe") va letto con l’attenzione e la passione che si merita un grande: non ci si potrà che innamorare di un testo tanto profondo e amaro (con punte di leggerezza e comicità, comunque), di un affresco tanto variopinto che dispiega davanti ai nostri occhi tre generazioni di ebrei in movimento dalla Polonia delle tradizioni alla Berlino della modernità e più tardi del nazismo, fino alla libera e difficile New York, tutti uomini e donne drammaticamente divisi tra desiderio di assimilazione e identità.
Ma prima di addentrarsi nei personaggi e nel turbine che li avvolge, è giusto ricordare, proprio perché le fortuna letteraria l’ha per così tanto tempo trascurato, l’impeto e la “primogenitura” di Israel Joshua Singer: da quando ruppe in Polonia con la famiglia chassidica che l’aveva destinato al rabbinato e scelse come punto di riferimento l’Haskalà, il movimento illuminista ebraico, per poi studiare pittura, scrivere e andare a Mosca nel 1918, pieno di suggestioni rivoluzionarie che pensava avrebbero aperto una nuova era per gli ebrei dell’Est Europa. Vide troppo sangue, e anche troppo antisemitismo. Tornato nel ‘21 a Varsavia, già legato agli scrittori radicali yiddish del gruppo Di Khaliastre ( The Gang) che si opponevano al realismo sociale e al romanticismo, nel ‘23 iniziò a collaborare con Abraham Cahn, il potente editore del quotidiano yiddish newyorkese Forward, a cui mandò presto delle aspre corrispondenze dalla Russia sovietica, articoli che gli valsero l’antipatia di tutto il mondo filocomunista a cui aveva appartenuto. E lo spinsero a partire per l’America. E il più giovane Isaac? Lasciati gli studi rabbinici, aveva però ripreso docilmente a vivere con i suoi e a insegnare l’ebraico ai bambini del villaggio di Bilgoray finché Israel non gli trovò un lavoro a Varsavia, così come nel 1935 si fece raggiungere da Isaac a New York, dove l’impiegò nel “suo”
Forward. Ormai noto per quei suoi romanzi, racconti, contributi giornalistici che sprizzavano razionalismo, impegno, un’essenzialità ebraica di rottura con ogni superstizione religiosa (mentre Isaac già allora gioca con una sorta di dualismo morale che lo seguirà per sempre, da «libertino che non recise mai fino in fondo i lacci dei suoi filatteri di un tempo»), Israel Joshua Singer muore per un attacco cardiaco nel 1944 (e solo allora Isaac divenne uno scrittore pieno e prolifico), all’indomani della pubblicazione di questo La famiglia Karnowski, romanzo sulla parabola discendente di una famiglia che ha fatto pensare ai Buddenbrook, romanzo profetico perché Israel non sa ancora con certezza di Auschwitz, ma dipinge con pathos il fallimento verticale di ogni sogno pacificante e assimilazionista.
In primo piano David Karnowski, un mercante colto e ispirato dallo spirito logico della Hashkalà, che lascia il mondo “barbaro” delloshtetlpolacco per la luminosa Berlino convinto si possa e si debba essere «ebreo in casa e tedesco nel mondo», pronto a lasciare l’yiddish per sempre, a parlare la lingua di Goethe senza il minimo accento, a vestirsi di un’eleganza sopraffina, pronto ad affiancare gli ebrei residenti in Germania da generazioni così disgustati dalla primitività degli ebrei dell’Est. Il figlio Georg poi vuole andare oltre, vuole cancellare del tutto la sua identità cavalcando i primi bagordi goliardici, la I Guerra mondiale, i successi della sua professione medica: sposa una cattolica, circoncide il figlio Joachim da solo, senza rabbino, rompe col padre. La crisi post bellica sbalza comunque ognuno dalle sue certezze e il nazismo apre una voragine sbeffeggiando ogni ebreo, anche i più tedeschi dei tedeschi, togliendogli il lavoro: l’adolescente Joachim, che ama di sé solo la parte ariana, un giorno viene spogliato dal preside davanti alla scuola per dimostrare l’aberrazione della razza mista. E’ la fine. Chi può parte, anche i Karnowski. Ma nella New York delle libertà le difficoltà sono enormi: Georg si ritrova a fare l’ambulante come gli ebrei deglishtetl,il padre David lo scaccino in sinagoga, ma è Joachim a non sopportare ancora di essere un ebreo, a odiarsi fino a immedesimarsi in un gruppo di tedeschi filonazisti, fino al disastro. Solo chi non ha mai rinnegato se stesso come il semplice e geniale commerciante Salomon ha capito come si resta a schiena diritta.

Israel Joshua Singer-La Famiglia Karnowski- Adelphi editore-euro 20

Il Sole24Ore-Domenica-Sergio Luzzatto: "Cimiteri in cerca di identità"


Con la libertà di parola del romanziere, Giorgio Bassani aveva già detto molto, quasi tutto. Nel 1962, immaginando la tomba ferrarese dei Finzi-Contini, aveva detto le manie di grandezza funeraria che colsero gli ebrei italiani all'indomani dell'Unità, nel tempo felice seguìto all'Emancipazione: «La tomba era grande, massiccia, davvero imponente: una specie di tempio tra l'antico e l'orientale, come se ne vedeva nelle scenografie dell'Aida e del Nabucco in voga nei nostri teatri d'opera fino a pochi anni fa». «Ne era venuto fuori un incredibile pasticcio in cui confluivano gli echi architettonici del mausoleo di Teodorico di Ravenna, dei templi egizi di Luxor, del barocco romano, e persino, come palesavano le tozze colonne del peristilio, della Grecia arcaica di Cnosso». Bassani aveva detto, anche, il degrado sorprendentemente rapido di cappelle come quella dei Finzi-Contini, un degrado risalente già al primo dopoguerra: precedente la rovina delle famiglie israelite dopo le leggi razziali del 1938 e l'occupazione tedesca del 1943, precedente la distruzione degli ebrei di Ferrara come d'Italia e d'Europa. «Mezzo affondata nel verde selvatico, con le superfici dei suoi marmi policromi, in origine lisce e brillanti, rese opache dai bigi accumuli di polvere, menomata nel tetto e nei gradini esterni da solleoni e gelate, già allora essa appariva trasformata in quell'alcunché di ricco e di meraviglioso in cui si tramuta qualunque oggetto rimasto a lungo sommerso». Bassani aveva detto, insomma, il fascino rapinoso del cimitero ebraico in Italia: un frutto maturato e marcito nel breve volgere dei decenni che separarono le illusioni di Vittorio Veneto dalle promesse di Porta Pia. Sulla breve stagione durante la quale il cimitero ebraico poté liberamente svilupparsi in Italia come spazio identitario, l'architetto Andrea Morpurgo ha adesso scritto un libro che può valere da prima ricognizione storica. Una sistemazione della materia in ordine cronologico, e un inventario ragionato dei luoghi. Con tutto un apparato iconografico di planimetrie, stampe, fotografie d'insieme e di dettaglio, e con dovizia di rimandi archivistici e indicazioni bibliografiche. Prima dell'Emancipazione, la storia delle sepolture ebraiche in Italia corrisponde - naturalmente - a una storia di discriminazione. Le autorità municipali dei borghi o delle città dove si erano stabilite comunità ebraiche non autorizzavano la «sepoltura dei giudei» altro che extra muros, fuori porta. Ai cristiani lo spazio consacrato delle chiese o dei camposanti intra muros, agli ebrei zone di inumazione suburbane, niente più che un «Prato», un «Campo», un «Orto» (o anche, spregiativamente, un «Campaccio», un «Ortaccio»). E la raccomandazione fatta spesso agli ebrei di organizzare i loro funerali di notte, senza «publiche cerimonie, ne cantare, ne portar lumi»: così da sottrarsi, con il favore delle tenebre, alle altrettanto frequenti molestie dei cristiani. Dopo l'Unità, la fine delle interdizioni israelitiche dischiude anche agli ebrei la gran porta ottocentesca delle moderne necropoli costruite fuori le mura, monumentali città dei morti. In diversi casi, viene consentito alle comunità di aprire un «Reparto israelitico» annesso al nuovo cimitero cattolico: così a Torino, Milano, Genova, Bologna, Roma. In altri casi, si permette alle comunità ebraiche la ristrutturazione di antichi cimiteri autonomi o la costruzione di nuovi: così a Venezia, Trieste, Ferrara, Livorno, Firenze, Ancona, e in una varietà di centri minori dal Piemonte all'Umbria. È il mezzo secolo d'oro degli ebrei d'Italia, quello che va dall'Unità alla Belle Époque. E che non per caso coincide con l'epoca di costruzione delle maggiori sinagoghe. In sinagoga come al cimitero, gli ebrei cercano di esprimersi attraverso un'estetica che sia loro propria: ma non per questo la trovano. «Uno stile veramente "Giudaico" che io sappia non esiste» deve riconoscere allora il più dotato e il più quotato degli architetti italiani di origine israelita, il vercellese MarcoTreves. Nelle architetture delle sinagoghe come in quelle delle tombe, lo stile giudaico del mezzo secolo d'oro somiglierà fin troppo all'«incredibile pasticcio» descritto da Giorgio Bassani dopo mezzo secolo ancora con riferimento alla cappella di famiglia dei Finzi-Contini: sarà un'eclettica miscela di elementi as-siri ed egizi, di reminescenze o allusioni *** greche, di citazioni del gusto moresco. Più chiare e distinte, in compenso, appariranno le forme della sepoltura secondo la tradizione dei defunti, ashkenazita o sefardita: steli verticali per gli uni, lastre orizzontali per gli altri. E ricorrenti, nella trasparenza simbolica del loro significato, si faranno le presenze funerarie di Magèn David e Menorah, la stella a sei punte e il candelabro a sette braccia. Nel mezzo secolo d'oro degli ebrei d'Italia, le loro tombe raccontano la storia di una borghesia che, al pari di certa borghesia dei gentili, ama immaginarsi come nobiltà. È quanto Primo Levi, scrivendo del cimitero ebraico di Venezia, avrebbe poi definito «il tratto più curioso di queste tombe»: l'invenzione di uno stemma di famiglia, la strana corsa verso l'araldica di dinastie israelite che erano ben lungi dall'avere ricevuto - all'epoca dei ghetti - l'una o l'altra patente nobiliare. Lo stemma degli Abravanel, lo stemma dei Cabib, lo stemma dei Cohen, lo stemma degli Jona... «Oltre a tutto», noterà Levi, i blasoni rappresentavano «uno strappo al divieto biblico, "non ti farai immagini" (bisogna pure seguire i tempi, e il prestigio sociale è qualcosa)». Ancora Primo Levi, con il suo sguardo tanto acuto e la sua lingua tanto parlante: «Ma entro il contorno e gli svolazzi dello stemma si vedono simboli ebraici: il grappolo d'uva, le mani benedicenti dei Kohanim, la brocca dei Leviti, lo stilo degli scribi; o raffigurazioni tratte dal nome ebraico del defunto: il leone, il cervo, l'aquila, la colomba. In un unico contesto, in pochi palmi di pietra corrosa dal tempo, vediamo congiunta la fedeltà alla tradizione con il consenso alla vita: e del resto, nella Lingua Sacra, il cimitero è Bet-Hayyim, la Casa della Vita».

 Andrea Morpurgo, II cimitero ebraico in Italia. Storia e architettura di uno spazio identitario, Quodlibet, Macerata, pagg. 216, C 25,00

Corriere della Sera, LETTURA-Sergio Romano:"  Vide per primo gli orrori della Shoah, ma era troppo scomodo per Usa e Urss"

Nel 2010 l'editore Guanda ha pubblicato la biografia di Jan Karski "Il testimone inascoltato", di Yannick Haenel, ne consigliamo la lettura, insieme alla autobiografia recensita in questa pagine da Sergio Romano. Del quale non possiamo fare a meno di sottolineare - anche se la recensione è ineccepibile- una frase "..È stato scritto per esaltare il coraggio dei resistenti polacchi, ma è stato ricordato in questi ultimi anni soprattutto per gli episodi in cui l'autore descrive le condizioni dell'ebraismo nei territori amministrati dal Terzo Reich." 'Territori amministrati dal Terzo Reich" ? Poteva sfuggirci questa perla ? Perchè Romano non la usa anche quando scrive 'occupazione' per i territori palestinesi ? Quanto mai i nazisti hanno 'amministrato' i paesi europei che avevano invaso ?

 

V i sono libri che hanno una storia e una sorte non meno interessanti delle vicende che descrivono e raccontano. Uno di questi appare ora presso Adelphi nella traduzione di Luca Bernardini con il titolo La mia testimonianza davanti al mondo. È stato scritto da Jan Karski, ma il suo autore nacque Jan Kozielewski e fu anche noto per qualche anno con il nome di Witold Kucharsky. È la storia della Resistenza polacca contro i tedeschi sino alla partenza del protagonista per una missione a Londra e a Washington nell'autunno del 1942. Ma è anche un lungo «libro nero», pubblicato a New York nel 1944, per far conoscere alle democrazie occidentali, distratte da altri problemi, le tragiche condizioni della Polonia occupata e spartita da tedeschi e sovietici nel settembre 1939.
È un'autobiografia, ma i fatti narrati, i molti personaggi descritti e i luoghi esatti delle numerose avventure del protagonista sono stati in buona parte camuffati per compiacere gli Alleati (era opportuno non infastidire i sovietici) ed evitare informazioni che avrebbero permesso alla Gestapo di smantellare lo Stato clandestino costruito dai patrioti polacchi. È un'opera di propaganda, ma anche un testo letterario con qualche coloritura voluta dall'editore americano per meglio conquistare l'attenzione dei lettori. È un bestseller (360 mila copie, un centinaio di recensioni, duecento incontri pubblici dell'autore), ma scompare immediatamente dal radar dopo la guerra, è ignoto in patria durante gli anni del comunismo e appare a Varsavia soltanto nel 1999, dieci anni dopo la fine della guerra fredda.
Non basta. È stato scritto per esaltare il coraggio dei resistenti polacchi, ma è stato ricordato in questi ultimi anni soprattutto per gli episodi in cui l'autore descrive le condizioni dell'ebraismo nei territori amministrati dal Terzo Reich. Prima di partire per la sua missione in Occidente, infatti, Karski aveva incontrato i leader clandestini della comunità ebraica di Varsavia e visitato il ghetto per due volte, pochi mesi prima della rivolta che vi scoppiò nell'aprile 1943. Più tardi, vestito nell'uniforme di un poliziotto lettone o ucraino, volle vedere un campo di sterminio, nei pressi di Lublino, dove non esistevano camere a gas, ma vagoni ferroviari in cui i pavimenti erano ricoperti da uno spesso strato di calce viva e gli ebrei, nudi e schiacciati l'uno contro l'altro, morivano bruciati e asfissiati dalle esalazioni della calce al contatto con i loro corpi.
Nei suoi incontri con i servizi occidentali e con molti uomini politici britannici e americani, fra cui Anthony Eden e il presidente Roosevelt, Karski descrisse la condizione degli ebrei, trasmise i messaggi disperati che gli erano stati affidati dai maggiori esponenti clandestini del Bund (il partito socialista degli ebrei polacchi e lituani) e del movimento sionista, cercò di perorare la loro causa. Ma si scontrò quasi sempre con la reticenza di interlocutori molto imbarazzati e riluttanti ad assumere impegni che non rientravano in quel momento nelle loro maggiori preoccupazioni strategiche.
Dopo la medaglia di «giusto fra le nazioni», che gli fu consegnata a Gerusalemme nel 1982, e una lunga intervista a Claude Lanzmann per Shoah, un grande film realizzato in Francia fra gli anni Settanta e Ottanta, Karski uscì dal cono d'ombra in cui aveva trascorso una tranquilla vita accademica ed ebbe nuovamente una certa notorietà. Ma fu conosciuto e letto, da quel momento, soprattutto per il suo ruolo di osservatore e cronista del genocidio ebraico. Nel libro, tuttavia, esistono altre parti non meno importanti.
Vi è anzitutto il personaggio dell'autore. Nella tarda estate del 1939, Jan Kozielewski aveva 25 anni, apparteneva alla migliore borghesia di Varsavia, aveva studiato all'estero, era tenente di cavalleria della riserva, frequentava i balli delle ambasciate, si preparava a una brillante carriera diplomatica. Quando un postino lo svegliò, nel mezzo della notte del 23 agosto 1939, per consegnargli una cartolina precetto, era reduce da una festa durante la quale tutti gli ospiti avevano spensieratamente ballato e bevuto. Nella caserma di Oswiecim (una piccola città che i tedeschi chiamavano e la storia ricorda con il nome di Auschwitz), dove il suo reggimento venne dislocato nei giorni seguenti, prevalevano l'entusiasmo e l'ottimismo. Gli ufficiali s'interrogavano sulle reazioni della Francia e della Gran Bretagna, ma erano convinti che «ce l'avrebbero fatta da soli». Pochi giorni dopo Karski e i suoi compagni avrebbero dovuto ritirarsi verso est e sarebbero caduti nelle mani dell'Armata rossa che avanzava da oriente.
Comincia così una storia nel corso della quale l'autore rivela doti e qualità di cui lui stesso, probabilmente, non era consapevole. Impara a fuggire, a travestirsi, a nascondersi e, non appena sarà stato ammesso nei ranghi della Resistenza nazionale (Armia Krajowa, Esercito della nazione), riuscirà a recitare, secondo le necessità del momento, personaggi diversi. È colto, abile, parla bene l'inglese, il francese, il tedesco e viene usato soprattutto per i collegamenti con i gruppi resistenti di altre città. Dopo due missioni in patria, viene inviato in Francia, agli inizi del 1940, per descrivere al generale Sikorski, capo del governo polacco in esilio, il lavoro della Resistenza.
Parte per una seconda missione all'estero qualche mese dopo, ma viene arrestato dai tedeschi in Slovacchia, interrogato, torturato e ridotto in fin di vita dalla Gestapo. Un medico slovacco e i compagni della Resistenza lo aiuteranno a fuggire, lo nasconderanno nelle vesti del giardiniere in una villa abitata da una famiglia di resistenti e gli assegneranno il compito di organizzare i servizi di propaganda dello Stato clandestino che si è nel frattempo costituito nella Polonia occupata. Di lì a qualche mese verrà incaricato di una nuova missione che lo porterà in Gran Bretagna e negli Stati Uniti attraverso Berlino, Parigi, Perpignano, Barcellona e Gibilterra.
Il libro si legge come un romanzo ed è forse qua e là arricchito dall'immaginazione dell'autore, ma è uno straordinario tributo allo spirito di un Paese che ha sempre riscattato le sue imprudenze e affrontato le sue spartizioni con l'indomabile patriottismo dei suoi cittadini. Dopo avere contribuito a una migliore conoscenza della tragedia ebraica in Polonia, il libro di Karski parla oggi al lettore di una Resistenza polacca che per molti anni ebbe il «vizio» di spiacere all'Urss, al regime comunista polacco e forse anche a parecchi intellettuali di sinistra in Occidente. Gustaw Herling, che si batté contro i pregiudizi degli ambienti comunisti italiani, sarebbe lieto di apprendere che il libro di Karski è finalmente arrivato nelle nostre librerie.

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